notiziario Aprile 2013 N.4 ALIMENTAZIONE E SALUTE: LA CARNE

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NOTIZIARIO Aprile 2013 N°4

ALIMENTAZIONE E SALUTE: LA CARNE

 

 

 

 

 

A cura di:
Giuseppe Di Lascio §

 

Con la collaborazione di:

Doriana Bauzulli *, Alessandro Di Lascio**
Andrea Levi Della Vida §, Simonetta Melilli §
Claudio Stazzi §, Elena Zimmatore §
 
§ Medico specialista in Medicina Interna
* Coordinatrice degli Infermieri, ** Fisioterapista

Globalizzazione e alimentazione

L’alimentazione per gli esseri viventi, e quindi anche per l'uomo, è un comportamento non solo istintivo ma anche stimolato, secondo una consuetudine irrinunciabile finalizzata alla sopravvivenza della specie e anche alla socializzazione, dal gusto e dal piacere. Come processo fisiologico vitale e secondo un percorso di adattamento stabilizzatosi nei tempi, necessario a superare all’occorrenza i mutamenti ambientali e anche climatici, si pone, in diretta relazione con essa, la digestione. A tale proposito, bisogna ricordare che il transito degli alimenti nel tratto gastrointestinale richiede dalle cinquantacinque alle settantadue ore e che per la maggior parte, in media cinquantasei ore, è legato al passaggio nel grosso intestino. Le modalità del consumo degli alimenti e del loro uso hanno costituito l’essenza della dieta. Questa variante comportamentale ha cambiato le sue caratteristiche in base alle necessità e alle contingenze della vita e dell’ambiente. Così l’uomo, da cacciatore e raccoglitore di bacche e tuberi, è progressivamente passato all'agricoltura e all'allevamento, variando anche radicalmente le sue abitudini di vita e i suoi comportamenti alimentari. Con lo sfruttamento più allargato dei prodotti agricoli della terra e di quelli sempre nuovi, importati dall’avanzamento del processo di globalizzazione e del mixing delle diverse culture, si sono gradualmente ottenuti prodotti alimentari sempre più nuovi, rimanendo, però, i cereali la base imprescindibile della nutrizione. Pur tuttavia, l'industria alimentare degli ultimi anni ha segnato uno sviluppo impressionante ed è ingigantita al punto da sconvolgere le abitudini dietetiche delle popolazioni, prima di tutto dei paesi economicamente più progrediti e, di seguito, di quelli in via di sviluppo.
I fast food in stile occidentale rappresentano oramai un fattore di modello alimentare che annuncia poveri esiti cardiometabolici, non solo nei paesi a sviluppo economico avanzato, ma più recentemente anche in quelli in via di sviluppo. In particolare, il cibo servito è ricco di calorie e presentato in porzioni allettanti sempre più grandi, generalmente costituite di carne semplice o trasformata. Sono presenti, peraltro, carboidrati altamente raffinati, alto contenuto di sodio e di colesterolo e un povero tenore di acidi grassi insaturi.  Così, il profilo nutrizionale ricalca da molto vicino la storica esemplificazione della dieta che è causa dell’epidemia della malattia cardiovascolare e del diabete di tipo 2. La globalizzazione sta amplificando e diffondendo la realtà dei fast-food in stile occidentale per cui questo modello alimentare sta diventando sempre più comune in tutte le aree del mondo. In particolare, con la rapida estensione della proliferazione dei ristoranti fast-food occidentalizzati, come il McDonald, il Burger King e il Kentucky Fried Chicken, è cresciuta tra gli esperti della salute pubblica la preoccupazione del diabete, dell'ipertensione, della dislipidemia e della sindrome metabolica, insieme alla maggiore incidenza della malattia coronarica.

In definitiva, la rapida globalizzazione ha comportato su larga scala nuove influenze sui modelli della salute dell’uomo. I molteplici cambiamenti su scala globale, di tipo economico, sociale, demografico, ambientali e climatici, si collegano sempre più alle forme epidemiche di alcune malattie croniche, come le dismetaboliche e cardiovascolari, ma anche alle variazioni dei rendimenti alimentari regionali, all'emergenza e alla riemergenza delle malattie infettive, alla diffusione del fumo di sigaretta e alla persistenza della disparità della salute.
Gli sforzi di prevenzione primaria, per abbattere i rischi per la salute determinati da queste influenze globali, costituiscono una sfida eccezionale. In primo luogo, difatti, bisognerebbe poter disporre di risorse e strategie supplementari per ridurre i rischi sanitari, che ormai si avviano a conclusioni apparentemente inevitabili, legati al cambiamento globale.
In effetti, sul piano alimentare si è superato il periodo del rilievo dei benefici derivanti dal boom della disponibilità. Oggi giorno bisogna misurarsi con le condizioni concernenti i numerosi problemi digestivi che ne sono derivati. Difatti, sono ormai noti e ben dimostrati gli effetti nocivi dell’eccesso alimentare, degli additivi chimici nei cibi e delle abitudini dietetiche, comunque non salutari. La dispepsia è la forma più diretta della difficoltà digestiva, come cattiva digestione responsabile dell’inappetenza, della pesantezza di stomaco, della stanchezza, della sonnolenza, delle eruttazioni, dell’alitosi, della flatulenza.
Bisogna considerare, comunque, che le interazioni, tra genetica e ambiente e tra natura e istruzione, rappresentano la base sia per la salute sia per la malattia. Di fatto, negli ultimi due decenni, utilizzando le tecniche della biologia molecolare, si è avuta dimostrazione di quanto i fattori genetici siano determinanti per la suscettibilità alle malattie. Per altro canto, quelli ambientali costituiscono la causa scatenante per gli individui geneticamente predisposti. Tale condizione ha portato alla nota esemplificazione della pistola che rappresenta nella patogenesi delle malattie la funzione genetica e del grilletto che ricopre il ruolo dell’ambiente e dei cattivi comportamenti. La nutrizione è un fattore ambientale di grande importanza. Utilizzando gli strumenti della biologia molecolare e della genetica, la ricerca ha potuto definire i meccanismi con cui i geni influenzano l'assorbimento dei nutrienti, il loro metabolismo e l'escrezione, la percezione del gusto e il grado di sazietà. Si sono delucidati anche i meccanismi attraverso i quali i nutrienti influenzano l'espressione genica. In tale contesto, bisogna, invero, considerare che nel corso degli ultimi 10.000 anni dall'inizio della rivoluzione agricola, a fronte degli importanti cambiamenti della nostra dieta, i nostri geni non sono cambiati. Difatti, il tasso di mutazione spontanea per il DNA nucleare è stimato dello 0,5% per ogni milione di anni. Pertanto, a carico dei nostri geni nel corso degli ultimi 10.000 anni c'è stato il tempo per un cambiamento molto scarso, forse dello 0,005%. Così che, i geni dell’uomo di oggi sono molto simili a quelli degli antenati del periodo paleolitico di 40.000 anni fa, momento in cui si è istituito il profilo genetico umano. Ciò nonostante, l’uomo vive oggi in un ambiente nutrizionale che è diverso da quello per il quale è stata selezionata la sua costituzione genetica. In effetti, gli studi sugli aspetti evolutivi della dieta indicano che hanno avuto luogo grandi cambiamenti nella nostra dieta, in particolare nei riguardi del tipo e della quantità degli acidi grassi essenziali e del contenuto degli antiossidanti negli alimenti.

Oggi le società industrializzate sono caratterizzate da un progressivo:
1) aumento dell'apporto energetico e diminuzione del suo dispendio,
2) aumento dei grassi saturi ω6 e trans con una diminuzione degli ω3,
3) diminuzione dei carboidrati complessi e delle fibre,
4) aumento dei cereali e diminuzione della frutta e verdura,
5) diminuzione delle proteine​​, degli antiossidanti e del calcio.
L'incremento degli acidi grassi trans è dannoso per la salute. Essi interferiscono con l'allungamento e la desaturazione di entrambi gli acidi grassi ω6 e ω3, diminuendo, così, ulteriormente per il metabolismo umano la disponibilità dell’acido arachidonico, eicosapentaenoico e docosaesaenoico.
Considerando che il disadattamento evolutivo porta alla restrizione riproduttiva, i rapidi cambiamenti nella nostra dieta, in particolare quelli degli ultimi 150 anni, hanno coperto sempre più il ruolo di potenti promotori delle malattie croniche, come l'aterosclerosi, l’ipertensione essenziale, l'obesità, il diabete, l'artrite, le malattie autoimmuni e molti tumori, in particolare il cancro della mammella, del colon e della prostata. Peraltro, in aggiunta alla dieta, lo stile di vita sedentario e l'esposizione alle sostanze nocive hanno interagito sempre più con i processi biochimici geneticamente controllati che portano alla malattia cronica.
D’altra parte, bisogna anche considerare che il metabolismo e il sistema immunitario sono tra loro collegati. L’infiammazione, difatti, attraverso composti con somiglianze strutturali tra i nutrienti e gli agenti patogeni, è alla base sia dell’ipernutrizione sia del processo infettivo. Peraltro, i macronutrienti alimentari, come i grassi e gli zuccheri, sono in grado di indurre l'infiammazione attraverso l'attivazione di un recettore immunitario innato, il TLR4 (Toll-like receptor 4). In effetti, specifici batteri intestinali sembrano servire come fonti dello LPS (lipopolysaccharide) attraverso la loro traslocazione in circolo a causa di una barriera microbica vulnerabile. Per aumento della permeabilità intestinale, quindi, svolgono un ruolo nell'infiammazione sistemica e nella progressione delle malattie metaboliche. In tale ordine di fatti, quindi, l’adozione a lungo termine di una dieta ad alto contenuto di grassi e di carni sembra tale da indurre l’infiammazione sistemica cronica di basso grado, l’endotossicità e le malattie metaboliche. Peraltro, recenti indagini sono anche a sostegno dell'ipotesi del coinvolgimento dei batteri intestinali nel metabolismo dell’ospite e delle potenzialità preventive e terapeutiche degli interventi con probiotici e prebiotici nelle malattie metaboliche.
Andrew O. Odegaard dell’University of Minnesota School of Public Health – USA e collaboratori, proprio per dimostrare che i Fast food in stile occidentale contribuiscono a instaurare un modello alimentare per la cattiva salute, estesosi con la globalizzazione anche ai paesi in via di sviluppo, hanno esaminato il rischio di diabete tipo 2 e di mortalità per malattia coronarica (CHD) nei cinesi di Singapore (Circulation. 2012 Jul 10;126(2):182-8).

Per questo hanno arruolato donne e uomini di età compresa tra i quarantacinque e i settantaquattro anni iscritti nel Singapore Chinese Health Study del 1993-1998. Hanno, così, incluso 52.584 partecipanti per la mortalità per CHD e hanno identificato 1.397 morti. D’altra parte hanno selezionato 43.176 partecipanti per il diabete tipo 2, identificando e convalidando 2.252 casi durante l'intervista di follow-up dal 1999 al 2004.

Gli hazard ratio per la mortalità di diabete e di CHD erano stimati con regolazione accurata per i fattori demografici, lo stile di vita e la dieta. Da notare che i cinesi di Singapore, con relativamente frequente assunzione di prodotti di fast food di stile occidentale per una frequenza uguale o superiore a due volte la settimana, dimostravano un aumento del rischio di sviluppare il diabete di tipo 2 (HR = 1,27, IC 95% = 1,03-1,54) e la morte per malattia coronarica (HR = 1.56, 95% IC = 1,18-2,06), rispetto ai loro coetanei con scarsa o nessuna segnalazione. Queste associazioni non erano, peraltro, materialmente alterate dalle rettifiche per il modello alimentare globale, l'assunzione di energia e l'indice di massa corporea.
In conclusione, l'assunzione di cibo veloce in stile occidentale in una popolazione orientale si associava a un aumentato rischio di sviluppare il diabete di tipo 2 e la mortalità per malattie cardiovascolari. Questi risultati suggerivano la necessità di ulteriore attenzione per un’acculturazione alimentare globale in quei paesi.
A Ramel dell’University Reykjavik, Iceland e collaboratori, con l'obiettivo di studiare gli effetti di un pasto convenzionale e di un fast-food sul metabolismo postprandiale, hanno arruolato dodici volontari sani normali e tredici in sovrappeso dai ventuno ai trentanove anni in uno studio randomizzato, cross-over. I partecipanti sono stati assegnati casualmente, dopo un digiuno notturno e con una settimana d’intervallo tra i giorni del test, al consumo di due pasti isocalorici costituiti dallo stesso tipo di nutrienti. Il tradizionale pasto fast-food consisteva in hamburger, pancetta, coca cola, il tutto con carico glicemico calcolato di 48,7. Il fast food non convenzionale era costituito da hamburger di salmone, pane di segale ricco di fibre, insalata con aceto, succo di arancia, per un carico glicemico di 46.0. Si analizzavano, quindi, per ottenere a diversi intervalli le concentrazioni di glucosio e insulina, campioni di sangue prima e dopo il pasto. In particolare, la glicemia si testava a 20, 40, 60 e 80 min e l’insulina a 1, 2 e 3 ore.
Gli aumenti postprandiali della glicemia e dell’insulinemia erano inferiori del 44% dopo il pasto non convenzionale (P <0.001 e P = 0.003, rispettivamente). Inoltre, la differenza tra i pasti nella risposta all'insulina, cioè nel pasto convenzionale superiore a quello no, correlava con l'indice di massa corporea (BMI) (r = 0.538, p = 0.006).
In conclusione, quando abbinati nell’apporto di energia dei nutrienti, il fast food non convenzionale poteva avere meno effetto sull'insulina e sul glucosio nel sangue dopo i pasti, rispetto a quello tradizionale. La differenza tra i pasti in risposta all'insulina correlava alla più alta BMI. Pertanto, secondo gli Autori, il miglioramento della qualità del cibo potrebbe essere d’aiuto contro gli aumenti postprandiali della glicemia e dell’insulinemia.


Definizione e proprietà delle carni rosse

Diverse componenti della dieta sono ormai da qualche tempo indicate come importanti fattori di rischio modificabili per le malattie croniche, in particolare per quelle cardiovascolari (CVD), principali cause di morte nei paesi occidentali. La ricerca nutrizionale tradizionale si è concentrata principalmente sui singoli nutrienti o sui cibi, ma vi è un attuale crescente interesse sui modelli alimentari che considera il fenomeno nella complessità della dieta in generale.
Le carni rosse sono così definite in gastronomia per il loro colorito abbastanza scuro, rispetto alle bianche. In genere, corrispondono a quelle carni degli animali mammiferi adulti, come i suini, i bovini, gli ovini e gli equini, mentre le seconde al pollame e ai roditori, come i conigli. Tradizionalmente in culinaria viene considerata bianca anche la carne degli animali mammiferi giovani, come ovini, suini e bovini da latte, mentre rossa quella d’anatra e d’oca. Ciò che determina questa definizione nutrizionale è certamente la differente concentrazione della mioglobina. Difatti, la carne bianca del pollame ne contiene meno dello 0,05%, mentre quella dei suini e dei bovini circa lo 0,1-0,3%; quella del vitellone lo 0,4-1,0% e quella del manzo vecchio l’1,5-2,0%. Comunque, tutte le carni, ottenute dagli animali da produzione, contengono più mioglobina del pollo o del pesce e, quindi, dovrebbero essere definite carni rosse.
Il Reg. CE 853/2004 ha fornito una definizione legislativa della carne distinguendola in fresca e in prodotti a base di carne, spesso origine d’interpretazioni contrastanti.

È noto che le carni rosse contengono grandi quantità di ferro, di creatina, di minerali, come zinco e fosforo, e vitamine del gruppo B, come la niacina, la B12, la tiamina e la riboflavina. Peraltro, rappresentano la fonte di aminoacidi essenziali e la più ricca dell’acido alfa lipoico. Questa sostanza è un potente antiossidante presente in molti alimenti e viene prodotta naturalmente nel nostro corpo. A suo carico vi sono evidenze del suo beneficio con miglioramento dell'insulino-resistenza nel diabete di tipo 2. Anche in caso di neuropatia diabetica o nel trattamento del cancro si sarebbero documentate riduzioni dei sintomi, come il dolore, il formicolio e il prurito agli arti inferiori. Inoltre, l'acido alfa lipoico sembra anche poter contribuire a proteggere dalla retinopatia diabetica.  I benefici assicurati con il suo uso sono stati anche descritti a proposito dell’invecchiamento della pelle con riduzione delle rughe e proposti pure per la demenza. Tutto ciò in virtù della sua azione di amplificazione delle proprietà favorevoli sugli altri antiossidanti, come le vitamine C ed E. Esso, difatti, protegge proprio queste vitamine, rendendole più attive contro i radicali liberi. L'acido alfa lipoico si trova nelle patate, nei broccoli e negli spinaci, ma le carni rosse, e in particolare il fegato e il cuore, rimangono la sua fonte principale.
La carne rossa contiene, peraltro, anche la vitamina D, ma in piccole quantità e in proporzioni molto più basse rispetto al fegato.


Carne rossa e malattie cardiovascolari

Negli ultimi anni si è sviluppato un acceso dibattito scientifico sugli effetti del consumo di carne rossa sulla salute. Gran parte di essi è stata attribuita al contenuto dei grassi, alla sua trasformazione e preparazione.
Renata Micha dell’Harvard Medical School, Boston – USA e collaboratori, proprio per valutare la coerenza nell’associazione tra il consumo della carne e lo sviluppo della malattia coronarica (CHD), dell’ictus e del diabete mellito e raccomandarne, quindi di conseguenza, le limitazioni quantitative di consumo, hanno condotto una revisione sistematica e una meta-analisi dei trial nei meriti (Circulation. 2010; 121: 2271-2283).
Gli Autori hanno, così, cercato qualsiasi studio di coorte, caso-controllo, o randomizzato che avesse valutato le condizioni e gli esiti sugli adulti generalmente sani, identificando venti studi che soddisfacevano i criteri d’inclusione, di cui tre caso-controllo e diciassette coorti prospettiche. I venti studi selezionati comprendevano 1.218.380 persone, di cui 23.889 con CHD, 2.280 con ictus e 10.797 con diabete mellito. L’assunzione di carne rossa non era associata con la malattia coronarica in quattro studi con rischio relativo per 100 g di porzione giornaliera = 1,00; intervallo di confidenza 95%, 0,81-1,23, P per eterogeneità = 0,36. Non lo era neanche con il diabete mellito in cinque con rischio relativo = 1,16, intervallo di confidenza 95%, 0,92-1,46, p = 0,25. Al contrario, l'assunzione di carne lavorata era associata a rischio più elevato del 42% della CHD in cinque studi con rischio relativo per 50 g giornalieri = 1,42; intervallo di confidenza 95%, 1,07-1,89, p = 0,04 e a quello di diabete mellito più elevato del 19% in sette con rischio relativo = 1,19, intervallo di confidenza 95%, 1,11-1,27, p <0,001. Il consumo di carne rossa e quello dei trasformati non erano associati con l’ictus, ma solo tre studi avevano valutato queste relazioni.
In conclusione, il consumo delle carni trasformate, ma non quello delle rosse, si associava a una maggiore incidenza di malattia coronarica e di diabete mellito. Questi risultati, secondo gli Autori, ponevano l’accento, per le raccomandazioni dietetiche più utili per la salute, la necessità di una migliore comprensione dei meccanismi potenziali degli effetti delle carni sull’organismo con particolare attenzione a quelle lavorate. Tuttavia, Micha ribadiva che non si sarebbero dovuti utilizzare i loro risultati come licenza di mangiare molta carne rossa non trasformata ad libitum perché, anche se non si dimostrava nessun aumento del rischio di malattie cardiache e del diabete, non si rilevava anche la riduzione del rischio. Inoltre, i salumi trasformati e non erano associati a un più alto rischio di alcuni tumori, in particolare quello del colon-retto. Bisognerebbe, infatti, dare più enfasi al crescente consumo di alimenti che hanno dimostrato di essere protettivi, come la frutta, la verdura, i cereali integrali, il pesce e le noci. Vanno, invece, evitati e minimizzati quegli alimenti particolarmente ricchi di sodio, di altri additivi e di grasso.


Carne rossa e cancro

Per loro canto, Sabine Rohrmann dell’University of Zurich - Switzerland e collaboratori nello studio EPIC (European Prospective Investigation into Cancer and Nutrition), su oltre 448,568 soggetti di ambo i sessi dimostravano un aumento della mortalità tra i soggetti che avevano consumato carni lavorate regolarmente e una minore in chi consumava carne rossa (BMC Medicine 2013, 11:63). Si registrava anche un aumento delle malattie cardiovascolari, ma anche dei decessi per cancro. In questo studio policentrico un gruppo di 521.457 adulti sani di età compresa tra i trentacinque e i settanta anni erano arruolati in ventitré centri di dieci Paesi europei: Danimarca (11%), Francia (14%), Germania (10%), Grecia (5%), Italia (9%), Paesi Bassi (8%), Norvegia (7%), Spagna (8%), Svezia (10%) e Regno Unito (17%). Un centro di Oxford dell’UK reclutava nello stesso tempo 27.000 vegetariani e vegani, che costituiva il sottogruppo più ampio in uno studio di questo tipo. Il reclutamento dei partecipanti, avvenuto tra il 1993 e il 1999, prevedeva un follow-up di almeno dieci anni. I principali dati prospettici erano raccolti in questionari alimentari standardizzati, autosomministrati o in un’intervista di base. Erano compilati diari alimentari di sette giorni. Erano prelevati campioni di sangue e misurazioni antropometriche, come l'indice di massa corporea e il rapporto vita-fianchi. Inoltre, lo studio GenAir caso-controllo studiava la relazione tra fumo passivo e inquinamento atmosferico con i tumori e le malattie respiratorie.

 I risultati e le raccomandazioni principali scaturite dallo studio, peraltro ancora in corso, sono stati nel 2008 i seguenti:

Nel 2013 Sabine Rohrmann dell’University of Zurich - Switzerland e collaboratori hanno pubblicato un aggiornamento su oltre 448,568 soggetti di ambo i sessi dai trentacinque ai sessantanove anni con dimostrazione di un aumento della mortalità tra quelli che avevano consumato regolarmente carni lavorate e di un minore incremento della mortalità in chi aveva consumato quella rossa (BMC Medicine 2013, 11:63). Si era rilevato anche un aumento delle malattie cardiovascolari, ma anche dei decessi per cancro. In particolare, nel giugno 2009 si osservavano 26.344 morti e, dopo aggiustamento multivariato, l’elevato consumo di carne rossa correlava con una maggiore mortalità per qualsiasi causa con hazard ratio (HR) = 1.14, intervallo di confidenza 95% (IC) 1,01-1,28, 160 +, rispetto ai 10-19,9 g / die. L'associazione era più forte per le carni trasformate con HR = 1.44, 95% IC 1,24-1,66, 160 +, sempre rispetto ai 10-19,9 g / die. Dopo la correzione dell’errore di misura, rimaneva significativa una maggiore mortalità per qualsiasi causa solo per le carni trasformate con HR = 1,18, 95% IC 1,11-1,25, per 50 g / d. Gli Autori, a seguito dei loro risultati, stimavano che il 3,3% (95% IC 1,5% al 5,0%) dei decessi si sarebbe potuti evitare se tutti i partecipanti avessero consumato carni lavorate in quota inferiore ai 20 g / giorno. Le associazioni significative con l'assunzione delle carni lavorate si osservavano per le malattie cardiovascolari, il cancro e le altre cause di morte. Il consumo di pollame, invece, non correlava con la mortalità di tutte le cause.
In conclusione, sulla base dei loro risultati gli Autori sostenevano che esisteva una moderata associazione positiva tra il consumo di carne lavorata e la mortalità, in particolare per l’effetto sulle malattie cardiovascolari, ma anche sul cancro.
Pan A dell’Harvard School of Public Health, Boston – USA e collaboratori proprio per chiarire il ruolo del consumo di carne rossa sulla mortalità hanno osservato in modo prospettico 37.698 uomini arruolati dall’Health Professionals Follow-up Study dal 1986 al 2008 e 83.644 donne provenienti dal Nurses' Health Study dal 1980 al 2008, senza malattia cardiovascolare (CVD) e cancro al basale (Arch Intern Med. 2012 Apr 9;172(7):555-63).

La dieta è stata valutata mediante validati questionari di frequenza alimentare e aggiornata ogni quattro anni. Gli Autori hanno, così, documentato durante i 2.960.000 anni-persona di follow-up 23.926 morti, di cui 5.910 da CVD e 9.464 per cancro. Dopo aggiustamento multivariato per lo stile di vita e i maggiori fattori di rischio dietetici, l'hazard ratio cumulativo (HR) (IC 95%) di mortalità totale per un aumento di 1-servizio per giorno era 1,13 (1,07-1,20) per la carne rossa non trasformata e 1.20 (1,15-1,24) per le carni rosse elaborate. I corrispondenti HR (95% IC) erano 1,18 (1,13-1,23) e 1,21 (1,13-1,31) per la mortalità cardiovascolare e di 1,10 (1,06-1,14) e 1,16 (1,09-1,23) per la mortalità per cancro. Gli Autori stimavano anche che la sostituzione di una porzione il giorno con altri alimenti, tra cui il pesce, il pollame, le noci, i legumi, i latticini a basso contenuto di grassi e i cereali integrali, con una porzione di carne rossa si associava a un minore rischio di mortalità dal 7 al 19%. Inoltre, valutavano che nelle coorti il 9,3% dei decessi degli uomini e il 7,6% delle donne si sarebbero potuti evitare alla fine del follow-up, se tutti gli individui avessero consumato meno di 0,5 porzioni il giorno, pari a circa 42 g / die, di carne rossa.
In conclusione, nello studio il consumo di carne rossa si associava a un aumentato rischio di mortalità totale, cardiovascolare e per cancro. La sostituzione con altre fonti proteiche più ​​salutari della carne rossa si associava, peraltro, a un minor rischio di mortalità. In particolare, dopo aggiustamento per i fattori di rischio multipli, il consumo di una porzione supplementare di carne il giorno si associava con un aumento del 16% del rischio di mortalità cardiovascolare e del 10% del rischio di morte per cancro. A seguito dei suoi risultati, Pan A suggeriva di ridurre il consumo della carne rossa non trasformata a meno di tre porzioni la settimana e di sostituirla con porzioni di pesce, pollame, cereali integrali salutari.


Cuore a rischio con carni rosse e microflora intestinale impropria

La patogenesi della malattia cardiovascolare (CVD), com’è oramai generalmente riconosciuta, include fattori genetici e ambientali. Un noto fattore di rischio ambientale è la dieta ricca di lipidi. È nozione anche ben consolidata il rapporto con il rischio cardiovascolare tra il colesterolo del sangue e i livelli dei trigliceridi. Tuttavia, sulla patogenesi della malattia aterosclerotica del cuore si sa meno circa il ruolo dei fosfolipidi, terza categoria principale dei lipidi. Peraltro, di recente è emerso sempre più convincentemente, ma ancora in modo controverso, il ruolo di un altro potenziale fattore ambientale per lo sviluppo o la progressione della malattia aterosclerotica: l'infiammazione a causa degli agenti infettivi. Alcuni studi hanno suggerito l’associazione tra la malattia coronarica e i germi patogeni, come il citomegalovirus (CMV), l’Helicobacter, la Clamidia o la C. pneumonia. Tuttavia, gli studi prospettici randomizzati negli esseri umani hanno finora fallito nel dimostrare i benefici cardiovascolari con gli antibiotici. Gli studi sui topi dislipidemici, liberi da germi, confermano che gli agenti infettivi non sono necessari per lo sviluppo della placca aterosclerotica murina. Pur tuttavia, se da una parte non è ancora stabilito un preciso legame relazionale causa-effetto nell'uomo tra l’elemento patogeno batterico o virale e l'aterosclerosi, la prospettiva di un ruolo giocato dai microbi sulla suscettibilità dell’aterosclerosi rimane allettante.
Il microbiota intestinale, comprendente trilioni di microrganismi non patogeni commensali, serve, in effetti, come filtro per la nostra più grande esposizione ambientale rappresentata da ciò che mangiamo. La flora intestinale svolge un ruolo fondamentale nell’aiutare la digestione e l'assorbimento di molti nutrienti. Gli studi sperimentali sugli animali hanno più recentemente dimostrato che le comunità microbiche intestinali possono influenzare l'efficienza di raccolta dell’energia dalla dieta e, di conseguenza, influenzare la suscettibilità per l’obesità. Inoltre, gli studi della metabolomica sui ceppi dei topi ibridati hanno anche dimostrato che il microbiota può svolgere un ruolo attivo nello sviluppo delle complesse alterazioni metaboliche. Può, difatti, predisporre alla resistenza all'insulina e alla steatosi epatica non alcolica. A tale proposito, risulta di certo interesse che il metabolismo del microbiota intestinale della colina e della fosfatidilcolina ha come prodotto la TMA (trimetilammina), ulteriormente trasformata in TMAO (trimethylamine-N-oxide), a particolare azione proaterogena. Peraltro, dopo ingestione di L-carnitina, attraverso un meccanismo microbiota-dipendente, gli uomini onnivori producono molta più TMAO dei vegani o vegetariani. Inoltre, la presenza dei batteri specifici nelle feci umane è stata associata sia con la concentrazione plasmatica della TMAO sia con lo stato dietetico.
Wang Z della Cleveland Clinic, Ohio – USA e collaboratori, fidando sulle promettenti scoperte permesse dagli studi della metabolomica sui percorsi legati ai processi delle malattie, li hanno utilizzati (Nature 2011 Apr 7;472(7341):57-63) per generare i profili metabolici delle piccole molecole plasmatiche utili a predire il rischio della malattia cardiovascolare (CVD). In un’ampia coorte clinica si dimostravano idonei indipendentemente dalla dieta a predire il rischio di malattia cardiovascolare tre metaboliti della fosfatidilcolina (PC): la colina, la TMAO (trimethylamine N-oxide) e la betaina. La supplementazione dietetica nei topi con colina, TMAO o betaina promuoveva la sovraregolazione dei molteplici recettori scavenger dei macrofagi legati all’aterosclerosi. Quella con colina o TMAO dava impulso all’aterosclerosi. Studi con topi privi di germi confermavano, per l’aumento di accumulo del colesterolo nel macrofago e per la formazione delle cellule schiumose, un ruolo critico per la colina della dieta e per la flora intestinale per la produzione di TMAO. La soppressione della microflora intestinale nei topi inclini all’aterosclerosi inibiva, d’altra parte, la malattia amplificata dalla colina della dieta. La scoperta di una relazione tra il metabolismo intestinale della fosfatidilcolina della dieta, dipendente dalla flora, e la patogenesi delle CVD offre, di certo, opportunità promettenti per lo sviluppo di nuovi test diagnostici, oltre che approcci terapeutici più conclusivi per la malattia aterosclerotica del cuore e i vasi.
In effetti, gli Autori, utilizzando un approccio mirato alla metabolomica e rivolto a individuare i metaboliti i cui livelli plasmatici potessero predire il rischio di malattia cardiovascolare, hanno avuto conferma di un nuovo percorso di collegamento tra l'assunzione dei lipidi della dieta, la microflora intestinale e l'aterosclerosi. Tale percorso rappresenta, invero, un singolo contributo nutrizionale supplementare alla patogenesi della malattia cardiovascolare che coinvolge il metabolismo della colina. È un ruolo obbligato per la comunità microbica intestinale e per l’espressione della regolamentazione delle superfici dei livelli dei recettori scavenger dei macrofagi, noti per partecipare al processo aterosclerotico. La flora intestinale genera, quindi, il metabolita proaterogenico TMAO che si forma in un processo flora-dipendente a due fasi dalla scissione di una trimetilammina, come la fosfatidilcolina, la colina, la betaina, successiva generazione del precursore TMA e ossidazione successiva per mezzo della FMO3 o altre forme simili.

È da notare che la PC rappresenta nell’uomo la fonte alimentare più abbondante di colina, nutriente essenziale, di solito raggruppato all'interno del complesso vitaminico B. La colina e il suo metabolita, la betaina, sono i donatori di metile con l’acido folico e sono metabolicamente collegati ai percorsi della transmetilazione, tra cui la sintesi dell’omocisteina, noto fattore di rischio CVD. La carenza di entrambe, la colina e la betaina, è suggerita come causa di produzione dello scambio nei geni epigenetici legati all’aterosclerosi. Nei modelli sperimentali dei roditori il deficit acuto di colina e di metionina provoca l’accumulo dei lipidi nel cuore, nelle arterie e nel fegato con steatoepatite. Comunque, l'associazione tra la colina alimentare e l'aterosclerosi è senz’altro complessa ed è influenzata dalla composizione della microflora intestinale.
La comunità microbica intestinale umana è un ecosistema enorme e diversificato con funzioni note che riguardano la nutrizione, la salute delle cellule epiteliali intestinali e l’immunità innata. Come già enunciato, è stata anche recentemente implicata nello sviluppo di alcuni fenotipi metabolici, come l'obesità e l'insulino-resistenza, così come le alterazioni delle risposte del sistema immunitario.
Robert A Koeth della Cleveland Clinic, Ohio – USA e collaboratori, proprio considerando che il metabolismo della microflora intestinale della colina e della fosfatidilcolina produce trimetilammina (TMA), ulteriormente trasformata in una specie aterogena, la trimetilammina-N-ossido (TMAO), hanno dimostrato che attraverso un simile processo la L-carnitina, una trimetilammina abbondante nella carne rossa, produce anche TMAO e accelera l'aterosclerosi nei topi (Nature Medicine Year published: (2013)DOI:doi:10.1038/nm.3145). È da notare che la carnitina, derivando dall’amminoacido lisina contenuto abbondantemente nelle proteine animali e ​​vegetali della dieta, si ottiene da molte fonti e anche dalle bevande energetiche. Se si consumano questi precursori, i microbi che metabolizzano la carnitina aumentano nell'intestino con le conseguenze legate all’azione dei metaboliti prodotti. I ricercatori hanno dato la l-carnitina della carne rossa e dei latticini a settantasette volontari, tra cui ventisei erano vegani o vegetariani. Un vegano accettava anche di mangiare una bistecca di manzo da 200 grammi.
Dopo una notte di digiuno, i volontari onnivori erano alimentati con una capsula di carnitina e una bistecca di 226.80 gr con misura della loro TMAO plasmatica e urinaria. In seguito, per sopprimere i loro microbi intestinali hanno ricevuto antibiotici ad ampio spettro per via orale per una settimana, dopo di che hanno ricevuto un secondo carico di carnitina. Dopo tre settimane, per consentire la ripopolazione microbica intestinale, hanno ricevuto un terzo carico di carnitina. I loro livelli di TMAO erano quasi non rilevabili dopo la terapia antibiotica, ma rimbalzavano dopo la ripopolazione della flora intestinale. Peraltro, si dimostrava che dopo l'ingestione delle capsule di carnitina i vegani e i vegetariani producevano livelli nettamente più bassi di TMAO, rispetto agli onnivori.

I test, quindi, dimostravano che il consumo della l-carnitina aumentava i livelli ematici della trimetilammina-N-ossido (TMAO), composto che può alterare il metabolismo del colesterolo e rallentare la sua rimozione dalle pareti arteriose. Pur tuttavia, anche quando i vegani e i vegetariani assumevano supplementi di L-carnitina, producevano molto minori quantità della TMAO rispetto ai carnivori. Le analisi fecali dimostravano che, tra chi mangiava carne e chi no, c’era anche un’ampia diversità dei tipi batterici nelle loro viscere. Per chiarire ulteriormente il caso, i ricercatori controllavano i livelli di L-carnitina nel sangue di 2.595 persone sottoposte a elettivo check-up cardiovascolare. I livelli plasmatici predicevano l’aumento dei rischi, sia per la malattia cardiovascolare prevalente (CVD) sia per gli eventi cardiaci avversi maggiori, come l’infarto miocardico, l’ictus o la morte. Tutto questo, però, si verificava solo tra i soggetti in concomitanza con gli alti livelli di TMAO. Peraltro, la cronica alimentazione con L-carnitina nei topi, con composizione microbica del cieco modificata, migliorava nettamente la sintesi della TMA e della TMAO e peggiorava l’aterosclerosi. Tutto ciò, invece, non si verificava se era contemporaneamente soppresso il microbiota intestinale. Peraltro, nei topi con un microbiota intestinale intatto, la supplementazione dietetica con TMAO o con carnitina o colina riduceva in vivo il trasporto inverso del colesterolo.
In conclusione, lo studio dimostrava che il consumo della carne rossa aumentava il rischio di morte per malattie cardiache, anche nelle persone sotto controllo per i livelli di grasso e colesterolo. Il microbiota intestinale poteva contribuire al legame, ormai consolidato, tra gli alti livelli del consumo di carne rossa e il rischio di CVD. Di per sé, il nutriente non sembrava fare la differenza. Tuttavia, le persone che avevano alti livelli sia di L-carnitina e sia di TMAO erano obiettivi primari per la malattia del cuore. Tutto ciò come ulteriore prova che è l'alchimia batterica, non la sola L-carnitina, che rappresentava la vera minaccia.
Tali risultati, secondo gli Autori, dovrebbero essere motivo di riflessione non solo per gli amanti della carne, ma anche per chi assume integratori di L-carnitina, commercializzata con la promessa, peraltro non scientificamente provata, di promuovere l'energia, la perdita di peso e le prestazioni atletiche.
            Dal loro canto James J. DiNicolantonio della Wegmans Pharmacy e collaboratori, per valutare gli effetti della L-carnitina sulla morbilità e mortalità dell’infarto miocardico acuto, sulle aritmie ventricolari (VAS), sull’angina, sull’insufficienza cardiaca e sul reinfarto, rispetto al placebo o a un controllo, hanno svolto una revisione sistematica e una meta-analisi di tredici studi controllati con 3.629 pazienti (Mayo Clin Proc 2013; DOI: 10.1016/j.mayocp.2013.02.007).  Questi studi sono stati identificati attraverso basi di ricerche di Ovid MEDLINE, PubMed ed Excerpta Medica (EMBASE) tra il pimo mag 2012 e il trentuno agosto 2012.

Rispetto al placebo o al controllo, la L-carnitina si associava a una significativa riduzione del 27% della mortalità per tutte le cause (odds ratio 0,73, 95% IC, 0,54-0,99, p = 0,05; risk ratio [RR], 0.78; 95 % IC, 0,60-1,00, p = .05), una riduzione altamente significativa del 65% delle VAS (RR 0.35, 95% IC, 0,21-0,58, p <0,0001) e anche una significativa riduzione del 40% dello sviluppo di angina (RR 0,60, IC 95%, 0,50-0,72, p <.00001). Non vi era alcuna riduzione dello sviluppo d’insufficienza cardiaca (RR 0.85, 95% IC, 0,67-1,09, p = 0,21) o di reinfarto miocardico (RR 0,78, IC 95%, 0,41-1,48, p = .45).
In conclusione, rispetto al placebo o al controllo, la L-carnitina, associata alle altre terapie indicate nella fase acuta dell’infarto miocardico, avrebbe dimostrato di ridurre in modo significativo la mortalità e di portare a un minor numero di sintomi di angina e di aritmie ventricolari. In alcuni studi, infatti, la terapia con L-carnitina era stata somministrata anche successivamente, da sei mesi a un anno dall’infarto, suggerendo un suo possibile ruolo non solo nella gestione acuta, ma anche nella prevenzione secondaria. Secondo gli Autori, il guadagno della sopravvivenza con il suo uso sarebbe stato dovuto alla limitazione delle dimensioni dell’infarto miocardico e alla stabilizzazione della membrana dei cardiomiociti con miglioramenti del metabolismo energetico cellulare. I benefici cardiovascolari a breve e lungo termine avrebbero riguardato prevalentemente la capacità della L-carnitina di favorire l'eliminazione dei metaboliti tossici degli acidi grassi e di facilitare il trasporto degli acidi grassi a catena lunga nei mitocondri, migliorando l'ossidazione del glucosio.
In definitiva, considerando l’eccellente profilo di sicurezza e il basso costo la terapia con L-carnitina, sempre secondo gli Autori, potrebbe essere attualmente considerata soprattutto in pazienti selezionati con angina ad alto rischio o persistente dopo IMA che non tollerano gli ACE-inibitori o la terapia con beta-bloccanti.


La truffa globale della carne adulterata

In Europa si è verificata di recente la vendita di prodotti di carne adulterata.  Alimenti pubblicizzati come contenenti carne bovina sono stati, invece, esaminati e riconosciuti ripieni fino al 100% di carni non dichiarate di cavallo e di altri tipi, come quella di maiale. Il problema è venuto alla luce il 15 gennaio 2013 quando è stato segnalato che il DNA di cavallo era stato scoperto nei beefburgers congelati e venduti nei diversi supermercati irlandesi e britannici. A tal proposito, bisogna notare che, mentre la carne di cavallo è generalmente consumata in molti paesi e non è dannosa per la salute, essa rappresenta un blocco psichico per molte popolazioni, come quelle del Regno Unito e dell'Irlanda. L'analisi ha dichiarato che ventitré dei ventisette campioni di hamburger di manzo conteneva anche il DNA di suino, che allo stesso modo è un alimento interdetto nelle comunità musulmane ed ebraiche.
Pur non essendo un problema diretto di sicurezza alimentare, la truffa ha rivelato una rottura importante nella tracciabilità della filiera alimentare e, quindi, un certo rischio che negli alimenti che ci vengono proposti dal commercio possano essere disinvoltamente inclusi ingredienti indesiderati o addirittura dannosi. Peraltro, c’è da dubitare che possano essere entrati nella catena di approvvigionamento alimentare cavalli sportivi, trattati molto frequentemente con il fenilbutazone, anche se vietato. Dopo la prima notizia nei paesi anglosassoni la truffa è stata verificata in altri tredici paesi europei.
La Coldiretti in Italia ha dichiarato che quasi un campione su cinque esaminati era risultato adulterato dalla presenza di carne equina non indicata nell’etichetta. Tutto ciò sulla base dei risultati delle attività di controllo del Ministero della Salute. Sui 454 campioni prelevati, ben novantatré risultavano, infatti, positivi alla carne equina per oltre l'1% per cento, senza che fosse dichiarata. In nessun campione, però, era rilevata la presenza di fenilbutazone, ma il dato non riduceva la gravità del fatto. Difatti, tutto ciò faceva emergere perplessità sul giro vorticoso delle partite di carne mobilitate in tutta Europa attraverso intermediazioni poco trasparenti che favoriscono il verificarsi di frodi e inganni a danno delle imprese e dei consumatori. S’intravede, in effetti, un meccanismo di possibili contaminazioni, sia per le multinazionali sia per le piccole aziende. La Coldiretti ha in proposito precisato che, per evitare il ripetersi di tali emergenze e dipanare ogni dubbio sulle effettive caratteristiche del cibo che si porta a tavola, si rendono necessari interventi strutturali, come l’obbligo di indicare la provenienza degli alimenti in etichetta per farla conoscere ai consumatori e scoraggiare il proliferare dei passaggi che favoriscono le truffe.