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DAI FATTORI DI RISCHIO ALLO SCOMPENSO CARDIACO CRONICO

 

Claudio Di Veroli

Specialista in Nefrologia, Malattie del Fegato e del Ricambio, Malattie dell’Apparato Digerente.
Docente di Nefrologia - Università di Roma “Sapienza”.
Centro dell’Ipertensione Arteriosa e delle Malattie Metaboliche e Renali.

Casa di Cura “San Domenico” - Roma



ABSTRACT

Lo scompenso cardiaco cronico o insufficienza cardiaca cronica è un’importante modificazione strutturale (rimodellamento) e funzionale del cuore, che nel tempo si manifesta con segni e sintomi, tra cui quelli più rilevanti sono i disturbi respiratori. Le cause sono molteplici, ma possiedono un ruolo considerevole, in un “continuum cardiovascolare”, i fattori di rischio cardiovascolare e tra questi l’ipertensione arteriosa è prevalente con un’alta percentuale.

 

DEFINIZIONI E DIMENSIONE EPIDEMIOLOGICA DEL PROBLEMA

Le numerose definizioni dello scompenso cardiaco cronico (o insufficienza cardiaca cronica) tendono ad evidenziare soltanto alcuni aspetti specifici di questa sindrome complessa. Nessuna definizione, anche di organizzazioni autorevoli, però può essere considerata pienamente soddisfacente, perché non esistono valori di riferimento certi della disfunzione cardiaca che possano essere impiegati in modo attendibile per identificare i soggetti con uno scompenso cardiaco.

La diagnosi di tale patologia è attualmente basata sulla valutazione clinica, ovvero sulla storia clinica, sull’esame fisico e su appropriate indagini strumentali. Nonostante queste premesse “La Società Europea di Cardiologia” ritiene che le componenti essenziali per definire lo scompenso cardiaco debbano comprendere:

 

Nel 1935 (Poole-Wilson) fu proposta un’interessante definizione dello scompenso cardiaco, ma sempre su base strettamente clinica E’ una sindrome clinica, causata da una cardiopatia che ha determinato anomalie strutturali o funzionali ed è caratterizzata da un tipico quadro emodinamico, renale e neuro-ormonale”.

In precedenza nel 1933 un cardiologo (Sir Thomas Lewis)ci ricorda che “Il fulcro principale della cardiologia deve consistere nel precoce riconoscimento dello scompenso cardiaco”.

 

La tabella 1 riporta la nota classificazione dello scompenso, secondo la New York Heart Association (NYHA), che si basa esclusivamente sui segni e sui sintomi respiratori. Questa classificazione ci fa vedere con chiarezza, attraverso quattro classi, la storia naturale dello scompenso cardiaco: dalla fase senza disturbi respiratori, ma con la terapia, ad una fase con gravi disturbi (dispnea) nonostante un appropriato trattamento farmacologico.

Lo scompenso cardiaco, ovvero la difficoltà che ha il cuore di adempiere alle sue normali funzioni per la grave dilatazione o rimodellamento, costituisce il momento finale e comune di tutti i processi patologici a carico del miocardio e del sistema coronarico, con possibilità nel tempo di incidere sempre più in modo negativo sulla qualità della vita e sulla sopravvivenza. Proprio questa, più o meno lenta progressione verso lo scompenso per le alterazioni strutturali e funzionali con i relativi sintomi (dispnea, astenia, ecc.) e segni (edemi, rantoli, ecc.), viene generalmente definita come un continuum cardiovascolare nella storia naturale della malattia.

La prevalenza di morbilità e di mortalità attribuite allo scompenso cardiaco è elevata, la sopravvivenza è scarsa ed il trattamento non è sempre risolutivo. Il tasso di ospedalizzazione tra i 45 ed i 64 anni è andato aumentando dall’8,2 per 10.000 nel 1971, al 33,8 per 10.000 nel 1994. Si calcola che in Italia, come negli Stati Uniti d’America, l’insufficienza cardiaca sia presente nell’1% della popolazione generale e nel 10% della popolazione anziana (>65 anni). Studi prospettici ci informano che l’incidenza dello scompenso aumenterà negli anni nelle persone con oltre 65 anni. In particolare, nel 2026 i soggetti con oltre 75 anni affetti da tale forma morbosa saranno triplicati rispetto al 1996. Nei paesi industrializzati, pertanto, rappresenta un considerevole problema di sanità pubblica.

 

 

L’IMPORTANZA DEI FATTORI DI RISCHIO CARDIOVASCOLARE PER LO SCOMPENSO CARDIACO

L’importate studio di “Framingham” ha posto per primo l’attenzione sui fattori di rischio cardiovascolare nel favorire lo scompenso cardiaco prima e durante il continuum cardiovascolare. Tra questi fattori (noxae patogene) sicuramente l’ipertensione arteriosa gioca un ruolo rilevante (30-40% dei pazienti è iperteso!); infatti, proprio questo studio ha dimostrato, tra l’altro, che anche a parità di livelli di pressione arteriosa il paziente iperteso con la coesistenza di una ipertrofia ventricolare sinistra (ovvero con la presenza di un altro fattore di rischio cardiovascolare) ha una prognosi peggiore rispetto al soggetto iperteso senza ipertrofia ventricolare sinistra. In particolare, desideriamo ancora sottolineare, che una coorte del Framingham Study (n=9.404) è stata seguita per 40 anni, per evidenziare quale tipologia di paziente andasse incontro allo scompenso cardiaco congestizio. Tra i soggetti di sesso maschile (n=331) e quelli di sesso femminile (n=321) che hanno sviluppato lo scompenso cardiaco, rispettivamente il 35% ed il 37% dei soggetti, erano portatori soltanto di ipertensione arteriosa, mentre il 40% di entrambi i sessi erano nel contempo ipertesi e coronaropatici. A questo proposito non possiamo tralasciare di ricordare come anche le sole malattie coronariche (macro- micro-angiopatiche), specie nei paesi industrializzati, generino insufficienza cardiaca con una percentuale intorno al 20%.

     È difficile però che un soggetto abbia un solo fattore di rischio cardiovascolare. Essi tendono prima o poi a presentarsi in maniera associata (cluster) ed integrata nelle stesse persone. In particolare, le alterazioni metaboliche sono più frequenti negli ipertesi e l’ipertensione è più frequente nei soggetti con dismetabolismi, specialmente con il diabete del 2° tipo. La Tabella 2 ci fa vedere, secondo le  Linee Guida del 2007 dell’ipertensione arteriosa, i fattori di rischio che possono favorire lo scompenso cardiaco, alcuni di essi, specie i metabolici, attraverso la via del danno aterosclerotico coronarico a livello macro- e micro-angiopatico.

            In tutti i casi è molto importante identificare precocemente e con certezza il fattore o i fattori di rischio, in modo da rallentare con appropriati trattamenti l’evoluzione verso lo stato di scompenso più o meno manifesto.

 

 

DAI FATTORI DI RISCHIO ALLO SCOMPENSO CARDIACO

I processi che colpiscono il cuore possono avere un esordio acuto, essere insidiosi e subdoli e/o avere una maggiore o minore base genetica. Inizialmente, se non opportunamente corretti da un’appropriata terapia, determinano un’alterazione funzionale del ventricolo sinistro (disfunzione ventricolare), che può essere sistolica, per una ridotta contrattilità del miocardio con conseguente alterato stroke volume (il cuore non si contrae sufficientemente) oppurediastolica, per un alterato rilasciamento con conseguente modificato riempimento ventricolare (il cuore non si riempie sufficientemente). In particolare, nell’iperteso queste due disfunzioni possono coesistere: ad un’iniziale alterata funzione diastolica, che si associa all’ipertrofia ventricolare sinistra (iniziale rimodellamento o modificazione della forma), si può aggiungere la disfunzione sistolica, quando il ventricolo riduce le sue proprietà contrattili (cioè diminuisce l’effetto pompa, a causa di un grave rimodellamento)(Tabella 3).

 

 

DAL MODELLO CARDIO-RENALE A QUELLO COMPOSITO: EMODINAMICO E NEURO-ORMONALE

Il primo modello dell’insufficienza cardiaca è stato quello della teoria cardio-renale (1950-1960 circa) ove si riteneva sostanzialmente che la ridotta compliance cardiaca non fosse in grado di garantire un accettabile ed adeguato volume ematico alle richieste dell’organismo (scompenso anterogrado). Conseguenze di tale situazione erano considerate l’edema, a causa di una ridotta escrezione idro-elettrolitica, ed il decremento dell’accoglimento del sangue verso l’atrio destro con successivo incremento della pressione intravascolare (scompenso retrogrado).

            Successivamente prende corpo il modello della teoria emodinamica o cardio-circolatoria (1960-1980 circa) che considerava l’alterazione cardiaca (noxa) causa della riduzione della forza contrattile cui faceva seguito una cronica costrizione periferica riflessa di tipo artero-venosa. Si veniva a determinare un disordine emodinamico, ovvero una costrizione venosa (aumento del pre-carico) ed una costrizione arteriosa (aumento del post-carico) con difficoltà di perfusione ad organi ed apparati ed incremento ulteriore di lavoro per il muscolo cardiaco sino allo scompenso. La riduzione della perfusione interessava pertanto i muscoli, con conseguente deficit motorio, e i reni che, attraverso la ritenzione idro-salina, favorivano gli edemi. Si effettuavano terapie centrate su farmaci inotropi positivi e vasodilatatori periferici. Questi inducevano un miglioramento clinico, ma non risolvevano il problema di fondo.

            Il modello emodinamico, tecnicamente perfetto, venne però migliorato da osservazioni scaturite dai grandi trial clinici agli inizi degli anni ’80, ove vennero affrontate, con metodiche più avanzate, le problematiche legate allo scompenso cardiaco e alle sue anormalità. La domanda che gli Autori/Ricercatori si posero era: “La terapia utilizzata era in grado di modificare la storia naturale di questa sindrome, gravata ancora da un alto tasso di mortalità”? La risposta data fu “no”: “La terapia in uso non modificava la mortalità di queste persone”. Verso la fine degli anni ’80, infatti, alcuni studi scandinavi identificarono l’uso, apparentemente illogico, dei beta-bloccanti nello scompenso cardiaco: emergeva così il concetto neuro-ormonale che arricchiva quello dello squilibrio emodinamico.Iniziarono a questo punto studi clinici con farmaci capaci di antagonizzare l’iperattività del sistema adrenergico e successivamente anche del sistema renina-angiotensina-aldosterone sull’end-point primario che era la riduzione della mortalità.I risultati chiarirono in tempi relativamente brevi che l’antagonismo verso i sistemi neuro-ormonali alterati migliorava la morbilità e la mortalità cardio-vascolare.

            In seguito furono identificati altri sistemi, variamente interagenti, che contribuivano anch’essi al decremento della funzione cardiaca (sistema nervoso parasimpatico, arginina-vasopressina, peptide natriuretico atriale, peptide natriuretico cerebrale, prostaglandine, tumor necrosis factor, endotelina, ecc.).

 

 

I PRINCIPALI SISTEMI NEURO-ORMONALI ALTERATI

Il sistema adrenergico (sistema simpatico) è profondamente alterato nelle sue funzioni durante il lento e progressivo divenire che porta allo scompenso cardiaco (continuum cardiovascolare), favorendo un vero e proprio rimodellamento del muscolo cardiaco (miocardio). Nel muscolo cardiaco i nervi del simpatico diventerebbero mal funzionati e potrebbero perdere la loro ordinata capacità di sintetizzare, immagazzinare e rilasciare noradrenalina.Queste condizioni favorirebbero una continua stimolazione adrenergica, con aumento del consumo di ossigeno, modificazione dell’espressione delle proteine contrattili, ipertrofia ventricolare e perdita di miociti funzionanti (anarchia adrenergica).

L’altro sistema che viene fortemente interessato nello scompenso cardiaco è il sistema renina-angiotensina-aldosterone che è presente in molti tessuti ed organi dell’organismo. Quando il sistema viene attivato, come nello stress meccanico (da ipertensione), può sovra-esprimersi, svolgendo in tal modo alcune importanti funzioni che possono risultare “esagerate”, come la regolazione del tono dei vasi coronarici, l’azione inotropa positiva, l’azione cronotropa positiva, lo stimolo alla crescita delle cellule miocardiche (ipertrofia dei cardiomiociti) e lo stimolo alla crescita dei fibroblasti (fibrosi del miocardio). Tale condizione è in vari modi anche favorita dall’aldosterone che è presente in eccesso e che aggrava ulteriormente lo scompenso cardiaco.

Esistono, abbiamo accennato, altre sostanze e sistemi che giocano un importante ruolo nello scompenso cardiaco, come il peptide natriuretico cerebrale (BNP), che è un marker di scompenso cardiaco (indicatore di un’elevata pressione intra-cardiaca) con un buon valore diagnostico e prognostico perché consente di monitorizzare il trattamento. A proposito di diagnosi più recentemente lo studio BACH (Biomarkers in Acute Heart Failure) ha dimostrato la non inferiorità diagnostica del MR-proANP (Mid-Regional pro-Atrial Natriuretic Peptide)(>120pmol/l) rispetto al BNP (>100 pg/ml), consentendo pure di monitorare la terapia.

 

 

LE PRINCIPALI MANIFESTAZIONI CLINICHE DELLO SCOMPENSO CARDIACO

Le manifestazioni cliniche possono essere così brevemente distinte, oltre, ovviamente, all’aspetto e alle condizioni generali del soggetto:

1.     Alterazioni respiratorie:

o   Dispnea: nelle fasi precoci compare soltanto dopo sforzo, successivamente, con l’avanzare dello scompenso si arriva ad uno stato dispnoico anche a riposo o per sforzi moderati.

o   Ortopnea: dispnea che impedisce di rimanere in posizione supina, è una manifestazione tardiva dello scompenso cardiaco.

o   Dispnea parossistica notturna: con l’asma cardiaco e l’edema polmonare esprime e rappresenta una grave insufficienza del ventricolo sinistro, che non riesce a mantenere un’adeguata portata cardiaca.

o   Respiro di Cheyne-Stokes: a seguito di una diminuita sensibilità verso il centro respiratorio, vi è una fase di apnea ed una fase di respirazione (respiro periodico o ciclico).

o   Rumori o crepitazioni da stasi polmonare, con trasudazione di fluidi negli spazi interstiziali.

2.     Altri sintomi:

o   Aumentata probabilità aritmica.

o   Anemia per il decremento del flusso di sangue a livello renale  (ridotta portata cardiaca) con  conseguente ipoproduzione di eritropietina.

o   Affaticamento e debolezza.

o   Sintomi addominali: anoressia, nausea e dolori (prevalentemente per congestione).

o   Sintomi cerebrali: specie gli anziani possono avvertire uno stato di confusione in relazione alla ridotta perfusione cerebrale.

o   Ma anche: nicturia, oliguria, edemi declivi, turgore delle giugulari, ecc.

 

 

LA LOGICA E I PRINCIPI DELLA TERAPIA

La logica del trattamento dello scompenso cardiaco è quella di limitare l’iperfunzione neuro-ormonale (la sovra-esposizione) e di migliorare l’emodinamica. Seguendo i filoni di ricerca attuali possiamo considerare:

·      La riduzione dell’aumentata attività adrenergica (utilizzo di beta-bloccanti ed alfa-beta-bloccanti);

·      L’antagonismo delle azioni negative del sistema renina angiotensina-aldosterone (impiego di ACE-inibitori, antagonisti recettoriali dell’angiotensina II ed anti-aldosteronici).

Per quanto riguarda gli anti-aldosteronici lo studio EMPHASIS-HF (Eplerenonein Mild Patients Hospitalization and Survival Study in Heart Failure) ha dimostrato in tempi relativamente recenti che nello scompenso cardiaco, specie se sintomatico ed unitamente al classico trattamento, può essere indicato l’utilizzo dell’eplerenone (25-50 mg/die) anche per livelli di insufficienza cardiaca molto elevata (FE <35%), che controindica l’utilizzo dei classici anti-aldosteronici.

            Secondo un sotto-progetto dello studio SHIFT (Systolic Heart failure treatment with the If inhibitor ivabradine Trial) anche l’ivabradina (derivato del verapamil) potrebbe essere utilizzata in questi casi. E’ stato dimostrato infatti che nei soggetti con scompenso cardiaco cronico, ma con un ritmo sinusale sotto-trattati o non trattati con i beta-bloccanti, l’end-point primario (morbilità o mortalità cardiovascolare per insufficienza cardiaca) risultava ridotto in modo significativo nei soggetti che erano stati trattati con ivabradina.

Non va tuttavia dimenticata la storica terapia diuretica dell’ansa e digitalica, che peraltro, al momento attuale delle nostre conoscenze, non modifica in modo significativo la progressione verso lo scompenso cardiaco e la morte, progressione che invece è ridotta dall’antagonismo neuro-ormonale. La loro efficacia è legata essenzialmente ad un miglioramento dei segni e dei sintomi legati alla ritenzione di fluidi (edema, congestione). I diuretici dell’ansa si preferiscono se coesiste una ridotta funzione renale, altrimenti si dovrebbero impiegare i sodiuretici, e la digitale (digossina), con incremento per quest’ultimo prodotto dell’inotropismo a causa di un’aumentata concentrazione di calcio a livello delle cellule cardiache.

            Il trattamento deve anche prevedere un’energica correzione dei fattori di rischio cardiovascolare (Tabella 3), che possono alterare ulteriormente la muscolatura del cuore e il sistema delle coronarie e l’utilizzo di sostanze (nitrati) per migliorare il pre- e post-carico. Accanto alla terapia specifica dello scompenso non dobbiamo dimenticare altre terapie, come quella anticoagulante o anti-piastrinica (rischio trombo-embolico) ed anti-aritmica (20-25% dei casi).

La terapia farmacologica, infine, deve sempre seguire ed essere accompagnata da un trattamento non farmacologico o meglio da un miglioramento dello stile di vita. Questo consiste essenzialmente in un vitto quantitativamente con poche calorie e, per qualità, orientato all’utilizzo in prevalenza di carni bianche (pesce, coniglio, tacchino, pollo e faraona), di frutta e di verdure associate ad olio extra-vergine di oliva (no vergine di oliva) e ad una ridotta assunzione del sale da cucina (4-5 g/die). Una discreta attività fisica di tipo aerobica, effettuata per almeno tre volte la settimana accompagnata da alcune passeggiate specialmente nei giorni senza attività fisica, devono completare la terapia, che in una parola può risultare e venir definita come “un eccellente stile di vita”, se eseguita nel suo insieme con scrupolo.

 


Tabella 1 - CLASSIFICAZIONE DELLO SCOMPENSO SECONDO LA NEW YORK HEART ASSOCIATION (NYHA)
I segni e i sintomi dello scompenso (valutazione obiettiva) possono essere utilizzati per stabilire in classi la severità della sindrome (capacità funzionale) e per monitorare gli effetti della terapia.

 

Classe I - SCOMPENSO ASINTOMATICO
Nessuna limitazione:l’attività fisica abituale non provoca astenia, dispnea, né palpitazioni (i pazienti devono avere segni obiettivi di disfunzione cardiaca e nell’anamnesi sintomi di scompenso ed essere in terapia con farmaci utili per porre in equilibrio funzionale lo scompenso).

Classe II - DISPNEA PER SFORZI INTENSI
Lieve limitazione dell’attività fisica:benessere a riposo, ma l’attività fisica abituale provoca affaticamento, dispnea, palpitazioni o angina pectoris.

Classe III - DISPNEA PER SFORZI LIEVI
Grave limitazione dell’attività fisica:benessere a riposo ma attività fisiche di entità inferiore a quelle abituali provocano sintomi sino a quelli di tipo coronaropatici.

Classe IV - DISPNEA A RIPOSO
Incapacità a svolgere qualsiasi attività senza disturbi: sintomi e segni di scompenso sono presenti anche a riposo, con aumento dei disturbi ad ogni minima attività.

 

 

Tabella 2 - FATTORI  DI  RISCHIO CARDIOVASCOLARE SECONDO LE ULTIME LINEE GUIDA DELL’IPERTENSIONE ARTERIOSA (2007)

 


Tabella 3 – SCHEMA DELLA STORIA NATURALE DELLO SCOMPENSO CARDIACO CRONICO

Ipertensione e/o altri fattori di rischio cardio-vascolare

non modificabili e modificabili (noxae patogene)

si inizia a determinare lo stato disfunzionale del miocardio

Danno cardiaco favorito anche

da pregresse o concomitanti malattie

lesioni del miocardio, delle coronarie e/o del microcircolo

Alterazioni neuro-ormonali, microangiopatie,

modificazioni emodinamiche con riduzione della portata renale,

alterazioni flogistiche (sovra-espressione di citochine e chemochine), modificazioni metaboliche, ecc.

progressiva riduzione di efficacia dei meccanismi di compenso, rimodellamento ventricolare

 ed aumento di angiotensina II ed aldosterone

Ulteriore riduzione dell’inotropismo cardiaco

graduale incremento delle resistenze periferiche (pre- e post-carico) e del riassorbimento idro-salino

Ulteriore perdita della funzione cardiaca sino allo scompenso

che da asintomatico diventa francamente sintomatico

 


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