notiziario Febbraio 2012 N°2 - DEPRESSIONE COME MALATTIA SISTEMICA II° parte

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NOTIZIARIO Febbraio 2012 N°2

"DEPRESSIONE COME MALATTIA SISTEMICA"

parte II°

 

 

A cura di:
Giuseppe Di Lascio e Susanna Di Lascio

 

Con la collaborazione di:

Bagalino Alessia, Bauzulli Doriana, Di Lascio Alessandro, Di Lascio Susanna, Levi Della Vida Andrea, Melilli Simonetta, Pallotta Pasqualino, Sesana Giovanna, Stazzi Claudio, Zimmatore Elena


IL MODELLO FISIOPATOLOGICO DELLA DEPRESSIONE

Mentre Freud raffigurava il modello della depressione come una risposta a una perdita interna associata a una mancanza di autostima e sentimenti di colpa e derivante dalla rabbia e dall'aggressività contro se stesso, in seguito la biologia moderna, introducendo il trattamento farmacologico verso il sistema monoaminergico da parte dei TCA (antidepressivi triciclici), SSRI (serotonin reuptake inhibitors) / SNRI (Serotonin-Noradrenalin Reuptake Inhibitors), IMAO (inibitori delle monoamino ossidasi), ha indicato, invece, i disturbi del sistema neurotrasmettitoriale come gli elementi essenziali nella patogenesi della malattia. In effetti, la depressione si caratterizza come un’infermità eterogenea derivante, in concomitanza a eventi psicosociali scatenanti, da una disfunzione dei diversi sistemi metabolici o dei trasmettitori cerebrali. In conformità a tale ipotesi, sono state condotte ricerche, per definirne soprattutto i ruoli, sulle sostanze localizzate nei tratti e nei nuclei cerebrali, implicate nella regolazione del sonno, della ricompensa, dell’appetito e dell’espressione delle emozioni: la noradrenalina (NA), la serotonina (5HT), la dopamina (DA). Contemporaneamente, si sono svolti studi clinici e di base per chiarire il meccanismo d’azione dei farmaci antidepressivi. Particolare interesse, peraltro a tale proposito, è derivato dalla segnalazione che la reserpina e altri composti, che depletano il contenuto di catecolamine a livello centrale e periferico, possono indurre i sintomi depressivi.


l'ipotesi aminergica della depressione

In tal modo, si è composta l'ipotesi aminergica della depressione, basata sull’alterazione dei sistemi monoaminergici coinvolti nell'elaborazione affettiva e nelle risposte vegetative e comportamentali, conseguenti alle stimolazioni ambientali o interne. In effetti, questa ipotesi ha ottenuto parziale conferma con gli studi di deplezione, i quali, invalidando l’efficacia degli SSRI (serotonin reuptake inhibitors), hanno provato come l’alimentazione priva di triptofano, con consequenziale riduzione del contenuto di 5HT cerebrale, sia in grado di slatentizzare, ma non in volontari sani, i sintomi depressivi nei casi con pregressa malattia. Peraltro, l’alfa-metil-p-tirosina, inibitore della tirosina idrossilasi, è in grado di annullare la risposta terapeutica alla desmetilimipramina, farmaco che potenzia con la deplezione di NA la trasmissione noradrenergica. In effetti, sarebbe da alcune evidenze un certo deficit dei sistemi noradrenergici del simpatico periferico nella depressione maggiore, come la riduzione dell’attività della renina plasmatica (PRA) in ortostatismo, che può considerarsi un marker dell'attività adrenergica. A tale scopo, l'acido 3-  metossi-4- idrossifenilglicole (MHPG), principale metabolita escreto nelle urine della noradrenalina, si riscontra nei pazienti con disturbi affettivi con un’ampia variabilità, tanto da non essere utile come marker specifico.
Perciò, pur essendo la fisiopatologia del disturbo depressivo maggiore non ancora chiaramente definita, alcuni studi clinici e preclinici indicherebbero l’importanza dell’alterazione dell’attività serotoninica (5-HT) ed anche di altri neurotrasmettitori, come la NA e la DA a livello del SNC (sistema nervoso centrale).

Di certo, il ruolo della 5-HT, oltre che dalla dimostrazione clinica in una fase di remissione della ripresa acuta, transitoria dei sintomi depressivi con la deplezione del triptofano, causata dalla riduzione temporanea dei livelli di 5-HT nel sistema nervoso centrale, è suggerito soprattutto dall’efficacia degli SSRI nel trattamento del disturbo depressivo maggiore. Interessante, quindi, è il dato che i neuroni che producono serotonina, implicati nei disturbi affettivi, si ritrovano nel nucleo del rafe dorsale, nel sistema limbico e nella corteccia prefrontale sinistra. D’altra parte, anche il disturbo affettivo stagionale, forma di quello depressivo maggiore, scatenato verosimilmente dalle alterazioni del ritmo circadiano e dell'esposizione alla luce solare, è legato alle modificazioni dei livelli di 5-HT nel SNC.


la base neurochimica della depressione

Pur tuttavia, la teoria monoaminergica della depressione appare abbastanza semplicistica e numerosi studi tenderebbero a riconoscere una base più complessa ai cambiamenti dell’umore, del sonno, dell’appetito, dell’attività locomotoria e sessuale, della temperatura corporea, delle funzioni cognitive. Degni di menzione sono gli studi che hanno dimostrato la diminuita espressione della tirosina idrossilasi e dei recettori b-adrenergici e serotoninergici e un’alterata attività funzionale di alcune specifiche sub unità delle proteine G e dell’adenilatociclasi dopo la somministrazione ripetuta dei farmaci. Gli antidepressivi, quindi, interferirebbero non solo con la produzione e il rilascio delle catecolamine, ma anche con i meccanismi di trasduzione del segnale di quei neurotrasmettitori che sono implicati nella patogenesi e nel trattamento della depressione. L’intervallo di efficacia terapeutica dei farmaci antidepressivi potrebbe, quindi, essere determinato dalla loro necessità di indurre i cambiamenti adattativi nei meccanismi di trasduzione del segnale. Da notare, peraltro a tale proposito, che, mentre l’azione primaria dei farmaci sui trasportatori o sui recettori si verifica rapidamente, la loro efficacia si manifesta solo dopo tre o quattro settimane, suggerendo il ruolo importante di una serie di fenomeni successivi attivati dall’azione primaria. L’up-regulation o sensitizzazione è, di certo, uno di questi eventi e si realizza durante il trattamento prolungato. Rientrerebbe in tale ordine anche la down-regulation o desensitizzazione, a seconda che l’efficacia aumenti o diminuisca. I recettori b e a1 nella sinapsi noradrenergica e i recettori 5-HT2A/2C della sinapsi serotoninergica vanno incontro, in effetti, a una down-regulation, riduzione di sensibilità e numero, come risposta al trattamento prolungato con gli antidepressivi.
In tale capitolo il BDNF (Brain-derived neurotrophic factor) potrebbe coprire un ruolo importante. Difatti, lo stress si è rilevato un fattore della sua riduzione drammatica con conseguente atrofia o addirittura morte dei neuroni di particolari aree cerebrali, come l’ippocampo. Peraltro, l’area ippocampale di alcuni depressi è stata rinvenuta lievemente ridotta di volume e l’atrofia o ancor più la morte cellulare dell’ippocampo, in particolare dopo lo stress, potrebbe essere alla base dell’insorgenza della depressione, almeno in parte per riduzione del BDNF. A tale riguardo, da una parte si comprenderebbe il ruolo importante rivestito dai glucocorticoidi nel danno da stress sui neuroni dell’area CA3, dall’altra l’effetto protettivo degli antidepressivi sull’atrofia con il potenziamento dell’espressione e funzione del BDNF. D’alto canto, i farmaci antidepressivi, normalizzando il livello dei glucocorticoidi, potrebbero, in via collaterale in alcuni casi, prevenire un ulteriore danno neuronale. In effetti, l’ipotesi neurotrofica degli antidepressivi sull’ippocampo, area cerebrale particolarmente importante per il controllo delle emozioni e delle funzioni cognitive, si basa proprio sull’aumento della sintesi delle proteine neurotrofiche. Abbandonando, quindi, l’ipotesi aminergica e recettoriale, la base neurochimica della depressione, pur con una compromissione della funzionalità dei sistemi monoaminergici, dovrebbe derivare dalla cascata degli alterati eventi molecolari che modulano l’espressione genica delle proteine fondamentali per l’omeostasi neuronale.
A tale proposito, di certo interesse è la metanalisi, improntata su 54 studi, in cui Karg K dell’University of Wuerzburg, Germany e collaboratori hanno rilevato, contrariamente ai risultati delle precedenti più piccole, una forte evidenza dell'ipotesi che il 5-HTTLPR (serotonin transporter promoter polymorphism) moderava la relazione tra stress e depressione (Arch Gen Psychiatry. 2011 May;68(5):444-54. Epub 2011 Jan 3).


Depressione, infiammazione e sistema immunitario

Il dato dell’aumento del livello del cortisolo nel 30 - 50% dei pazienti ha portato a considerare nella fisiopatologia della depressione non solo i disturbi endocrini, ma anche l’infiammazione, costituendo il cortisolo stesso un possibile importante anello di congiunzione. Peraltro, l'infiammazione potrebbe, a sua volta, rappresentare il nesso comune tra la depressione e gli altri stati morbosi che spesso si associano a essa, come la malattia coronarica o la demenza o la depressione post-partum oppure molte malattie caratterizzate da uno stato immunitario alterato, vedi l'artrite reumatoide e le malattie infiammatorie intestinali, tutte patologie aggravate dallo stress psicologico.
Knut A. Hestad delNorwegian University Trondheim e collaboratori hanno ripercorso in un loro studio le basi d’interconnessione tra depressione e diverse altre patologie, cogliendo nell’infiammazione il comune denominatore (Current Psychiatry Reviews, 2009, 5, 287-297).
In particolare, gli autori hanno ribadito che:

In conclusione, gli autori hanno riportato le prove a sostegno delle associazioni di base e i potenziali meccanismi causali per cui l'infiammazione potesse indurre o modulare i sintomi depressivi.
Ne deriverebbe da ciò che la depressione potrebbe essere trattata secondo una strategia di modulazione immunitaria.
Dal loro canto, Blume J e collaboratori dell’University of Pennsylvania, proprio considerando che si era riscontrato nella depressione un disturbo di soppressione immunitaria e/o di attivazione del sistema immunitario con il riscontro dei marcatori presenti anche in altre malattie mediche secondo una disregolazione immunitaria come elemento centrale comune, hanno proposto un programma di ricerca. L’obiettivo delineato era, per l’appunto, quello di definire, per caratterizzarli in sottogruppi, le relazioni tra i dati immunitari, soppressione e / o attivazione, entro gli stessi individui depressi. (Brain Behav Immun. 2011 Feb;25(2):221-9. Epub 2010 Oct 16).
Il programma di ricerca, sviluppato e integrato dalle conoscenze della psiconeuroimmunologia della depressione, avrebbe potuto, in effetti, portare l'innovazione di valutazione e di trattamento della malattia e delle comorbidità mediche.
Particolare interesse ha suscitato, quindi, l’evidenza degli studi che hanno suggerito il ruolo del sistema immunitario nella complessa fisiopatologia della depressione, portando a considerare percorsi innovativi di cura. Nella depressione maggiore si è riconosciuta, infatti, la presenza di attività nelle risposte immunitarie innate, confermate dai biomarker dell’infiammazione. Inoltre, la somministrazione delle citochine immunitarie innate agli animali da laboratorio e agli esseri umani ha dimostrato di indurre cambiamenti comportamentali che si sovrappongono in modo significativo con i criteri di diagnosi della depressione maggiore. Di converso, la somministrazione ai pazienti con malattie infiammatorie di anticitochine ha comprovato di ridurre i sintomi depressivi. È interessante anche notare che lo stress psicosociale, noto elemento scatenante dei disturbi depressivi, è in grado di attivare la risposta immunitaria innata. Peraltro, le citochine immunitarie innate influenzano in sostanza tutti i campi fisiopatologici rilevanti della depressione, quali la neurotrasmissione delle monoamine, la funzione neuroendocrina, la plasticità sinaptica e il metabolismo cerebrale regionale. Degno di nota è pure che una risposta ai tradizionali farmaci antidepressivi si associa a una diminuzione dei biomarker infiammatori, mentre i pazienti con depressione resistente al trattamento sono più propensi a mostrarne maggiore evidenza. Tutti questi dati sembrano, pertanto, fornire la base per il legame tra sistema immunitario e i disturbi dell'umore, soprattutto quando si realizzi una particolare resistenza al trattamento.
È bene ricordare che, in contrasto con la risposta immunitaria acquisita, a lento sviluppo e altamente specifica nel riconoscimento dei patogeni, il sistema immunitario naturale fornisce una risposta di difesa rapida, di prima linea contro una varietà di agenti patogeni e danno o morte cellulare. Il sistema utilizza un pattern recettoriale di riconoscimento, relativamente grezzo e non specifico, denominato TLR (Toll-like Receptors) per avviare e mobilitare la risposta alle infezioni e / o ai danni ai tessuti e ai loro effetti di distruzione. I TLR, a loro volta, sono legati alle fondamentali vie di segnalazione infiammatoria, tra cui il fattore nucleare-kB (NF-kB) e il MAPK (mitogen-activated protein kinases), che, quando attivato, stimola la produzione dello IFN-α (innate immune cytokines interferon), della IL -1 (l'interleuchina-1), della IL-6 e del TNF-α (tumor necrosis factor-α), delle chemochine, delle molecole di adesione e di altri mediatori dell'infiammazione, tra cui le prostaglandine, l’istamina e le specie reattive dell'ossigeno e dell'azoto. Queste molecole orchestrano, di poi, la risposta immunitaria locale, reclutando e attivando importanti cellule del sistema immunitario che determinano le caratteristiche cliniche tipiche dell’infiammazione: tumor, rubor, calor e dolor.
Le citochine immunitarie innate nel sangue periferico vanno a stimolare le fibre nervose locali per mobilitare una risposta sistemica alle infezioni e ai traumi dei tessuti con attivazione nel fegato della produzione delle proteine ​​della fase acuta, come la PCR (proteina C reattiva). Il SNC (sistema nervoso centrale) risponde con la febbre, la spossatezza, il ridotto interessamento all’ambiente, l’anoressia e i disturbi del sonno. Questo comportamento disfunzionale del SNC dovrebbe rappresentare una riorganizzazione delle priorità del comportamento per conservare e deviare le risorse energetiche essenziali per l'eliminazione degli agenti patogeni, per i processi di riparazione dei tessuti e per la protezione dai danni o attacchi futuri. Collateralmente, l'asse ipotalamo-ipofisi-surrene (IIS) con il rilascio della corticotropina (ACTH) ipofisaria è fortemente attivato dalle citochine immunitarie innate. Difatti, alla prima iniezione di IFN-α ha dimostrato una risposta significativamente maggiore nei pazienti che hanno sviluppato depressione, rispetto a quelli non diventati depressi, indicando che la sensibilità delle vie dell’ACTH può rappresentare un fattore di vulnerabilità alle citochine, indotta dai disturbi comportamentali. Considerato, peraltro, il ruolo dell’ACTH nella depressione, la sua attivazione indotta dalle citochine nel cervello può essere, invero, un percorso importante attraverso il quale esse sono in grado d’influenzare il comportamento. C’è anche da considerare l’altro percorso possibile sul recettore dei glucocorticoidi (GR) con cui le citochine possono influenzare l'asse IIS. In effetti, l'attivazione delle vie di segnalazione, come il p38 MAPK, ha mostrato di interrompere la traslocazione del GR dal citoplasma al nucleo e, quindi, di ridurre la capacità funzionale del GR. Le citochine hanno anche dimostrato di aumentare l'espressione dell’inerte β- isoforma del GR, che serve a deviare i glucocorticoidi dall’isoforma α-attiva. In effetti, la ridotta funzione GR, come determinata in genere dal test di soppressione con desametasone e / o con desametasone ACTH, è caratteristica nella depressione e può contribuire alla cattiva regolazione proprio dell’ACTH, che è sotto feed back negativo da glucocorticoidi. Peraltro, la diminuita funzione del GR può anche contribuire ad aumentare l'infiammazione, dato il ben noto ruolo dei glucocorticoidi nel sopprimere le risposte infiammatorie attraverso l'inibizione del NF-kB di segnalazione.
Il contributo potenziale del sistema immunitario al determinismo della depressione è stato documentato, come detto, dalla dimostrazione nei pazienti di un significativo aumento delle citochine immunitarie innate e dei loro recettori solubili, sia nel sangue periferico sia nel liquido cerebrospinale con aumenti delle proteine ​​della fase acuta, delle chemochine, delle molecole di adesione ed anche dei mediatori dell’infiammazione come le prostaglandine.

Peraltro, la prevalenza della depressione nei malati di cancro è più alta che nella popolazione medica generale ed è associata a una più rapida progressione del tumore, con tempi di sopravvivenza più brevi. In tali casi sono generalmente presenti l'anoressia e la cachessia, secondo meccanismi non ancora ben chiariti. Tutto l’insieme riduce consistentemente la qualità della vita e la sopravvivenza dei pazienti ed è causa finale in circa il 30% dei casi della morte. Ciononostante, recenti evidenze hanno anche dimostrato il legame tra gli elevati livelli delle citochine infiammatorie, sia con la depressione sia con la cachessia. Le ricerche hanno anche offerto la dimostrazione che l'introduzione delle citochine induce in entrambi uomini e roditori la depressione e i sintomi cachettici, suggerendo l’eziologia comune a livello molecolare.
Andrew H. Miller dell’University of Atalanta, Georgia e collaboratori (Journal of the American Psychiatric Association 2008; Focus 6:36-45) hanno riassunto nella loro revisione i dati disponibili che suggeriscono il duplice ruolo delle citochine nello sviluppo del cancro connesso alla depressione e alla cachessia e hanno descritto come le terapie biologiche targeting di citochine specifiche possano migliorare i risultati di cura.

Difatti, i rischi della mancata risposta al trattamento o anche dell’intolleranza ai farmaci sono alti ed evidenziati da diversi studi, anche recenti, che documentano come la parziale e incompleta risposta alle cure si associ a un aumentato rischio di recidiva sintomatica con sostanziale significativa compromissione della vita, anche durante la terapia, e peggio ancora con decorso a lungo termine. Peraltro, a tal proposito non è di poco rilievo il fatto che la resistenza al trattamento aumenta anche di sei volte i costi sanitari diretti, per cui è sempre più viva la necessità di individuare nuove strategie di cura.
Gli studi di neuroimaging funzionale supportano, dal loro canto, l'ipotesi che la depressione sia associata da una parte a una ridotta attività metabolica nelle strutture neocorticali e dall’altra a una maggiore nelle strutture limbiche. Il riscontro recente di un'anomalia in una zona del cervello che interviene nel controllo delle reazioni emotive permette anche una nuova comprensione delle ragioni di sviluppo della depressione e degli altri disturbi affettivi. Con la PET (Positron Emission Tomograpy) si è evidenziata una zona della corteccia prefrontale, legata alla risposta emotiva e con collegamenti diffusi con altre aree del cervello, la quale dimostra un'attività anormalmente diminuita nei pazienti con depressione unipolare e bipolare. Queste aree sono responsabili della regolazione della DA, della noradrenalina e della 5-HT, che, come prima accennato, hanno un ruolo importante nella regolazione dell'umore.
In conformità a quanto sopra esposto, si può concludere che nell’eziopatogenesi della depressione meritano considerazione i cambiamenti endocrini di tutta la durata della vita, di cui alcuni caratteristici dell’invecchiamento. Difatti, le donne presentano un rischio più alto durante la menopausa per un probabile ruolo degli estrogeni nella regolazione dell'umore, mentre gli uomini, per i più bassi livelli di testosterone, nella terza età.
La tomografia a emissione di positroni e la risonanza magnetica funzionale forniscono ulteriore evidenza che l'attività delle citochine periferiche può indurre cambiamenti comportamentali mediati a livello centrale. I pazienti trattati con IFN-α, infatti, come i pazienti con i disturbi dell'umore, quelli con elevata ansia, nevrosi o disturbo ossessivo-compulsivo, mostrano durante la risonanza magnetica funzionale di attenzione visuospaziale un'attivazione significativamente maggiore della corteccia cingolata anteriore dorsale, rispetto ai soggetti di controllo. Si è anche dimostrato che IFN-α produce cambiamenti nella corteccia frontale e nell'attività metabolica dei gangli basali. Di grande rilievo, comunque, è la dimostrazione che lo stress psicosociale, noto per scatenare i disturbi dell'umore, può attivare la risposta immunitaria innata.
Peraltro, la risposta immunitaria innata allo stress sembra essere esagerata nei pazienti depressi esposti all’ELS (Stanford Early Life Stress Research Program). Infatti, i maschi depressi dell’ELS dimostrano risposte maggiori di IL-6 nel sangue periferico e aumento di NF-kB binding DNA in risposta al Social Stress Test Trier, rispetto ai controlli non depressi. Questo rapporto tra infiammazione e aumentato ELS è stato anche osservato in un ampio studio in cui i casi esposti a livelli crescenti di ELS hanno dimostrato in età adulta l’aumento dei livelli della PCR. Data la relazione tra stress, depressione e infiammazione, questi dati sollevano la questione se l'infiammazione possa giocare un ruolo nel legame tra stress, depressione e malattie, soprattutto in considerazione del recente riconoscimento che l'infiammazione può rappresentare un meccanismo comune per un certo numero di patologie, tra cui le cardiovascolari, il diabete e il cancro. Pertanto, si potrebbe anche riconoscere un ruolo dello stress nelle malattie neurodegenerative in aggiunta alla depressione, in rapporto ai suoi effetti sui fattori di crescita, mediati dal sistema immunitario.
D’altro canto, vi sono dati che dimostrano l'importanza della plasticità sinaptica e dei fattori di crescita, tra cui il BDNF (brain-derived neurotrophic factor), nel campo di studio della depressione. Lo stress fisico e quello psicologico, ad esempio, tendono a sopprimere la neurogenesi nell'ippocampo, a promuovere l’apoptosi neuronale e a ridurre la densità delle connessioni sinaptiche. Inoltre, le citochine, come l'IL-1, di NF-kB possono contribuire ad alterare la crescita neuronale e la sopravvivenza attraverso l'induzione delle specie reattive dell'ossigeno e dell'azoto, come l'ossido nitrico, che ha dimostrato di diminuire la produzione di BDNF e di ridurre la sopravvivenza delle cellule neuronali nell'ippocampo.
Peraltro, anche i disturbi endocrini sono stati collegati alla depressione, come l’ipercortisolemia, che riscontrata nel 30 - 50% dei pazienti, è stata considerata un importante legame con l’infiammazione.


Vitamina “D” e depressione

La vitamina “D” è stata di recente implicata anche nella condizione cognitiva e nella salute e funzione mentale. Infatti, nei pazienti con i disturbi dell'umore, tra cui la depressione, si sono riconosciute le sue basse concentrazioni.  In particolare, in quasi 8.000 residenti non istituzionalizzati degli Stati Uniti dello studio NHANES III, la probabilità di essere affetti da depressione era significativamente più alta nel caso di carenza della vitamina. A tale riguardo, torna utile ricordare che i recettori della vitamina “D” sono presenti nel cervello e così pure gli enzimi coinvolti nella sua idrossilazione. Peraltro, possono anche inserirsi nella patogenesi della depressione i livelli elevati di PTH, conseguenti alla carenza vitaminica. Pur tuttavia, le evidenze degli studi sino ad ora compiuti a tale riguardo non hanno dato risultati univoci.
Difatti, per loro verso Zhao G del Center for Disease Control and Prevention, Atlanta e collaboratori, proprio per i dati contrastanti in tal senso, nel loro studio hanno voluto confrontare la 25 (OH) D e il PTH con la presenza di depressione tra gli adulti statunitensi (Br J Nutr. 2010 Dec;104(11):1696-702). Hanno, così, utilizzato un campione di 3.916 persone di venti o più anni di età, derivato dal National Health and Nutrition Examination Survey 2.005-6, valutando i sintomi depressivi con l’algoritmo diagnostico del Patient Health Questionnaire-9. Le associazioni tra 25 (OH) D e PTH nei malati depressi erano esplorate utilizzando i modelli di regressione logistica multivariata. Per tutti i casi la prevalenza aggiustata per età per la depressione da moderata a grave era del 5,3% (IC 95% 4.3, 6.5), per la maggiore 2.3% (IC 95% 1.7, 3.1) e per la minore di 3,8% (IC 95% 3.0, 4.6). Pur tuttavia, sebbene la prevalenza aggiustata per età e l’OR non aggiustato per una depressione moderata-grave o maggiore diminuisse in modo lineare con i quartili crescenti di 25 (OH) D (P <0.05), nessuna associazione rimaneva significativa dopo aggiustamento per i molteplici fattori di confondimento, quali le variabili demografiche, lo stile di vita e la coesistenza di una serie di condizioni croniche. Neanche la prevalenza aggiustata per età e l'OR, corretto o no per la depressione, differivano in modo significativo con i quartili del PTH. Così, gli autori concludevano che, in contrasto con alcuni dei risultati precedenti, i loro dati non evidenziavano tra gli adulti statunitensi associazioni significative tra le concentrazioni sieriche di 25 (OH) D e PTH con la presenza di depressione da moderata a grave, maggiore o minore.
Da loro canto, però, Robert Stewart, del King's College e Vasant Hirani, dell’University College London, sulle premesse delle poche indagini nelle persone anziane sui rapporti tra carenza di vitamina “D” e disturbi mentali, studiati, invece, ampiamente nei giovani adulti, hanno analizzato i dati di 2.070 persone dai sessantacinque anni e oltre, partecipanti al 2005 Health Survey for England, raccogliendo informazioni sui comportamenti di salute, sui dati socio-demografici e misurando i livelli di 25 (OH) D (Psychosom Med.2010;72:608-612). I sintomi depressivi sono stati valutati con la Geriatric Depression Scale. Nel complesso circa un quarto della coorte (25,2%) presentava sintomi depressivi con prevalenza del 22,6% nello 85,4% degli adulti con 25 (OH) D inferiori ai 30 ng / mL e del 25,8% nel 51,4% degli adulti con 25 (OH) D inferiori ai 20 ng / mL. La prevalenza della depressione era più alta (35,0%) nel 9,8% della coorte con 25 (OH) D inferiori ai 10 ng / mL (deficit clinico). Il tasso di prevalenza dei sintomi depressivi nei soggetti con deficit clinico di vitamina “D”, rispetto al resto del campione, era di 1,45 e la frazione attribuibile della popolazione, calcolata da questo dato, era del 4,2%. Nelle analisi di regressione logistica le associazioni tra i tre stati di carenza e la depressione, prima dell’aggiustamento per le covariate, erano significative. Dopo aggiustamento per l’età, il sesso, la classe sociale, la stagione, l’abitudine al fumo, l’indice di massa corporea, la lunga e limitante malattia e lo stato soggettivo della salute generale, solo l'associazione con la carenza clinica della vitamina rimaneva in rapporto significativo e indipendente (OR, 1,46; intervallo di confidenza 95 %, 1,02-2,08, p = .04). Il successivo aggiustamento per l'assunzione di alcol e la stratificazione della stagione dell’esame non alteravano consistentemente i risultati. Pertanto, nel sondaggio nazionale britannico la carenza di vitamina “D”, definita come livelli sierici di 25-idrossivitamina D (25 [OH] D) inferiori ai 10 ng / ml, era significativamente associata ai sintomi depressivi, indipendentemente da età, sesso, classe sociale, stato di salute fisica e periodo stagionale. Gli AA, quindi, concludevano che con la correzione del problema, si sarebbe potuta ottenere una misura efficace di sanità pubblica, riducendo in età avanzata la prevalenza della depressione.
A tale riguardo anche MinhTu T. Hoang dell’University of Texas Southwestern Medical Center, Dallas e collaboratori hanno condotto uno studio cross-sezionale su 12.594 partecipanti, 4.005 donne e 8595 uomini tratti dal CCLS (Cooper Center Longitudinal Study) della Clinica Cooper dal 27 novembre 2006 al 4 ottobre 2010, di età media di 51,7 anni, di cui 1.563 con storia di depressione e 11.031 no. Gli autori hanno valutato i valori sierici della 25 (OH) D e la depressione, definita dal punteggio di dieci o più della CES-D (Center for Epidemiologic Studies Depression Scale). Nel campione totale i livelli di vitamina superiori si associavano a un rischio significativamente ridotto [odds ratio, 0,92 (intervallo di confidenza 95%, 0,87-0,97)] di depressione in corso, secondo i punteggi CES-D. Più evidente era il dato nei pazienti con una precedente storia di depressione [odds ratio, 0,90 (intervallo di confidenza 95%, 0,82-0,98)], mentre era non significativo in quelli con anamnesi negativa [odds ratio, 0,95 (intervallo di confidenza 95%, 0,89 -1,02)]. In conclusione, i bassi livelli di vitamina “D” si associavano a sintomi depressivi soprattutto nei casi con storia della malattia, suggerendo, come obiettivo importante, la valutazione dei livelli di vitamina nelle cure primarie dei pazienti con storia di depressione (Mayo Clin Proc. 2011;86(11):1050-1055).
Inoltre, Bertone-Johnson ER dell’University of Massachusetts e collaboratori hanno condotto un'analisi trasversale e prospettica tra l’assunzione alimentare di vitamina “D” e il rischio dei sintomi depressivi (Am J Clin Nutr. 2011 Oct;94(4):1104-12. Epub 2011 Aug 24). I ricercatori hanno, così, arruolato 81.189 donne dello studio osservazionale WHI (Women's Health Initiative), di età compresa tra i cinquanta e i settantanove anni.  Dopo controllo dell'età, dei vari fattori, tra cui l’attività fisica, le donne con un consumo totale di vitamina D / die di ≥ 800 UI avevano una prevalenza dei sintomi depressivi per un OR di 0,79 (IC 95%: 0,71, 0,89, P-trend <0,001), rispetto a quelle con un totale <100 UI. In un'analisi limitata alle donne senza evidenza di depressione al basale, una dose di ≥ 400 rispetto a <100 UI di vitamina D / die da fonti alimentari si associava a un 20% rischio inferiore di sintomi depressivi a tre anni (OR: 0,80, IC 95%: 0,67, 0,95, P = 0.001). I risultati inferiori nell’uso degli integratori di vitamina “D” erano, peraltro, coerenti, come quelli di un'analisi secondaria con l’uso dei farmaci antidepressivi. In conclusione, lo studio supporterebbe una potenziale associazione inversa tra vitamina “D” alimentare e i sintomi depressivi nelle donne in postmenopausa incoraggiando a stabilire un miglioramento dello stato vitaminico per la prevenzione e/o cura della depressione.
Infine Parker G e Brotchie H dell’University of New South Wales, facendo seguito al cresciuto interesse nutrizionale nei riguardi dell'insorgenza e trattamento dei disturbi dell'umore, hanno condotto una revisione della letteratura rilevante sulla possibile connessione tra insufficienza o carenza di vitamina “D” e depressione (Acta Psychiatr Scand 2011: 124: 243–249). I risultati hanno evidenziato che studi trasversali avevano identificato l’associazione non riuscendo, però, a chiarire se la carenza vitaminica fosse la causa o l’effetto della malattia. Pertanto, a seguito di tale analisi sembrerebbero ancora insufficienti le evidenze per una strategia di supplementazione vitaminica nei depressi, salvo che non si tratti di persone a rischio o in cui ne si siano dimostrati i bassi livelli nel siero.


CLASSIFICAZIONE DELLA DEPRESSIONE

La classificazione della depressione è ancora controversa poiché la diagnosi si basa semplicemente sulla presenza arbitrariamente definita di alcuni sintomi. Rimane, così, incertezza professionale sul raggruppamento delle varie forme o anche sulle possibilità di considerare una o più malattie che hanno lo stesso sintomo centrale dell’umore depresso. Comunque, i criteri diagnostici sono stati fissati dal DSM (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders) e dall’ICD (International Classification of Disease). Questi criteri hanno favorito la maggiore uniformità di approccio alla diagnosi e alla classificazione delle malattie depressive e sono costantemente aggiornati con continue nuove versioni.
Il sistema di classificazione, comunque, si è evoluto nel corso degli ultimi cinquanta anni a partire dal DSM-I del 1952 sino al DSM-IV del 1994 e dell’ICD 10 del 2.000. La dicotomia tra il nevrotico e lo psicotico è stata, infine, abbandonata e i disordini sono disposti in base ai principali temi o somiglianze. I disturbi dell'umore includono quello affettivo bipolare, quello depressivo breve ricorrente, l’episodio maniacale, quello depressivo lieve, di moderata depressione, il misto affettivo, quelli depressivi gravi, i depressivi ricorrenti, la ciclotimia, la distimia.
Al momento sono compresi, quindi, il disturbo depressivo maggiore (MDD), la depressione con caratteristiche malinconiche o catatoniche, la depressione atipica e il disturbo affettivo stagionale (SAD).


DIAGNOSI DELLA DEPRESSIONE

La diagnosi della depressione si basa sui dati clinici con l’uso anche dei diversi strumenti di screening, validi e affidabili, disponibili nella medicina di base.


Il questionario per il paziente depresso PHQ-9

Il PHQ-9 (The 9-item Patient Health Questionnaire), relativamente facile da usare, è un breve questionario che conferisce i punteggi a ciascuno dei nove criteri del DSM-IV-TR per la depressione da "0" (assenza completa) a "3" (quasi ogni giorno). Il punteggio di dieci o più ha una sensibilità dello 88% e una specificità dello 88% per la depressione maggiore, mentre quelli di cinque, dieci, quindici e venti rappresentano condizioni lievi, moderate, moderatamente gravi e gravi.

Da notare a tale proposito che la revisione aggiornata delle prove di screening per la depressione nelle cure primarie dell’United States Preventive Services Task Force ha rilevato che tali programmi hanno maggiore probabilità di efficacia con il supporto di personale d'assistenza, coordinato dallo specialista di salute mentale.
Phelan E dell’University of Washington e collaboratori hanno condotto uno studio prospettico di accuratezza diagnostica su settantuno pazienti, per due terzi femmine di età dai sessantacinque anni e oltre, di età media di settantotto e con due condizioni croniche di salute, usando il PHQ-9 e il 15-item GDS (Geriatric Depression Scale), seguiti dallo SCID (Structured Clinical Interview for Depression).
Il dodici per cento dei partecipanti incontrava i criteri SCID per la depressione maggiore e il 13% per la minore. Il PHQ-9 aveva un'AUC (area under the curve) di 0,87 (95% intervallo di confidenza [IC], 0,74-1,00) per la depressione maggiore, mentre il PHQ-2 e il 15-item GDS di 0,81 (IC 95% per PHQ-2, 0,64-0,98 e per il 15-item GDS, 0,70-0,91, p = 0,551). Per la depressione maggiore e minore combinate l'AUC per il PHQ-9 era 0,85 (IC 95%, 0,73-0,96), per il PHQ-2, 0.80 (IC 95%, 0,68-0,93) e per i 15-item GDS , 0,71 (IC 95%, 0,55-0,87, p = 0,187). In conclusione, sulla base dei valori dell’AUC, il PHQ-9 si comportava in modo paragonabile al PHQ-2 e al 15-item GDS nell'identificare la depressione degli anziani nelle cure primarie. In effetti, il questionario PHQ-99 si offre come una scala di depressione promettente, già convalidato nelle popolazioni più giovani. Dopo tale studio si propone anche come strumento efficace negli anziani che si rivolgono alle cure sanitarie di assistenza primaria. Il PHQ-9, peraltro, è il primo
questionario autogestito che riflette i criteri diagnostici del DSM-IV e che, quindi, attraverso l'esame del modello e numero degli elementi approvati, può essere utilizzato come strumento diagnostico per la depressione maggiore e minore (BMC Fam Pract. 2010 Sep 1;11:63).

Peraltro, come dimostrato nella tabella, il PHQ-9 e 15 -GDS riportavano dati simili per ambo i sessi, mentre nel PHQ-2 l'AUC era più bassa per le donne. Inoltre, Il PHQ-9 appariva un po' più discriminante per gli under ottanta anni, mentre gli altri due strumenti avevano un comportamento comparabile per i sottogruppi d’età. E ancora i valori dell’AUC per il PHQ-9 e il PHQ-2 erano più alti nei casi con meno di tre comorbidità, 0,93 e 0,92rispettivamente, mentre quelli del 15 GDS erano uniformi, indipendentemente dal peso della complessità della malattia.
In aggiunta a quanto segnalato, è importante segnalare che la HRSD (Hamilton Rating Scale for Depression), nota anche in forma abbreviata come HAM-D, è un questionario a scelta multipla per valutare la gravità della depressione maggiore di un paziente, pubblicata originariamente da Hamilton M e di poi continuamente aggiornata (Journal of Neurology, Neurosurgery and Psychiatry. 1960).

È bene, comunque, ricordare che i pazienti con disturbo depressivo maggiore possono inizialmente non denunciare l’umore depresso, l’anedonia o altri sintomi tipici. Nell'ambito delle cure primarie, che rappresentano il loro primo impatto di cura, il depresso lamenta spesso disturbi somatici, come stanchezza, mal di testa, fastidi addominali o cambiamento di peso. Più che tristezza o umore depresso può lamentare irritabilità e, se anziano, confusione o declino generale funzionale, disturbi cognitivi e anche stato d'animo triste.
È riferito anche uno stato disforico, possibilmente espresso come tristezza, pesantezza, intorpidimento o, talvolta, irritabilità e sbalzi d'umore. Sono anche spesso segnalati la perdita d’interesse o del piacere nelle proprie attività quotidiane, la difficoltà di concentrazione o il cedimento delle energie e il crollo delle motivazioni. Il pensiero è spesso rivolto al negativo con convinzione d’inutilità, disperazione o impotenza. Nel contesto della depressione unipolare può verificarsi la psicosi, solitamente rispondente nel suo contenuto allo stato d'animo del paziente per cui, ad esempio, può affiorare il delirio d’inutilità o di qualche progressivo declino fisico. In tal caso, occorre eseguire un'attenta valutazione per escludere un disturbo bipolare o la schizofrenia o un disturbo schizoaffettivo o un abuso di sostanze o una sindrome cerebrale organica.

Pur non essendo presenti reperti fisici specifici nel disturbo depressivo maggiore, tanto che la diagnosi si basa sulla storia e l'esame dello stato mentale (vedi tabella), tuttavia bisogna sempre includere una valutazione medica per scartare qualsiasi condizione organica.

George Papakostas del Massachusetts General Hospital in Boston e collaboratori, proprio commentando che la diagnosi di depressione è tradizionalmente basata sui sintomi riferiti dai pazienti, con la pretesa di aggiungere un test oggettivo biologico per potenziarne l'accuratezza in aiuto anche al monitoraggio della risposta al trattamento del singolo paziente, hanno cercato di sviluppare un particolare tipo di test (Mol. Psychiatry, (13 December 2011) | doi:10.1038/mp.2011.166). I ricercatori sono stati, difatti, stimolati dall’effettiva necessità di una migliore performance diagnostica con lo sviluppo arduo e sfuggente di un test diagnostico per il DDM. Hanno, così, arruolato trentasei pazienti con disturbo depressivo maggiore tra i diciotto e i sessantacinque anni, di età media 42,5, nel 63,9% uomini, con indice di massa corporea medio (IMC) di 27.7 Kg/m2, confrontandoli con quarantatré sani non depressi nel 32,6 per cento uomini, di età media trenta anni, con IMC 24.4 Kg/m2. In tutti i partecipanti sono stati misurati nove biomarcatori sierici relativi all’infiammazione, all’asse ipotalamo-ipofisi-surrene, alla neurogenesi e al metabolismo (α1-antitripsina, cortisolo, apolipoproteina CIII, fattore di crescita epidermico, BDNF (brain-derived neurotrophic factor), mieloperossidasi, TNF-R2 (Soluble Tumor Necrosis Factor receptor type II), prolattina, resistina). I valori delle singole analisi sono stati combinati matematicamente per ottenere un DDMScore. Un test positivo è stato definito da un MDDScore di cinquanta o superiore. 33 malati presentavano un test positivo contro otto dei partecipanti non depressi. La sensibilità e la specificità del test nel differenziare i due gruppi erano 91,7% e 81,3% rispettivamente. Nello studio di replica, trentuno dei trentaquattro pazienti con disturbo depressivo maggiore avevano un punteggio positivo e il test mostrava una sensibilità e una specificità del 91,1% e 81%. I limiti dello studio, citati dagli autori, includevano, però, il piccolo numero dei partecipanti sani non depressi, di controllo.


La diagnosi differenziale della depressione

La diagnosi differenziale della depressione rappresenta un passaggio importante nello studio del malato poiché la presenza dei disturbi dell’umore, della stanchezza, tristezza, insicurezza e rassegnazione sono comuni a molti altri disturbi mentali o di ordine medico generale, come le malattie del sistema nervoso centrale, i disturbi endocrini, le condizioni correlate a farmaci, le malattie infettive e infiammatorie, i disturbi del sonno e le neoplasie. Soprattutto negli anziani la diagnosi può essere difficile perché i sintomi possono verificarsi in molti casi indipendentemente dalla depressione. Sulla base di quanto riportato, occorre, quindi, tenere presente con attenzione la possibilità di altre malattie che possono presentare un quadro clinico simile alla depressione e che vanno accuratamente escluse sulla base dei segni distintivi differenziali.

Occorre, pertanto, tenere a mente che i casi con disturbo d'ansia sono a maggior rischio di sviluppare la depressione in comorbidità e che è importante identificare il disturbo d'ansia perché gli individui colpiti spesso richiedono approcci terapeutici specifici. I disturbi d'ansia comunemente in gioco sono: il disturbo di panico, quello ossessivo-compulsivo, quello d'ansia generalizzata, quello da stress post-traumatico e la fobia.

Per altro verso, i disturbi della personalità, determinati ad esempio da forme borderline e talvolta difficili da determinare nel contesto dei sintomi acuti affettivi, possono presentare d'importante i cambiamenti dell’umore. Molti pazienti, che sembrano labili, esigenti o patologicamente dipendenti, cambiano drammaticamente una volta che l'episodio depressivo è stato trattato adeguatamente.

D’altra parte, i disturbi alimentari, che richiedono approcci terapeutici specifici, manifestano anch’essi un alto tasso di comorbidità con il disturbo depressivo maggiore.  Essi comprendono, in genere, la bulimia, l’anoressia nervosa e i disturbi alimentari non altrimenti specificati. In molti casi si riconosce il così detto disturbo d'alimentazione incontrollata o dell’abbuffata compulsiva, il binge eating anglosassone, non elencato attualmente come diagnosi specifica nel DSM-IV-TR. Tale condizione si caratterizza per frequenti abbuffate compulsive con perdita del controllo sulla quantità e sulla qualità del cibo ingerito, senza gli atti compensatori successivi presenti nella bulimia, come vomito auto indotto o assunzione di diuretici e lassativi. Nel caso che la sindrome si manifesti solo nelle ore serali e in particolare durante il periodo notturno, si parla di NES (Night Eating Syndrome), che rappresenta  una sorta di combinazione dei disturbi dell'alimentazione, del sonno e dell'umore. Vi è anche il Binge Drinking, che a somiglianza del  Binge Eating è caratterizzato da frequenti bevute compulsive di alcol, superiori alla propria tolleranza psico-fisica, con il preciso intento di provare ebbrezza e di raggiungere l’ubriachezza completa.

Per altro canto, la distimia si presenta con umore depresso, come sintomo primario, e può precedere un episodio depressivo. I sintomi della distimia, però, da soli non soddisfano i criteri di diagnosi del disturbo depressivo maggiore e devono essere presenti per almeno due anni. Un attento esame psichiatrico, comunque, è in grado, in genere, di affermare la diagnosi alternativa o supplementare.

Non è raro, invece, diagnosticare erroneamente la fase depressiva del disturbo bipolare come depressione maggiore. Tale circostanza porta spesso a un trattamento insufficiente o inadeguato, se non proprio alla precipitazione di un episodio maniacale vero e proprio. Alcuni pazienti con depressione resistente al trattamento possono rientrare in questa categoria.

I disturbi dell'umore, peraltro, possono essere secondari a varie malattie del sistema nervoso centrale che comportano una vasta gamma di processi fisiopatologici e strutturali. Degno di menzione è che il disturbo depressivo maggiore non provoca segni neurologici focali per cui, se presenti, dovrebbero stimolare una valutazione per altre sindromi organiche. Pur tuttavia, il disturbo depressivo maggiore è in grado di produrre misurabili deficit cognitivi o di aggravare una demenza preesistente. Questo declino cognitivo con difficoltà di concentrazione o di motivazione si riferisce, invero, a una pseudodemenza o più correntemente a una demenza della depressione, che dovrebbe recedere con il successo del trattamento dell'episodio depressivo stesso.

La sindrome post-concussiva cerebrale, forma più comune del trauma cranico nello sport e talvolta difficile da diagnosticare, è causata da un’improvvisa accelerazione- decelerazione dell’encefalo all’interno della scatola cranica e si manifesta con un’immediata, breve alterazione delle funzioni neurali. Pur tuttavia, i sintomi del trauma cranico, anche se lieve, possono condurre a disturbi di lunga durata di ordine fisico, ma anche cognitivo e psicologico. I sintomi sono precoci di minuti/ore (mal di testa, vertigini, stato confusionale, amnesia, nausea, vomito) e tardivi di giorni/settimane (cefalea lieve persistente, difficoltà di concentrazione, disturbi della memoria o del sonno, facile faticabilità, irritabilità). In alcuni casi possono insorgere facili confusioni con il DDM che vanno rimosse con un’anamnesi e studio clinico attenti.

La paralisi pseudo bulbare, molto frequente e propria dell'età avanzata per l’arteriosclerosi cerebrale, è una sindrome di disinibizione affettiva spesso non riconosciuta in ambito clinico. Essa è caratterizzata da un complesso di sintomi determinati dal deficit delle funzioni del bulbo spinale. Sono particolarmente presenti disartria, disfagia, riso e pianto spastico, disturbi di tipo piramidale e deambulazione a piccoli passi. La sintomatologia non è dovuta alla lesione dei nuclei bulbari, ma all'interruzione bilaterale delle fibre cortico-bulbari. Spesso per ignoranza non è trattata per le sue manifestazioni cliniche, ma è scambiata per depressione.

La malattia di Alzheimer e le altre demenze degenerative e vascolari possono, peraltro, associarsi ai sintomi affettivi e così pure il morbo di Parkinson, la malattia di Huntington, la sclerosi multipla, l’ictus e l’epilessia.

Anche le neoplasie del sistema nervoso centrale possono causare i cambiamenti dell’umore e del comportamento, prima ancora della comparsa dei segni neurologici focali.

Inoltre, le malattie endocrine, soprattutto quelle che interessano l’asse ipotalamo-ipofisi-surrene e la tiroide, come il morbo di Addison e di Cushing, l’ipertiroidismo, l’ipotiroidismo, i prolattinomi e l’iperparatiroidismo sono particolarmente accompagnate con i cambiamenti dell’umore. Così pure si può comportare l’ipoglicemia da iperproduzione d’insulina.

Ma anche i farmaci si sono dimostrati in grado di produrre i cambiamenti dell’umore. Sono stati, a tale proposito, indicati i beta-bloccanti, la reserpina, la metildopa, i calcio antagonisti, gli steroidi, gli ormoni sessuali (estrogeni, progesterone, testosterone, il GnRH, la ranitidina, la cimetidina, i sedativi, i miorilassanti, i soppressori dell'appetito, la vincristina, la procarbazina, la L-asparaginasi, l’interferone, l’amfotericina B, la vinblastina e altri agenti chemioterapici.

L’uso di sostanze e di droghe può, inoltre, provocare significativi disturbi dell'umore, come nel caso dell’abuso di alcol, cocaina, anfetamine, marijuana, sedativi / ipnotici e narcotici. In tale ambito va anche considerato l’abuso di sostanze per inalazione.

Robert Davies della Rydon House Mental Health Unit e collaboratori hanno anche voluto richiamare l'attenzione sul potenziale rischio di disturbi psichiatrici, in termini di sbalzi dell’umore e di deterioramento cognitivo ma anche di comportamento suicidario e violenza, per esposizione cronica agli organofosfati (Advances in Psychiatric Treatment (2000) 6: 187-192). Come si sa gli organofosfati sono potenti anticolinesterasici usati anche come agenti nervini militari che, pur in quantità scarse, sono in grado d’indurre una crisi colinergica con possibile tetania, paralisi respiratoria e morte. In campo agricolo hanno effetti in forma concentrata simili e nel corso degli anni sono stati utilizzati anche come strumento di suicidio, in particolare nei paesi in via di sviluppo.
Boden JM dell’University of Otago, New Zealand e collaboratori hanno, per loro conto, esaminato le relazioni causali tra il fumo e la depressione in oltre 1265 adulti, di cui 635 uomini e 630 donne (Br J Psychiatry. 2010 Jun;196(6):440-6). Alla fine dello studio i ricercatori hanno trovato che in ogni età con l’aumento dei livelli alla nicotina si associavano significativamente tassi crescenti dei sintomi depressivi (p <0.0001). Inoltre, chi riportava almeno cinque sintomi di dipendenza nicotinica mostrava tassi di sintomi depressivi 2.13 volte maggiori (intervallo di confidenza 95%, 1,98-2,31), rispetto a chi non li aveva riferiti. Dopo aggiustamento per i fattori confondenti, gli autori rilevavano, comunque, ancora significative e persistenti associazioni tra le due condizioni (P <0,05). Tale dato suggeriva, secondo gli autori, che la comorbidità derivava da due percorsi: il primo coinvolgente i fattori di rischio comuni o correlati e il secondo in cui il fumo direttamente aumentava il rischio della depressione.
Non si dimostrava, invece, la stessa significativa correlazione inversa tra sintomi depressivi e quelli da nicotina-dipendenza (P = 0.21), stando a significare che, se è vero che il fumo aumenta il rischio di sviluppare i sintomi depressivi, non è, invece effetto obbligato della depressione.

Peraltro, Thomas Bronisch del Max Planck Institute of Psychiatry Munich e collaboratori hanno, per altro verso, esaminato le associazioni tra il fumo e la suicidalità e il loro ordinamento temporale di insorgenza, usando il M-CIDI (Munich-Composite International Diagnostic Interview), in adolescenti e giovani adulti arruolati dal EDSP (Early Developmental Stages of Psychopathology), uno studio prospettico longitudinale a Monaco di Baviera, in Germania (Volume 108, Issue 1 , Pages 135-145, May 2008). L’ideazione suicidaria e i tentativi di suicidio si dimostravano fortemente associati con il fumo occasionale iniziale, quello regolare e la dipendenza da nicotina al basale (odds ratio [OR] gamma 1,4-16,4). Nelle analisi di prospettiva, il fumo iniziale occasionale, regolare e la dipendenza da nicotina aumentava il rischio d'insorgenza dell’ideazione suicidaria (OR variava da 1,5 a 2,7) e anche di tentativo di suicidio (OR compresa tra 3.1 e 4.5). Peraltro, la particolare presenza di associazione temporale tra fumo e suicidalità e non il contrario avrebbero suggerito, secondo gli autori, l'esistenza di un percorso indipendente tra le due condizioni.

Le infezioni, infine, soprattutto la sifilide, la malattia di Lyme, l’HIV/AIDS, la toxoplasmosi si associano anch’esse spesso alle alterazioni dello stato dell’umore e del comportamento.
Così pure le patologie autoimmuni, come l’artrite reumatoide, il lupus eritematoso sistemico, il morbo celiaco, sono capaci di produrre una vasta gamma di segni e sintomi neuropsichiatrici, come possibile causa di alterazioni nella barriera emato-encefalica, ma soprattutto se si complicano con un’encefalite autoimmune.

Per concludere, i vari disturbi del sonno, in particolare l’OSA e la sindrome della fatica cronica possono causare particolari sintomi, tra cui quelli psichiatrici da distinguere da un DDM.

Bisogna, infine, segnalare che qualsiasi condizione predisponente alla depressione, come rilevato recentemente da Marianna Virtanen del Finnish Institute of Occupational Health, Helsinki e collaboratori in relazione alle ore lavorative eccessive, deve essere attentamente riconosciuta per poterla rimuovere adeguatamente a beneficio del malato. Gli autori hanno, per l’appunto, eseguito un’analisi di coorte prospettica delle ore di lavoro e della morbilità psicologica con un indicatore di depressione basale e dei fattori di rischio di depressione per un follow-up medio di 5,8 anni in 1.626 dipendenti statali inglesi uomini e 497 donne dello studio Whitehall II, di età media di quarantasette anni al basale. Hanno, quindi, valutato l’insorgenza a dodici mesi di DDM con la CIDI (Composite International Diagnostic Interview) al follow-up (PLoS ONE, 2012; 7 (1): e30719).
 Hanno, così, definito un episodio depressivo maggiore sulla base di tre sintomi principali: umore depresso, anedonia, ridotta energia. Hanno, di poi, considerato altri sette sintomi secondari: perdita di autostima, inutili sentimenti di colpa, cambiamenti dell'appetito o del peso, disturbi del sonno, difficoltà di concentrazione o indecisione, pensieri suicidari o di morte, stato di rallentamento o agitazione psicomotoria. Almeno due sintomi principali e quattro supplementari della durata di almeno due settimane erano richiesti per la diagnosi di un episodio depressivo maggiore. Nell'analisi prospettica dei partecipanti senza la morbilità psicologica al basale, dopo correzione per i fattori socio-demografici, l'odds ratio per un episodio depressivo maggiore successivo era 2.43 volte superiore con intervallo di confidenza 95% da 1.11 a 5.30 per coloro con più di undici ore lavorative il giorno, rispetto a quelli con 7-8 ore. L'ulteriore regolazione per malattia fisica cronica, fumo, alcol, stress lavorativo e sostegno sociale correlato al lavoro aveva scarso rilievo con odds ratio 2,52, intervallo di confidenza 95% 1,12-5,65. Si rilevava anche che un elevato stato socioecomico, legato a una probabilità maggiore di lunghe ore di lavoro, sembrava proteggere i dipendenti dalla depressione.

Sulla base di questi risultati si dovrebbe convenire con gli autori che il lavoro prolungato, e quindi straordinario, debba essere considerato fattore predisponente per gli episodi di depressione maggiore.
Dal loro canto, Sung E. Son dell’University of Washington e collaboratori, considerando che la depressione spesso non riconosciuta può anche variare da una semplice tristezza sino a una depressione maggiore o a un disturbo bipolare e colpisce purtroppo il 2% dei bambini in età prepubere e dal cinque all’otto per cento degli adolescenti, hanno suggerito una valutazione comprensiva di uno screening medico completo, quale il Pediatric Symptom Checklist, per l’esclusione delle cause mediche di base. Questo strumento propone, in effetti, una lista di trentacinque elementi che, completati in meno di cinque minuti dai genitori, permettono di valutare le impressioni della funzione psico-sociale dei propri figli. La sua specificità varia dal 68 al 100% nei campioni di basso stato socioeconomico. La sensibilità varia dallo 80% dei più bassi campioni di stato socio-economico al 95% della classe media, rispetto alle valutazioni più dettagliate effettuate dai professionisti sulla salute mentale. A causa della sua sensibilità e specificità relativamente buone e anche per la facilità di compilazione, questa lista può essere un prezioso strumento in aiuto dei medici per un esame diagnostico dei pazienti più efficace e produttivo.
La diagnosi dei disturbi depressivi, in effetti, richiede un'accurata valutazione medica e psichiatrica, poiché un certo numero di disturbi è in grado di simulare la depressione (Am Fam Physician.2000, Nov15;62(10):2297-2308).

Bisogna, infatti, considerare nella diagnosi differenziale della depressione del bambino e dell’adolescente, come per l’adulto, le condizioni associate, quali le infezioni, come la mononucleosi infettiva, l’infezione da virus dell'immunodeficienza umana, i disturbi neurologici, come l’epilessia postraumatica, quelli endocrini, come il diabete, l’ipertiroidismo, l’ipotiroidismo, il morbo di Addison, i farmaci, come i barbiturici, le benzodiazepine, i corticosteroidi, la cimetidina, l’aminofillina, gli anticonvulsivanti, i contraccettivi orali, l’abuso di alcol, di droga, le alterazioni elettrolitiche come l’ipokaliemia, l'iponatriemia, l’anemia, la malattia di Wilson. Il diligente e accurato esame anamnestico e fisico deve e può di seguito aiutare a dirigere lo studio di laboratorio può appropriato.