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I luoghi del benessere. Cura del corpo e sintonia con l’ambiente

Anna Laura Palazzo

 

Professore Associato di Urbanistica
Università Roma 3

 

La ricerca del benessere è un orizzonte di attesa valido a tutte le latitudini e in ogni epoca storica.
Con riferimento alla tradizione occidentale, si considereranno due luoghi nei quali si sono identificate o realizzate condizioni di benessere inteso tanto come equilibrio fisico che come gratificazione intellettuale, che manifestano, al di là delle espressioni contingenti, il carattere di vere e proprie invarianti: le architetture termali, come scena privilegiata di una pratica collettiva imperniata sul motto latino “mens sana in corpore sano”, e i giardini delle delizie, che, almeno alla loro origine, declinano il benessere in una accezione strettamente privata e costituiscono dei “topoi” tra i meglio definiti nella loro materialità fisica come trascrizioni fedeli di principi formali, funzionali e sociali imperniati su ideali condivisi.

 

Benessere come cura del corpo

L’idea di terme si lega da tempi molto antichi a realizzazioni architettoniche destinate a svolgere una funzione specialistica anche in assenza di riconosciute proprietà curative delle acque impiegate per alimentarle. L’impegno con cui l’architettura si è cimentata nell’imbrigliare entro forme definite la sostanza mobile e multiforme dell’acqua rappresenta senz’altro un elemento di lunga durata nella storia degli impianti termali. Un’altra invariante si ritrova nella funzione ricreativa che ben presto affianca la pratica igienica contribuendo alla consacrazione delle terme come luoghi della socialità, poi come mete privilegiate di villeggiatura, e infine, nella riscoperta di questi ultimi decenni, come sedi di nuovi rituali salutistici.
La consuetudine di lavacri in acqua fredda in locali realizzati nei ginnasi e in altri edifici pubblici frequentati quotidianamente si deve al mondo greco: si trattava all’origine di una pratica frugale, occasionalmente ingentilita dall’introduzione di bagni caldi, a coronamento degli esercizi ginnici e di altre cure del corpo che, con il nuoto nelle acque di mare, facevano parte integrante della formazione del giovane: non saper leggere né nuotare suonava infatti come una nota di demerito. In tono con l’austerità dello stile di vita, i locali, a pianta generalmente rettangolare, erano disadorni, presentando tuttavia non di rado partizioni interne o colonne per schermare l’ambiente destinato alla vasca.
Nella rielaborazione ad opera del mondo romano, si assiste ad una evoluzione della tipologia dai primi esempi di età repubblicana che Seneca descrive come angusti e poco illuminati, fedeli alla tradizione greca anche nella scarsa concessione ai piaceri del bagno tiepido, sino ai grandiosi impianti di età imperiale, che attestano livelli funzionali e di rappresentatività davvero eccezionali, registrando tra l’altro l’assimilazione della consuetudine orientale dei bagni di sudore. La dimensione “urbana” di questi stabilimenti è resa tecnicamente possibile dalla maggiore disponibilità della risorsa idrica in relazione alla costruzione dei grandi acquedotti, nonché dalla messa a punto di procedimenti di riscaldamento imperniati sullo sfruttamento di intercapedini per la circolazione dell’aria calda realizzate sotto i pavimenti dei locali (sospensurae).
La consuetudine del bagno termale, accessibile ad un costo irrisorio, permea profondamente e durevolmente la vita quotidiana dei cittadini dell’Impero, dalle isole britanniche alle coste dell’Asia Minore e del Nord Africa. Nel perseguire l’ideale di sanitas introdotto dai greci, gli avventori si sottopongono in primo luogo a qualche esercizio ginnico nei diversi locali deputati allo scopo, oppure all’aperto, secondo le stagioni. Sostano poi negli ambienti riservati all’immersione nell’acqua, che nell’ampia piscina del frigidarium è disponibile a temperatura ambiente, mentre nelle vasche del calidarium e del tepidarium viene immessa dopo un riscaldamento più o meno prolungato. Queste pratiche vengono intervallate con dei bagni di sudore in un locale detto laconicon dove un flusso di aria calda e secca proveniente dall’intercapedine creata dalle sospensurae si diffonde attraverso particolari condutture in cotto dette fistulae che rivestono le pareti sino all’altezza desiderata. Tra copiose sudate nel laconicon e vigorose nuotate nelle vasche del frigidarium, tra esercizi e giochi all’aperto, il frequentatore abituale coniuga la cura del corpo a quella dei rapporti sociali, trascorrendo i pomeriggi alle terme, dove usufruisce di ampi spazi per lo svago, il gioco e la conversazione. Egli completa il rituale termale nell’apodyterium, lo spogliatoio, dove si unge il corpo con oli speciali e si deterge con lo strigilum, strumento metallico ricurvo, manovrato da schiavi personali o forniti dallo stabilimento. La separazione tra uomini e donne, dapprima realizzata attraverso la consuetudine di impianti o di orari separati, scompare gradualmente sino ad essere abolita.

Roma. Terme di Caracalla (212-217 d.C.).

 

La disgregazione dell’Impero e lo spopolamento delle città determinano un progressivo abbandono degli impianti termali; l’acqua, prima disponibile in quantità abbondante, scarseggia per il deterioramento o la distruzione degli acquedotti, ma le pratiche igieniche e salutari vengono accantonate anche per effetto di quel forte richiamo alla spiritualità dei primi secoli del Cristianesimo che respinge come peccaminoso il principio della cura del corpo.
Dopo il Mille, saranno i Crociati ad introdurre gradualmente nell’Occidente i rituali “passivi” del bagno all’orientale: nel cosiddetto “hammam” (bagno turco), in un ambiente confortevole e raffinato, nella penombra ottenuta attraverso una sapiente schermatura della luce diurna o con fioche lanterne, domina il principio del riposo in un perfetto isolamento dal mondo esterno. Se anche qui, come nella Roma Imperiale, il linguaggio architettonico manifesta una predilezione per le strutture voltate e le cupole, nell’usanza dell’immersione, che intervalla i bagni di vapore, non vi è memoria delle vasche per la natatio; nella consuetudine dei massaggi e di altre tecniche di rilassamento non vi è alcun ricordo dell’intensa attività fisica praticata nelle terme romane.
La graduale diffusione in tutti i paesi d’Europa di bagni e “stufe” all’orientale riporta al centro della vita pubblica rituali anche molto privati: questi rari locali riscaldati, inseriti nel tessuto cittadino senza alcun clamore architettonico, propongono condizioni di promiscuità che soltanto la specializzazione funzionale dei secoli successivi riuscirà ad eliminare: le donne vi partoriscono, gli ammalati si sottopongono a terapie rudimentali, altri avventori vi praticano attività quotidiane. Una serie di ordinanze tenderà a regolamentare gli usi dei bagni pubblici, se non a proibirne la frequentazione sotto la pressione delle epidemie o dietro l’incitamento delle autorità ecclesiastiche.
Non si perde però completamente la memoria di quei luoghi le cui acque manifestano proprietà particolari che hanno fama di curare affezioni morbose: alla fine del XIV secolo, i primi studi di idrologia medica, che supporteranno con l’osservazione empirica una nutrita tradizione orale circa le proprietà terapeutiche di alcune acque termominerali, inaugureranno lo sfruttamento sistematico di varie sorgenti naturali promuovendo il rito della “villeggiatura” nel segno di una proficua alleanza tra aspetti ricreativi ed usi curativi. In effetti, se la frequentazione di questi luoghi ha avuto inizialmente un carattere di necessità, il viaggio per motivi di salute viene oramai ritenuto socialmente giustificabile, almeno quanto quello legato a ragioni di pellegrinaggio o di commercio. Si estende quindi il campo delle possibilità e dei suggerimenti offerti a chi cerca riposo o distrazione, distacco dalle cure quotidiane o contatti diversi con il mondo esterno.

Un ricco immaginario sostiene spesso le proprietà terapeutiche e taumaturgiche delle acque termali.
Lucas Cranach il Vecchio. La fontana della Giovinezza, 1546.

L’aspirazione alla villeggiatura come evasione si intreccia inizialmente a una sorta di ideale sociale e cortese della vita agreste: la scelta della località appropriata, provvista di tutti i comfort e delle mondanità cittadine, vuole essere segno di distinzione e buon gusto, come osserva Carlo Goldoni nella sua fortunata “Trilogia” sull’argomento, dove peraltro prende le distanze, anche attraverso una graffiante introduzione, dalle mode e dagli isterismi connessi appunto alle “smanie per la villeggiatura” (1761).
Dalla metà dell’Ottocento, le nuove mode della “terapia dell’aria” e della pratica dei bagni sposteranno ulteriormente l’attenzione su “luoghi del benessere” all’aperto, in sintonia con nuove esigenze di ricreazione e gratificazione.
Il richiamo delle stazioni idrotermali, legato al riconoscimento ormai concorde dalla classe medica, e talvolta anche alla fama di aristocratiche frequentazioni raggiunge ben presto le élites economiche e infine il ceto medio.
La fortuna delle città termali si baserà soprattutto su di un richiamo elegante e discreto, classicamente “vecchio stile” sul piano delle attrazioni, ma accuratamente aggiornato sul piano dell’architettura e del comfort: i “curisti”, cui è prescritto anche il rito della passeggiata, si muovono in un décor suggestivo, con ampi parchi e giardini ben curati, tra stabilimenti balneari ed alberghi, teatri e caffé-concerti, sale per il gioco e gallerie coperte realizzati nel linguaggio dell’epoca: quello compassato del neoclassico, quello aulico proprio della stagione eclettica, quello rigoglioso del liberty, quello asciutto e sintetico del déco.

Il fascino discreto del richiamo termale. Montecatini, Terme Tettuccio, 1779.

Intorno alla metà dell’Ottocento, tuttavia, con l’affermarsi delle nuove mode della “terapia dell’aria” (la montagna) e della pratica del bagno di mare, la consuetudine di “passare le acque” inizia a perdere terreno: le prime località costiere con spiagge “attrezzate”, propagandate ormai come luoghi della salubrità per eccellenza, si sviluppano inizialmente nell’Inghilterra vittoriana, seguita a ruota dalle altre nazioni europee, con la complicità di una rete ferroviaria che consente persino forme di pendolarismo giornaliero.

(C)1994-95 Nicolas Pioch

Georges Seurat, Une baignade à Asnières, 1884.

Il declino delle città termali si è manifestato di pari passo con la graduale sostituzione della clientela originaria con una nuova utenza di lavoratori dipendenti, anche grazie ad una assistenza sanitaria particolarmente premurosa, e successivamente di anziani spesso intenzionati a risiedervi trasferendosi dai luoghi di origine.
Nell’ultimo ventennio, nuovi “luoghi del benessere”, non più o non soltanto condizionati dalla presenza di sorgenti curative, si sono imposti come edizione aggiornata e raffinata delle delizie termali del passato: con la complicità di un termine di importazione, come Wellness, una serie di servizi per il relax e la cura della persona tendono ad affermarsi sul mercato globale per un pubblico adulto meno fedele e fidelizzabile ai luoghi ma altrettanto abitudinario nei suoi periodici rituali di soggiorno.

 

Benessere come sintonia con l’ambiente

Un “topos” molto frequentato sin dall’antichità più remota è il giardino.
L’idea di luogo recintato, di “hortus conclusus”, che è alla base dell’etimologia di “giardino”, sostenuta da miti e leggende, è comune a molti ceppi linguistici. Nella tradizione giudaico-persiana “eden” è il giardino delle delizie, che la Bibbia riserva all’uomo prima del peccato, e in quella islamica il paradiso, con lo stesso significato, è il luogo destinato ai Giusti; ma anche visioni contingenti convergono sulla condizione di privilegio, se non di beatitudine, legata alla categoria dell’otium, efficacemente definita “non un tempo ma un modo di vita”, appannaggio esclusivo delle classi egemoni.

Lucas Cranach il Vecchio. Il giardino dell’Eden, intorno al 1550.

Nel corso dei secoli l’immaginario sociale ed estetico del giardino si è progressivamente modificato: da oasi di protezione dal disordine e dal contatto con i non eletti, da miniatura del mondo naturale o prezioso artificio, questo spazio riservato verrà rielaborato intorno alla metà dell’Ottocento dalle istituzioni dei governi costituzionali in forma di villa pubblica o di parco urbano.
Se alla base dell’ideale formale del giardino permane il principio dell’imitazione della natura come fondamento dell’arte, ripreso e incrementato nel XX secolo con l’inclusione di ampi inserti di natura spontanea, il ricorso ad elementi voluttuari anche incongrui continuerà a permeare la storia di questo particolare artefatto con effetti scenici imprevisti e sorprendenti.
Di pari passo, la cultura europea ha esplorato il tema delle corrispondenze tra paesaggio e stato d’animo, alla ricerca di consonanze profonde in grado di rasserenare e consolare l’individuo attanagliato dall’incertezza e dal dolore esistenziale. Per i personaggi del Decamerone riuniti in villa, il benessere è una condizione da conquistare, nonostante l’imperversare della peste. Ed è una condizione da ripristinare per Niccolò Machiavelli, costretto al ritiro dalla scena pubblica.
L’orizzonte campestre, schermato alla vista dal recinto dell’hortus conclusus nella finzione di Boccaccio, aperto invece e senza ostacoli nel caso dello statista fiorentino, rinvia a un riferimento remoto che la lontananza dalla città contribuisce a sottolineare.
Se l’esilio viene vissuto dal Machiavelli come l’occasione per fare di necessità virtù, per ritemprare e fortificare lo spirito turbato dalle avversità del momento, la campagna non ha qui il ruolo di mera opposizione alla città, come nella retorica esistenziale di un Lucrezio, che contrapponeva otium e negotium; tuttavia essa è ancora muto scenario, sia pure partecipe, di un dialogo interiore segnato da una intima adesione ai modelli del passato, ancora “paese” piuttosto che “paesaggio”, che nulla ha a vedere con quella forma di partecipazione soggettiva, quella “visualizzazione interpretativa e riflessa” cui perverranno nel Seicento gli inventori della pittura en plein air, collocando i propri cavalletti fuori dai recinti dei giardini.
Dall’Umanesimo in poi, un ideale cortese permea l’affermazione di un modello di cultura che è anche una dichiarazione di status sociale: le ville medicee riprodotte nella famosa serie di affreschi di Giusto Utens ci offrono l’immagine di un perfetto equilibrio tra manufatto edilizio e architettura dei giardini. La moda dell’insediamento in villa come luogo del riposo e del godimento estetico risale al cinquecento, quando il rifluire di capitali della classe mercantile dalla città al contado favorisce lo sviluppo di nuove possibilità di sfruttamento non solo economico della campagna e del paesaggio naturale, e di controllo dei suoi elementi.

Giusto Utens. Villa medicea di Castello (1599-1602).

Le nuove tecniche idrauliche e costruttive consentono ampie bonifiche delle pianure e soprattutto una valida regimazione delle acque di terreni anche in forte pendio sistemati a terrazzamenti. Le residenze di “villeggiatura” sulle colline lucchesi di cui Montaigne ha lasciato una ammirata descrizione nelle pagine del suo Voyage en Italie (1581) rappresentano capisaldi visivi di immediata percezione anche dalle residenze urbane, con cui danno vita ad una sorta di contrappunto dialettico. Esse presentano precise regole nell’organizzazione degli elementi di raccordo tra ambiente progettato e morfologia naturale e codificati rapporti spaziali e distributivi tra edifici ed aree di pertinenza. Quasi in omaggio alle leggi della prospettiva, il giardino è generalmente attraversato da un asse di simmetria che coincide con il viale di accesso alla proprietà attorno al quale si sviluppano gli orti “utilitaristici” con vigneti e oliveti, i cui prodotti sono parte non trascurabile del godimento del proprietario.
Il “giardino all’italiana” non è però soltanto il microcosmo protetto dai muri delle “chiuse” realizzato per il piacere dell’occhio, ma costituisce il campo per eccellenza delle sperimentazioni legate alle nuove concezioni dell’umanesimo, che rielaborano modelli e simbolismi legati a memorie classiche.
L’ostentazione del benessere e del rango sociale entrerà gradualmente a far parte di un nuovo immaginario del “giardino”, ormai dilatato a “parco”, fortemente intriso dei principi dell’assolutismo monarchico. Concezione che avrà le sue più interessanti espressioni in Francia, dove la classe aristocratica si compiace delle nuove sistemazioni paesaggistiche che sembrano “catturare l’infinito” attraverso scenografie impostate sui cannocchiali visivi delle infilate prospettiche di viali maestosi che ordinano in rigorose simmetrie le vaste e curatissime campiture a prato, le alberate, la dimora principale e le numerose dependances. A Versailles, spazi per le rappresentazioni, elaborati giochi d’acqua, labirinti, viali, siepi e gallerie verdi impreziositi da una accorta toponomastica rinviano ad un immaginario mitologico e simbolico il cui fulcro è e vuole essere il Re Sole (1682).

La “cattura dell’infinito”. Il Parco alla francese. Sistemazione di Versailles, realizzata dagli architetti
Louis Le Vau e dai paesaggisti André Le Nôtre e Charles Le Brun tra il 1664 e il 1710).

In opposizione alla versione “francese”, l’Inghilterra elabora un proprio modello di parco che costituisce una genuina espressione del liberalismo mercantile, un “topos” su cui l’intera cultura, non solo quella legata alle arti figurative, viene chiamata ad esprimersi.
Diverse generazioni di giardino “naturalistico” si susseguono nel corso del Settecento, accomunate da sapienti ricostruzioni e rimodellazioni di paesaggi aperti ad opera di architetti giardinieri, in cui anche l’ospite di passaggio può condividere con il padrone di casa i piaceri e i segreti di una vera e propria forma d’arte.
Gli olandesi, maestri nella tecnica topiaria e nella floricultura, esportano modelli ispirati ad una concezione di parco come elaborata successione di architetture vegetali capaci di suggerire atmosfere intime per lo svago o il raccoglimento. Gli echi di questa concezione saranno ancora evidenti nella estrema provincia europea così come appare in una novella di Cechov: “Quali mai ghiribizzi, ricercate mostruosità e beffe fatte alla natura non c’eran lì! C’eran lì spalliere di piante fruttifere, un pero che aveva la forma di un pioppo piramidale, querce e tigli di aspetto sferico, un melo foggiato ad ombrello, archi, monogrammi, candelabri e perfino un “1862” formato con susini: numero che indicava l’anno in cui Pessotski si era occupato per la prima volta di floricultura” (Il Monaco nero).
La dimensione estetica e contemplativa di questa perfezione artificiale contrasta singolarmente con l’apprezzamento della natura selvaggia che prende piede prevalentemente ad opera del movimento romantico. In entrambi i casi si tratta tuttavia di una disposizione all’ammirazione che fa propria l’idea di “quadro” di cui l’uomo si sente partecipe.

 

Altri traguardi del benessere

Una costante nella ricerca di una condizione di benessere psicofisico è rappresentata dalla identificazione tra paesaggio interiore e orizzonte esperienziale, che è spesso anche un “luogo mentale” denso di riferimenti simbolici e difficilmente riconducibile entro forme definite.
Di recente, le acquisizioni della psicologia sociale hanno indicato il valore di richiamo morale di alcuni archetipi simbolici che ricorrono nella lunga durata contribuendo a rafforzare la coscienza di una identità collettiva. La “foresta” è un “topos” che avrebbe avuto una sua notevole parte nella formazione del patrimonio ideale delle nazioni: in Germania come metafora di un senso di disciplina, in Francia come espressione di un ordine formale e morale, rappresentato dalle caratteristiche piantate, in Inghilterra come simbolo di libertà nel segno della natura, in America come “tramite” per il sublime, sostenuto da un vigoroso senso della natura senza altro filtro che quello di una sensibilità individuale e del comune sentire.
Ma alcune sfide lanciate dall’uomo contemporaneo nei confronti di nuovi e impensabili traguardi di dominio del mondo attraverso imprese individuali al limite del possibile sembrano minare profondamente l’armonia affidata a una “figura” e una “misura” che contrassegnava l’orizzonte esistenziale del passato: così è stato per le esperienze di conquista delle vette montuose dai versanti più scoscesi con equipaggiamenti anche minimi, per le esplorazioni condotte in luoghi proibitivi per condizioni climatiche, e, infine, così continua ad essere per le sfide estreme di alcune discipline sportive, come il free climbing.
Il superamento di limiti apparentemente invalicabili può dunque coincidere con percorsi di vita solitari, non inquadrabili come tali all’interno della categoria della “Storia”.
In una posizione intermedia tra dimensione eminentemente fisica e dimensione strettamente psicologica si colloca una concezione di benessere che potremmo definire dinamica, legata ad aperture degli orizzonti di conoscenza che soltanto l’esperienza del viaggio, con i suoi portati imprevedibili, consente di sperimentare appieno, dando modo all’individuo di confrontarsi con scenari aperti, mobili e variati.
Per il viandante dell’Alto Medioevo richiamato da una meta di pellegrinaggio, per l’umanista alla ricerca delle principali fonti di ispirazione o per l’erudito protagonista della stagione del Grand Tour, il “viaggio” è metafora di un percorso di conoscenza e di apprendimento talvolta persino più importante ed illuminante della destinazione finale. La dimensione del viaggio continua a mantenere intatto il proprio valore ermeneutico che nulla ha a vedere con il richiamo della villeggiatura o della vacanza avventurosa, sostanziato da allusioni lontane, oramai del tutto depotenziate, ai fasti e alle insidie della natura nelle sue varie forme.
Tuttavia, gli incanti e spaesamenti forniti anche a buon mercato dal business della realtà virtuale rischiano di mettere a repentaglio anche quella idea di summum bonum, o più modestamente, quella condizione di “benessere” che l’uomo ha dimostrato di saper coltivare attraverso l’ascolto della propria natura. Perché, come diceva Seneca, “viver bene vuol dire vivere secundum naturam; il sommo bene consiste nell’essere d’accordo con se stessi”.

Riferimenti bibliografici

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