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Jean Philippe Assal e l'educazione terapeutica

Chi è Jean Philippe Assal

JP AssalLaureato in medicina Jean Philippe Assal osservò all'inizio della sua carriera di aiuto all'Ospedale Cantonale Universitario di Ginevra che nelle malattie croniche molti ricoveri erano dovuti alla cattiva osservanza da parte del paziente delle terapie prescritte. Si pose allora il problema di come migliorare questa osservanza. Dalle sue riflessioni nacque la Educazione terapeutica. Nel 1975 Assal aprì l'Unità per l'insegnamento nel trattamento del diabete nell'ambito dell'Ospedale di Ginevra. Nel '95 l'Unità divenne la Divisone per l'educazione terapeutica nelle malattie croniche. Consulente dell'Organizzazione mondiale della sanità, Assal ha fondato nel 79 il Gruppo di studio sull'educazione nel diabete nell'ambito della Associazione europea per lo studio del Diabete.

Dove si insegna l'educazione terapeutica

L'educazione terapeutica, l'insieme di conoscenze e sensibilità che permette al personale sanitario di orientare davvero il paziente verso un rispetto delle terapie prescritte e un autocontrollo reale è l'oggetto di un corso post-universitario dedicato a medici, infermieri dietisti o personale amministrativo che si confrontano con le malattie croniche. Lo dirige il professor Jean-Philippe Assal e si tiene nell'ambito dei programmi di formazione continua gestiti dalla facoltà di medicina dell'Università di Ginevra e dal Dipartimento di Medicina interna dell'Ospedale cantonale di Ginevra. Il corso si articola in nove 'moduli' di cinque giorni suddivisi nell'arco di due anni, ciascuno dei quali è dedicato a temi quali 'comunicare col paziente in una prospettiva di cura a lungo termine' o 'prescrivere un trattamento e aiutare il paziente a seguirlo'. Nel terzo anno lo 'studente' è invitato a progettare e mettere in atto un progetto concreto nell'ambito della sua attività lavorativa e viene seguito da dei tutor.

Parla il professor Assal

I pazienti cronici 'reinterpretano' le prescrizioni del medico: sbagliano, certamente, ma è proprio colpa loro? Jean Philippe Assal se lo è chiesto e ha risposto fondando la Educazione terapeutica: l'arte di seguire il paziente cronico nel percorso che va dallo choc della diagnosi alla accettazione della terapia.

«Su cinque pazienti cronici, solo uno o due, seguono correttamente le prescrizioni del medico. La grande maggioranza adotta una propria 'versione' della terapia, e ha delle idee in proposito che non confesserà mai al medico. Sbagliano, certamente, ma è proprio tutta colpa loro?
Ginevrino, Jean Philippe Assal è uno dei pochi studiosi ad aver approfondito quel che avviene dopo la prescrizione. Dalle sue riflessioni, dal suo impegno personale, dalla sua non comune conoscenza di quel che avviene nella psicologia, nella scienza delle comunicazioni, e nella prassi quotidiana dei pazienti è nata una intera disciplina, la Educazione terapeutica che Assal insegna all'Università di Ginevra e nella quale il 'suo' ospedale, il Cantonale Universitario di Ginevra, è diventato Centro di riferimento a livello mondiale.
Consulente dell'Organizzazione Mondiale della Sanità, 'maestro' di generazioni di medici e infermieri anche in Italia, Assal ha risposto in una recente intervista con una chiarezza e una capacità di mettersi 'dalla parte del paziente' non comuni.

Perché una prescrizione non viene seguita?
La terapia di un paziente cronico richiede una serie di comportamenti che incide su tutti gli aspetti della vita di una persona: lavoro, amici, tempo libero, abitudini alimentari e di vita. Al paziente cronico il medico proibisce mille attività, ne impone cento altre. Chiede di prendere a orari definiti decine di pillole al giorno. Ci sono patologie la cui terapia richiede al paziente tre ore di impegno al giorno. Altre, come il diabete, chiedono una decina di atti fra misurazioni e iniezioni. E questo ogni giorno per tutta la vita. Il medico fa bene, ma fa presto a scrivere su un foglio: faccia quattro controlli della glicemia e tre insuline al giorno.

Voglio vedere lui!
Esatto, stiamo parlando di cambiare completamente la vita di una persona, per non parlare dell'immagine che il paziente ha di se stesso. Nella patologia cronica il malato deve ricostruire l'idea che ha di se stesso intorno alla malattia.

Perché nelle malattie croniche?
Perché le patologie acute, per gravi che possano essere, hanno un tempo definito. Nella maggior parte dei casi poi sono seguite in ospedale, dove il paziente non ha altra scelta che attenersi alla terapia. Nella patologia acuta il paziente è passivo, è portatore di una patologia. Nella malattia cronica il paziente è questa malattia, ci convive e la qualità della relazione con il medico diviene centrale. Il fatto è che le malattie croniche oggi sono sempre più diffuse: l'80% delle visite mediche è dovuto a malattie croniche. Ma se la malattia è ben curata, cosa importa la qualità della relazione? Ma ben difficilmente la malattia cronica sarà ben curata se manca questa relazione! Vede noi tutti, medici ma anche pazienti, continuiamo ad applicare inconsciamente i paradigmi della medicina 'acuta' quella dell'ospedale, del pronto soccorso. Questo è il problema. Non vi è nulla di più differente. In ospedale il medico ha tutta la responsabilità e tutto il potere: il paziente è passivo.

Ma se il paziente, una volta fuori dall'ospedale o una volta diagnosticato, non segue le indicazioni del medico in fondo... è colpa sua.
Questo è un approccio semplicistico. I medici accusano il paziente. Dicono 'non collabora'; ma perché non collabora? Lo definiscono 'non motivato'; ma chi dovrebbe creare e gestire questa motivazione? Il fatto è che il paziente cronico segue un iter psicologico ben preciso che parte, è normale, con la negazione della malattia e arriva alla accettazione.
Dalla accettazione si passa a quell'atteggiamento di sfida che è il più fruttuoso: "Bene: ho il diabete, l'asma bronchiale, l'epatite... ma se seguo certe regole posso condurre una vita normale e lunga". Ma questo tragitto è molto complesso, prevede passaggi intermedi e binari morti.. Se noi non gestiamo questo processo, alla accettazione non si arriverà mai.

Può fare un esempio di questi passaggi intermedi?
Per esempio un passaggio molto frequente è la contrattazione: il paziente dice: "Va bene: ho il diabete ma accetto solo una parte delle indicazioni che mi è stata data non farò quattro controlli al giorno della glicemia ma solo due", oppure "Va bene ho l'epatite cronica ma un bicchiere di vino a pasto ogni tanto me lo bevo".

Ma il medico sa di questa accettazione parziale?
Se il rapporto non è buono, non ne è al corrente, non la gestisce. Il paziente nega, non racconta il suo vissuto della malattia. E finisce col fare anche degli errori: magari aumenta la dose di farmaci o li cambia, convinto che non siano efficaci. E invece la terapia era giusta, solo che mancava una educazione terapeutica. Solo che a questo punto anche la terapia diviene sbagliata.

E il medico cosa dovrebbe fare?
Piuttosto che spezzare il pane della conoscenza medica, il medico dovrebbe chiedere al paziente cosa sia per lui la patologia, dovrebbe capire come il paziente ha ricostruito la sua vita intorno alla patologia. A quel punto è facile individuare i problemi. Chiedere: "Ha seguito le mie prescrizioni?" è inutile. Meglio chiedere con aria noncurante: "Trova difficile seguire la terapia?", "Come riesce a conciliarla con la sua vita lavorativa o di svago?". I medici di 50 anni fa forse queste cose le sapevano fare. Sicuramente la capacità di educare alla terapia dovrebbe essere parte del bagaglio formativo dei medici. Ma non è certo l'unica tra le sfide che la malattia cronica ci pone! Del resto non è un po' curioso che il 'sistema' medico spenda ore a milioni per fare delle domande al pancreas e nemmeno un minuto per l'analisi della persona?

Affinchè una terapia sia davvero seguita, il medico dovrebbe quindi deciderla insieme al paziente?
Capisco che suona come una provocazione. Un medico espertissimo deve contrattare con una persona che ha una cultura e conoscenze completamente differenti? Ma di fatto è questo che accade. Il paziente di fatto co-decide. Solo che questo processo è oscuro al medico. La situazione ideale è ovviamente quella in cui il medico dà l'impressione che la prescrizione sia nata da un accordo col paziente. Ma è difficile.

Perché?
La medicina conosce solo l'accettazione piena e completa da parte del paziente. Seguendo la sua identità professionale il medico continua a seguire il paradigma ospedaliero e vede nella contrattazione una insubordinazione, una perdita di potere e di controllo. Del resto si può capire questo atteggiamento. Contrattare vuol dire anche correre dei rischi. A meno che il medico non sia così abile da applicare la terapia ideale dando l'impressione di essere sceso a un compromesso.

Contrattare non comporta un pericolo?
Sì, è così. La versione 'contrattata' di una terapia è probabilmente meno efficace, si possono anche avere delle crisi. Ma qual è l'alternativa?
L'alternativa è che il medico impone una terapia e il paziente non la segue e non glielo dice. Il rischio di crisi è eguale, anzi è molto maggiore. Nel primo caso però il medico gestisce il processo, nel secondo non lo gestisce. Del resto, scusi, lei come fa a insegnare a un bambino ad andare in bicicletta? Gli consegna un dépliant divulgativo? Gli fa una conferenza?

No di certo, lo faccio sedere sul sellino e gli faccio vedere come si pedala.
Esatto: in una prima fase terrà lei in equilibrio la bicicletta. Subito dopo starà vicino pronto a intervenire se il bambino cade. E cade, può scommetterci che cade! Si fa male? Sì, probabilmente sì, un pochino. Ma io genitore sono lì a gestire questo processo. Se cade troppo spesso magari abbasso il sellino, cambio bici.

È un po' sorprendente quello che lei dice, i pazienti cronici generalmente lamentano la mancanza di informazioni da parte del medico.
Può essere vero, in qualche caso. Ma io credo che il paziente non ha il problema di conoscere, quanto di 'rappresentarsi' la malattia. Posso mandare un dépliant informativo a tutti i malati cronici, ma non risolvo il problema. Il paziente su quel foglio trova scritto cosa è il diabete, non cosa è il 'suo' diabete. Il paziente cronico deve fare proprie le informazioni che riceve e ne riceve molte, direi troppe, deve ricostruire una immagine di se stesso a partire da questo dato che è la patologia.

Ma il paziente, cosa deve fare?
Parlare. Il medico non è un vigile o un poliziotto, magari è stressato, magari ha poco tempo, ma nella maggior parte dei casi accetta il dialogo.
Provare a dirgli che tipo di rielaborazione è stata fatta della sua terapia. Dire il 'non detto'. Così com è, la terapia è impossibile da seguire, si scontra con la vita lavorativa o familiare? Parliamone. Il medico dopotutto non è una controparte: alla mancanza di controllo preferirà una terapia meno efficace o sicura ma seguita. Il medico deve convincersi che una prescrizione non condivisa dal paziente non serve a nulla, che il suo lavoro è compiuto solo quando il paziente ha accettato quello che lui gli sta dicendo.

Prof. Jean-Philippe Assal
52, boulevard St-Georges
1205 Genève Suisse
www.education-patient.net

Intervista rilasciata a Modus on line (www.modusonline.it)