Notiziario Novembre 2010 N°11

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NOTIZIARIO Novembre 2010 N°11

A cura di Giuseppe Di Lascio

 

Con la collaborazione di:

Bagalino Alessia, Bauzulli Doriana, Di Lascio Alessandro, Di Lascio Susanna, Levi Della Vida Andrea, Melilli Simonetta, Pallotta Pasqualino, Sesana Giovanna, Stazzi Claudio, Zimmatore Elena

 

SONNO E SALUTE

I disturbi del sonno

II^ parte

Giuseppe Di Lascio – Susanna Di Lascio

 


Deprivazione del sonno ed espressione emotiva

Els van der Helm e collaboratori del Department of Psychology University of California, Berkeley, CA hanno voluto studiare l'impatto della privazione del sonno sull’espressività facciale delle emozioni umane su trentasette soggetti sani, di cui 21 femmine, di età tra i 18 e i 25 anni, randomizzati 17 al gruppo controllo e 20 a quello di privazione del sonno (Sleep. 2010 March 1; 33(3): 335–342). Quando deprivati del sonno, si rilevava un calo marcato e significativo nel riconoscimento delle espressioni affettive, soprattutto nelle femmine e per le condizioni di felicità e di rabbia. Gli AA., così, concludevano che il loro studio suggeriva che la perdita di sonno alterava il sistema affettivo dell’individuo, interrompendo l'individuazione di spunti salienti affettivi nella vita sociale.


Privazione di sonno, spia di sonnambulismo

Antonio Zadra e collaboratori della Faculty of psycology of Université de Montréal, in Quebec hanno studiato 40 pazienti, di cui 10 con un disturbo del sonno in concomitanza di movimenti periodici delle gambe (Ann Neurol. Published online March 19, 2008). La privazione del sonno non solo aumentava il numero totale degli episodi comportamentali, ma anche la proporzione di pazienti con almeno 1 episodio complesso - da 5, come in 5 pazienti al basale, a 22 in 14 casi durante il sonno di recupero.  Ciò avrebbe significato che la persona manifestava un qualche tipo di comportamento motorio insolito, per cui poteva sedere sul letto, giocare con le lenzuola, indicare le pareti, cercare di alzarsi. Il sonnambulismo, o questo comportamento di movimento notturno, si verificava, infatti, in genere durante la fase 3 o 4 del sonno, detta anche SWS (slow-wave sleep) che è, anche, la fase del sonno più profondo e compensa la maggior parte di una sua privazione. Nello studio, in effetti, si è verificato un aumento significativo del tempo trascorso in SWS durante il recupero, rispetto al sonno basale. I sonnambuli, secondo gli AA, hanno problemi del mantenimento del sonno profondo e per una qualche ragione il loro cervello cerca di passare dal sonno a onde lente al risveglio, rimanendo intrappolati tra queste due condizioni. Sulla base dei risultati del loro studio i ricercatori hanno sostenuto che i sonnambuli soffrono di una disfunzione del meccanismo responsabile della generazione dello SWS stabile. In effetti, questi pazienti hanno spesso tanti piccoli micro - risvegli durante il sonno a onde lente. In occasione di deprivazione, poi, si hanno anche molto più di questi bassi risvegli e in alcuni di loro si potrà sviluppare un episodio completo. Tale condizione, presente nel 4% circa della popolazione adulta, in sua qualsiasi forma assume, pertanto, dignità di possibile strumento di diagnosi di sonnambulismo, soprattutto sul piano medico-legale.

 


Conseguenze metaboliche della restrizione cronica di sonno

Buxton OM e collaboratori del Department of Medicine, Brigham and Women’s Hospital, Boston, MA, sulle premesse dell’associazione tra disturbi del sonno e metabolismo del glucosio, hanno voluto testare l'ipotesi meccanicistica che la restrizione del sonno prolungata in combinazione con il disallineamento circadiano, come accade con il lavoro notturno,possa alterare il metabolismo del glucosio (Jounal of sleep and sleep disorders research,2010, Vol. 33). Hanno, quindi, arruolato per 39 giorni 12 adulti sani, al 50% femmine, di età 22,9 ± 0,8, BMI 24,2 ± 0,9 kg/m2. Rispetto al basale, la restrizione di sonno ha aumentato significativamente il picco di glucosio post-prandiale di 5,2 ± 3,9 mg/dL (P <0,01), l'AUC (Area Under Curve)è aumentata in tutti i soggetti in media 2606 ± 295 mg, con P <0,0001, rimanendo i valori più elevati rispetto al basale per oltre 3 ore.Con la limitazione di sonno c'è stata anche una tendenza all’aumento medio di glucosio a digiuno (2,8 ± 1,5 mg / dl, p = 0.08, NS), mentre ilivelli d’insulina sono rimasti invariati rispetto il basale (NS). Come risposta a un pasto standard, i livelli d’insulina hanno dimostrato un picco postprandiale più basso di 29 ± 8 U/ml (P <.01) e l'AUC è stato inferiore di 1.993 ± 587 uU (P <.001), mentre le risposte di glucosio e d’insulina al pasto standard (picco e AUC) non sono state differenti significativamente tra il sonno di recupero e quelle del sonno pieno di base. Tali dati hanno permesso agli AA di concludere che la limitazione e il disallineamento circadiano del sonno per 2,5 settimane avevano provocato un aumento della risposta glicemica e una riduzione della secrezione d’insulina al pasto standard, presumibilmente a causa di un’inadeguata risposta delle cellule beta pancreatiche e che tali effetti potevano essere alla base del rischio elevato di diabete in condizioni di deprivazione cronica di sonno e suo disallineamento circadiano.


Durata del sonno e sensibilità insulinica

Orfeu M Buxton e collaboratori del Department of Medicine, Brigham and Women's Hospital, Boston, MA, considerando che negli USA la durata media del sonno è scesa sotto le 7 ore per notte con un calo durante il secolo scorso di circa 2 ore a notte e negli ultimi 40 anni di più di 1 h il giorno, che la riduzione e la scarsa qualità del dormire si è dimostrata associata in studi trasversali e longitudinali con l’aumento del rischio di obesità, diabete, ipertensione, malattie cardiovascolari, sindrome metabolica e mortalità precoce, che la restrizione del sonno di breve durata (4 ore per notte per 1 settimana in un ambiente di laboratorio), si è dimostrata alterare la tolleranza al glucosio con meccanismi non chiari, hanno voluto verificare l'ipotesi che la restrizione del sonno nei soggetti sani potesse ridurre la sensibilità all'insulina, come valutato dal clamp iperinsulinemico-euglicemico, studiando le relazioni tra i cambiamenti della sensibilità all'insulina, del cortisolo, delle catecolamine e il sonno a onde lente, testando anche la capacità del modafinil, che aumenta la vigilanza durante la veglia nel migliorare gli effetti negativi della restrizione del sonno sulla sensibilità all'insulina. La sensibilità all'insulina in 20 uomini sani, di età dai 20 ai 35 anni e BMI dai 20 ai 30 kg/m2 si è ridotta del 20 ± 24% dopo restrizione del sonno (P = 0,001), senza alterazioni significative nella risposta secretoria insulinica. Allo stesso modo, si è ridotta dell’11 ± 5.5% (P <0,04) la sensibilità all'insulina, valutata con clamping. I risultati, peraltro, non sono stati influenzati dal trattamento con modafinil e i cambiamenti nella sensibilità all'insulina non correlavano con quelli del cortisolo salivare (aumento del 51 ± 8% con restrizione del sonno, P <0,02), delle catecolamine urinarie o del sonno a onde lente. Lo studio ribadiva, quindi, che la restrizione del sonno, 5 ore/notte per 1 settimana, riduceva in modo significativo la sensibilità all'insulina, aumentando le preoccupazioni circa gli effetti della cronica mancanza di sonno sulle patologie connesse all'insulinoresistenza.


Sforzi per la perdita di peso vanificati dal poco sonno

Arlet V.Nedeltcheva e collaboratori dell’University of Chicago, Illinois, sulle premesse che cambiamenti neuroendocrini associati alla riduzione del sonno suggeriscono la compromissione dell'efficacia degli interventi dietetici comunemente usati, hanno voluto esaminare quest’aspetto valutando i cambiamenti dei livelli di leptina, grelina, cortisolo circolante, adrenalina, noradrenalina, ormoni tiroidei e ormone della crescita in rapporto alla perdita di sonno (Ann Intern Med. 2010;153:435-441, 475-476). Hanno, quindi, randomizzato per 14 giorni di dieta e 8,5 ore di sonno notturno 10 soggetti in sovrappeso, adulti non fumatori, 3 donne e 7 uomini, con età media di 41 anni e indice di massa corporea da 25 a 32 kg/m2, confrontandoli con un periodo analogo di dieta e di 5,5 ore di sonno notturno. L’analisi ha fatto rilevare che il sonno ridotto diminuiva la percentuale di peso perso come grasso del 55% e che chi aveva dormito 8,5 ore a notte aveva perso una media di 1,4 kg, mentre quelli che avevano dormito 5,5 ore a notte solo una media di 0,6 kg (p = 0,043). Inoltre, la riduzione del sonno aveva aumentato la perdita di massa corporea priva di grassi del 60% e quelli delle 8,5 ore a notte avevano perso in media 1,5 kg, mentre quelli delle 5,5 ore 2,4 kg (p = 0,002). Peraltro, il minor sonno aveva portato a un aumento della fame e delle concentrazioni di grelina acilata a digiuno e postprandiale di 24 ore ma a un inferiore tasso metabolico a riposo di 24 ore e delle concentrazioni plasmatiche di adrenalina. Le concentrazioni di leptina diminuivano parallelamente alla perdita di peso e di adiposità, senza un significativo effetto indipendente della perdita del sonno (P = .001). Si registrava, anche, un aumento dei livelli di grelina nel sangue, ormone noto per ridurre la spesa energetica, stimolare la fame e l'assunzione alimentare, favorire la ritenzione di grasso e aumentare la produzione di glucosio. La grelina, in effetti, potrebbe spiegare perché i soggetti deprivati del sonno avevano riferito il senso di fame nel corso dello studio. Questi risultati, secondo gli AA, rilevano l'importanza di un sonno adeguato per il mantenimento della massa corporea magra in corso di una dieta dimagrante.

 


Durata del sonno e rischio cardiovascolare

Ferrie JE e coll. dell’University College London Medical School, sulla base dell’ipotesi chesostiene la correlazione traperdita di ore di sonno notturne (cioè dormire una media di cinque o sei ore per notte) e aumento del rischio di disturbi cardiovascolari e dei livelli di pressione arteriosa notturni, hanno condotto uno studio prospettico di coortesu 10.308 civili di età compresa tra 35-55 anni, di cui 9.781 con i dati completi, dimostrando che il rischio di incorrere in eventi cardiovascolari, anche gravi, è il medesimo sia per gli insonni sia per i poltroni.

Per questo motivo i ricercatori hanno stilato una sorta di vademecum da seguire:

Insomma, l'esatto contrario che molti fanno regolarmente(Sleep 2007; 30 (12):1659-66.). Di fatto, una riduzione della durata del sonno da 6, 7, o 8 ore di base si associava con aumento della mortalità cardiovascolare (H.R 2,4 (IC 95% 1,4-4,1). Tuttavia, l’aumento della durata del sonno si associava con mortalità anche se non cardiovascolare (hazard ratio 2.1 (IC 95% 1,4-3,1). Peraltro, la brevità del sonno si dimostrava un fattore di rischio anche per l'aumento di peso, l’ipertensione, il diabete di tipo 2 e la sindrome metabolica, portando talvolta a mortalità. Alcune cause risiedevano spesso nella depressione, nel basso stato socioeconomico e nella fenomenologia complessa del cancro. Inoltre, i disturbi del sonno erano strettamente associati a quelli psichiatrici, come la depressione, l’alcolismo e il disturbo bipolare. Peraltro, sarebbe emerso che fino al 90% degli adulti con depressione dichiarava difficoltà nell’addormentarsi.

Charumathi Sabanayagam e collaboratori del West Virginia University School of Medicine, Morgantown, sulle premesse della dimostrazione degli studi precedenti sull’aumentato rischio di diabete e ipertensione in entrambi i tempi di sonno breve e lungo, volendo portare maggiore chiarezza sulla relazione con le malattie cardiovascolari (MCV), utilizzando i dati del National Health Interview Survey 2005, hanno analizzato le informazioni di 30.397 intervistati (Sleep. 2010;33:1037-1042). Un totale di 2.146 partecipantidi almeno 18 anni di età, per il 57,1% donne, ha dichiarato di aver subito una MCV, infarto miocardico, angina o ictus, rivelando anche le ore di sonno medie in un periodo di 24 ore. Il riferito ammontare di ore di sonno è stato suddiviso in 5 categorie: 1) 5 ore o meno, 2) 6 ore, 3) 7 ore, 4) 8 ore, 5) 9 ore o più. I ricercatori hanno, quindi, determinato l'associazione tra la durata del sonno e il rischio cardiovascolare, tenendo conto dei potenziali fattori confondenti, quali ipertensione, diabete, depressione e attività fisica. Rispetto al gruppo con una media di sette ore di sonno per notte, il rischio di MCV negli altri gruppi con più o meno ore aumentava dal 23% al 220%. Il rischio maggiore si associava con le 5 ore o meno di sonno per notte con un odds ratio multivariata (OR) per le patologie cardiovascolari di 2.20 (IC 95% 1,78-2,71). Per la durata di sonno di 6, 8 e 9 ore o più, l’OR multivariato era 1,33 (IC,95% 1,13-1,57), 1,23 (IC 95%, 1,06-1,41) e 1,57 (IC95%, 1.31 - 1,89), rispettivamente. L'associazione tra rischio cardiovascolare e durata del sonno rimaneva invariata nell’analisi per etnia, sesso e indice di massa corporea. Ciò anche quando l’infarto miocardico e l’ictus sono stati considerati separatamente dalle MCV nel loro complesso. Secondo i ricercatori, i meccanismi sottostanti l'associazione di breve durata del sonno con le MCV possono includere disturbi di funzioni endocrine e metaboliche correlate al sonno, mentre nel caso della maggior durata del sonno potrebbero correlarsi condizioni di disordini respiratori di fondo o di scarsa qualità del sonno stesso.


Disturbi del sonno e tasso di mortalità

Laurel Finn e collaboratori dell’University of Wisconsin School of Medicine in Madisonhanno  voluto studiare 2.242 partecipanti al Wisconsin Sleep Cohort Study 1.872 soggetti, registrando 128 decessi nel corso di un follow-up di 19 anni (June 7, 2010, in San Antonio, Texas, at SLEEP  vol 33, 2010, from the 24th annual meeting of the Associated Professional Sleep Societies LLCsleep 2010-06-17 06).Le morti, metà delle quali erano occorse nel sesso maschile, erano classificate come segue:

Gli AA hanno, così, rilevato che in chi aveva riportato l'insonnia in almeno 2 indagini la ratio di rischio aggiustata era di 2.1 (95% intervallo di confidenza [IC], 1.2 - 3.5), rispetto a quelli senza il disturbo. Peraltro, l'hazard ratio per la mortalità nei casi di difficoltà ad addormentarsi era di 1,9 (IC 95% 0,9-4,1), per quella nei ripetuti risvegli di 3,2 (95% CI, 1,8-5,7), per quella nella difficoltà di riaddormentarsi di 1,8 (95% CI, 0,9 - 3.4) e per quella nell'eccitazione iniziale di 2,4 (95% CI, 1,2-4,5). Il risultato più sorprendente è stato l'aumento del rischio elevato di mortalità tra le persone con insonnia cronica, rispetto a quelli senza, anche dopo aggiustamento per tutte le variabili confondenti. Gli AA, dietro la scorta di tali risultati, hanno dichiarato che l'insonnia, spesso considerata un semplice fastidio sia dai pazienti e sia dai dottori, dovrebbe essere presa in più seria e attenta valutazione. Soprattutto i medici, poi, dovrebbero aggiornarsi continuamente e cercare più attentamente e diligentemente le sue possibili cause per predisporre le nuove e specifiche terapie farmacologiche, possibilmente personalizzate per ogni paziente.


Differenze della deprivazione cronica del sonno con l’età

Cain SW e collaboratori dellaDivision of Sleep Medicine, Harvard Medical School, Boston, MA, sulla base delle relazioni tra mancanza acutadi sonno egravi conseguenze delle prestazioni, in rapporto anche alle indicazioni che gli adulti sani di età superiore potessero risultare meglio preservati rispetto ai giovani adulti hanno voluto esaminare se tale dato potesse valere anche in condizioni di restrizione cronica del sonno. Hanno, quindi arruolato 19 volontari sani, 12 giovani e 7 anziani, in uno studio di ricovero di 39 giorni (Jounal of sleep and sleep disorders research,2010, Vol. 33). In generale, i soggetti anziani hanno fatto rilevare risultati significativamente migliori rispetto ai giovani con p <0,01, senza differenza di età per il più veloce % RT 10 (P> 0,05). In definitiva, però, in tutta la restrizione cronica di sonno le prestazioni peggioravano in tutti i soggetti ma in modo più significativo nei giovani.


Il fumo in gravidanza pregiudica la durata del sonno del nascituro

Kristen Stone e collaboratori dello Women and Infants Hospital in Providence, Rhode Island,hanno eseguito uno studio multicentrico su quasi 1.400 bambini, nati dal 1993 al 1995, per studiare gli effetti a lungo termine dell’esposizione in utero alla cocaina, oppiacei, marijuana, alcol e/o nicotina (Arch Pediatr Adolesc Med 2010; 164:452-456). Dell’esposizione prenatale alle cinque sostanze, quella della nicotina si rivelava l'unico predittore dei problemi di sonno nella vita da un mese ai quattro anni, dai 5 agli 8 e dai 9 ai 12 di età. Tale studio dimostrerebbe, quindi, che il fumo in gravidanza delle madri determina maggiore probabilità nei figli di problemi di sonno sin dalla nascita sino ai 12 anni di età e ciò in diretta correlazione con l’intensità dell’abitudine voluttuaria.AscoltaTrascrizione fonetica


Obesità della prima infanzia e brevità di sonno notturno

Janice F. Bell e collaboratori dell’University of Washington in Seattle, sulla base delle prove che tendono a sostenere un solido rapporto tra ridotta durata del sonno ed eccesso di peso nei bambini e negli adolescenti, utilizzando lo PSID-CDS(Panel Survey of Income Dynamics Child Development Supplements) nel 1997 e nel 2002, hanno esaminato l’associazione tra durata del sonno diurno e notturno e obesità successive in 1930 bambini e adolescenti, dallo zero ai 13 anni al basale nel 1997 (Arch Pediatr Adolesc Med. 2010;164:840-845). Tra i bambini dallo zero ai 4 anni la breve durata di sonno notturno al basale si dimostrava fortemente associata con un rischio più elevato di sovrappeso o obesità successivi (odds ratio, 1,80; intervallo di confidenza 95% 1,16-2,80). Tra i bambini dai 5 ai 13 anni, però, il sonno di base non si associava con lo stato di peso successivo, ma il sonno contemporaneo ne è risultato inversamente associato e in entrambi i gruppi il sonno diurno non risultava significativamente associato con l'obesità successiva. Questi risultati secondo gli AA suggerivano che esiste una finestra critica prima dei 5 anni di età quando il sonno notturno può essere importante per lo stato di obesità successiva.


Sonno, apporto calorico, insulinoresistenza e IMC in adolescenti

Landis AM e collaboratori dell’University of Washington, Seattle, WA, United States, sulle premesse che il diabete mellito 2 e le sue caratteristiche metaboliche intermedie, come insulino-resistenza, sono sempre più diffusi tra gli adolescenti, almeno in parte in rapporto all'aumento del peso corporeo, considerando che l'indice di massa corporea (IMC) è direttamente correlato con l'assunzione calorica e inversamente con il tempo di sonno totale (TST), hanno voluto verificare l’associazione tra lo TST, l'apporto calorico, la resistenza all'insulina e l’IMC in 30 adolescenti altrimenti sani, nel 56,7% femmine, 76,7% di razza bianca, di età media 15,7 + 2,0 anni. L’IMC medio è stato di 24,4 + 5,4 kg/m2 con il 40% di obesi o in sovrappeso, l’apporto calorico medio di 2.310 + 585 kilocalorie e l'indice HOMA-IR 1,96 + 1,1 (> 2 = patologico), lo TST medio notturno 7,7 + 0,92 ore per notte, inferiore rispetto alle 8,5-9,25 raccomandate, la glicemia media a digiuno e l’insulina 94,4 + 6,4 mg/dL e 8.5 + 5.0 U/mL rispettivamente.Tutti i livelli di glucosio a digiuno erano compresi nella norma e la riduzione dello TST, aggiustata per età, sesso, IMC e stato puberale risultava significativamente associata con l’aumento dell’assunzione di carboidrati (r = -. 46, p = .02) e di zuccheri (r = -. 55, p <.01). Lo TST non si è, invece, associato con l’HOMA-IR, le chilocalorie e l’IMC.


Perdita di sonno e consumo di droga negli adolescenti

Sara C. Mednick e collaboratori del Department of Psychiatry, University of California San Diego, La Jolla, California, sulla base che nel 2006 si era appurato negli USA che il 15,7% degli alunni dell’8° grado e il 42,3% del 12° aveva provato marijuana almeno una voltae che le difficoltà di dormire e la sonnolenza eccessiva erano state spesso citate come segni e sintomi di allarme primario dell’abuso di droghe negli adolescenti, raramente studiate come una sua causa, hanno identificato un campione di 90.118 studenti in 142 scuole, per uno studio con questionari sulle loro abitudini voluttuarie e di sonno (PLoS ONE, 2010; 5 (3): e9775 DOI). Hanno, quindi disegnato una mappa di rete sociale di 8.349 adolescenti al fine di valutare la modalità di diffusione delle abitudini del sonno e il comportamento verso la droga, secondo le influenze degli amici. Il collegamento tra gli individui in ragione ai loro comportamenti può essere determinato, difatti, da almeno tre processi: 1) l'influenza, per cui un comportamento in una sola persona trascina gli altri, 2) l’omofilia, secondo cui gli individui con gli stessi comportamenti di preferenza si scelgono l'un l'altro come amici, 3) il confondimento, per il quale gli individui si collegano in comune per esperienze di esposizioni contemporanee (come un quartiere rumoroso o uno spacciatore di droga locale).Gli AA. 

 

hanno rilevato che i gruppi di comportamento con poco sonno e consumo di droga si estendevano fino a quattro gradi di distanza (ad amici di amici di amici dei propri amici) nella rete sociale. I modelli prospettici di regressione dimostravano, anche, che la posizione centrale nella rete influenzava negativamente i risultati futuri del sonno, ma non viceversa. Inoltre, se un amico dormiva ≤ 7 ore, aumentava la probabilità di trasmissione del comportamento dell’11%. Se, poi, un amico usava marijuana, aumentava la probabilità negli altri dell’uso di marijuana del 110%. Infine, la probabilità che un individuo utilizzasse farmaci aumentava del 19%, quando un amico dormiva ≤ 7 ore. Un’analisi mostrava, poi, che il 20% di tal effetto risultava dalla diffusione del comportamento del sonno da una persona all'altra.

Questo è il primo studio che suggerisce come la diffusione di un comportamento nelle reti sociali possa influenzare l’espansione di un altro. 

I risultati, pertanto, indicano che gli interventi dovrebbero concentrarsi sul tutelare il sonno sano per prevenire l'uso di droghe e rivolge una raccomandazione alle istituzioni e alle famiglie, organi che possono migliorare i risultati di tutta la rete sociale.


Diffusione dinamica della felicità nella rete sociale del Framingham Heart Study:

A tale proposito già James H Fowler e collaboratori dell’University of California, San Diego e dell'Università di Harvard,per stabilire se la felicità potesse diffondersi da persona a persona all'interno della rete sociale, hanno svolto uno studio longitudinale analogo (BMJ2008;337:a2338)nell’ambito del Framingham Heart Study social network  su 4.739 soggetti  seguiti dal 1983 al 2003.

I dati sono scaturiti da un questionario di semplici domande come "quale sensazione di speranza per il futuro?" e "Sei stato felice?", annotando anche i cambiamenti nella sfera familiare per ogni partecipante, come una nascita, una morte, un matrimonio, un divorzio. In tal modo, i ricercatori hanno ampliato le conoscenze, derivate da precedenti lavori sulla felicità per cui essa appare concentrarsi sulle condizioni socioeconomiche e sui fattori genetici, aggiungendo che la stessa è un fenomeno relazionale, che si condensa in gruppi di persone, potendosi estendere fino a tre gradi di lontananza, ad esempio, per gli amici, degli amici dei propri amici.

I risultati hanno dimostrato, in effetti, che lo stato di umore delle persone felici e infelici era in rapporto a quello delle persone conosciute, estendendosi fino ai tre gradi di separazione (ad esempio, per gli amici degli amici dei propri amici). 

Coloro che erano circondati da molte persone felici e quelli centrali nella rete dimostravano più probabilità di diventare felici anche nel futuro. I modelli statistici longitudinali suggerivano che la diffusione della felicità conseguiva dai gruppi e non per la sola tendenza delle persone felici ad associarsi insieme.  Un amico, che viveva all'interno di circa 1,6 km e che diventava felice, aumentava la probabilità dello stesso sentimento del 25% (IC95%: 1% - 57). Effetti simili erano rilevati in coniugi conviventi (8%, 0,2% al 16%), in fratelli che vivevano vicini di casa entro un 1,6 Km (14%, 1% al 28%) e alla porta affianco (34%, 7% al 70%). 

Lo stesso effetto non si registrava tra i colleghi di lavoro e decadeva nel tempo e con la separazione geografica.Da notare che precedenti ricerche hanno identificato diverse condizioni, definite come felicità o infelicità, senza considerare la felicità del prossimo, come fattore influente della propria. La mimica, peraltro, riesce a trasferire stati emotivi direttamente da una persona all’altra, secondo particolari condizioni personali e circostanziali in intervalli da secondi a settimane. In conclusione, tale studio sembra dimostrare che la felicità, come l'obesità, il fumo e l'altruismo,è contagiosa per gli adulti all'interno delle reti sociali e dipende da quella degli altri con i quali si è collegati, contribuendo a giustificare che essa, come la salute, rappresenta un fenomeno collettivo.


Peculiarità dei disturbi del sonno nelle donne

Le donne, rispetto agli uomini, presentano probabilità doppia di difficoltà ad addormentarsi e di mantenere il sonno, con risultati di scarsa qualità della vita.  Le differenze, però, diventano significative dopo la pubertà. Condizioni ormonologiche, problemi psicologici, depressione ed anche sindromi dolorose rappresentano i fattori causali più comuni. Peraltro, la sindrome delle gambe senza riposo (RLS) si riscontra più diffusamente, verificandosi a tassi più elevati durante la gravidanza.In particolare, gli steroidi sessuali svolgono un ruolo eziologico sia per un effetto diretto sui processi del sonno stesso sia attraverso il loro effetto sull'umore e lo stato emotivo. Difatti, gli steroidi sessuali influenzano il sonno EEG durante la fase luteale aumentandone la frequenza, insieme all’elevazione della temperatura corporea. La progressiva riduzione e mancanza di estrogeni con l’età, che assume anche un ben preciso ruolo nell'eziologia dell’apnea notturna, contribuisce, inoltre, alla messa in scena dei sintomi vasomotori, come le vampate di calore, determinanti in tal senso. Peraltro, anche i disturbi psichiatrici, e in particolare quelli dell'umore, come pure le condizioni di dolore cronico, si associano costantemente con l'insonnia.

Le donne soffrono spesso di:

  1. Sonno disturbato per vari gradi di ostruzione faringea che vanno dall’UARS (upper airway resistance syndrome) all’OSA (obstructive sleep apnea syndrome), risultante dell’alta pressione negativa generata dallo sforzo inspiratorio e il fallimento dei muscoli dilatatori delle vie aeree superiori. I fattori concausali di tale condizione sono soprattutto l’obesità, ma anche l’atonia muscolare e varie anomalie anatomiche che possono occludere le vie aeree, come le tonsille, la macroglossia. L'obesità è un fattore di rischio noto per l’OSA e le donne che ne soffrono sono probabilmente più obese degli uomini, anche se la distribuzione del grasso è differente. Esse, peraltro, dimostrano piuttosto eventi ostruttivi parziali (ipopnee), rispetto all’OSA completae la durata delle ipopnee, quando presenti, tendono a essere minori che negli uomini.Particolare rilievo assume la menopausa in cui l’OSA, per lo più evidente durante il sonno REM e a parità d’età meno grave che negli uomini, aumenta sia in prevalenza, assestandosi a circa il doppio rispetto alla premenopausa, sia in gravità.
  2. RLS (sindrome delle gambe senza riposo), su sospetta base genetica nella forma primaria, e PLMD (periodic limb movement disorder), disturbi idiopatici che possono causare un profondo sconvolgimento. La RLS è, difatti, un disturbo che si verifica di solito prima dell'inizio del sonno e si associa a dolore ai polpacci, provocando irrequietezza nelle gambe che si attenua con il movimento. La PLMD, che si verifica durante il sonno, è caratterizzata da isolati movimenti periodici degli arti inferiori, di solito seguiti dal risveglio.
  3. Narcolessia, contrassegnata da: sonnolenza diurna, allucinazioni ipnagogiche, cataplessia, paralisi del sonno. Queste caratteristiche sono strettamente legate alle caratteristiche normalmente presenti durante i movimenti oculari rapidi (REM).
  4. Disturbi del ritmo circadiano, di cui il più comune è il DSP(delayed sleep phase syndrome) con esordio tipico durante la pubertà,contraddistinto da un ritardo significativo di 3-4 ore, sia nel tempo di andare a dormire sia di svegliarsi alla presenza di un normale tempo totale di sonno totale. Esso può, peraltro, riguardare anche un cronotipo serale con preferenza individuale per una maggiore attività durante la notte.

Gangwisch JE e collaboratori del Department of Psychiatry, Columbia University, New York, sulla premessa della giàdimostrata associazione trala brevità del dormire con l’incidenza dell’ipertensione, considerando che la pressione arteriosa cala del 10-20% durante il sonno per cui tale condizione potrebbe trovare spiegazione attraverso adattamenti strutturali del sistema cardiovascolare portato a funzionare a un equilibrio di pressione elevata, sulla base che la limitazione di sonno sperimentale si è rilevata tale da ridurre la leptina, aumentare la grelina, il colesterolo, l'appetito, compromettere la sensibilità all'insulina, derivandone da tutto ciò obesità, diabete, ipercolesterolemia, potenti fattori di rischio per l’ipertensione, hanno svolto uno studio longitudinale dal 1986 al 2006 con analisi multivariata di regressione di Cox nelle donne del Nurses’Health Study (n = 61.538) per verificare se la durata del sonno si associasse con l'incidenza dell'ipertensione (n = 30.260) e se obesità, diabete, ipercolesterolemia agissero come mediatori di questo rapporto (Jounal of sleep and sleep disorders research,2010, Vol. 33).In confronto al sonno di 7 ore, quello ≤ 5 (HR = 1,10, CI 95% 1,04-1,17) e di 6 (HR = 1.06, CI 95% 1,03-1,10) si associavano a un piccolo ma significativo aumento del rischio d’incidenza d’ipertensione dopo controllo per età, razza/etnia, attività fisica, consumo di sale, alcol e fumo. L'obesità si è dimostrata mediatrice di tale relazione e la sua inclusione nel modello multivariato attenuava sensibilmente i risultati per il sonno ≤ 5 ore (HR = 1.06, 95% CI 1,00-1,13) e di 6 ore (HR = 1,04, IC 95% 1,01-1,08), cosa che non si evidenziava con il diabete e l’ipercolesterolemia. Gli AA. concludevano, pertanto, che i loro risultati erano coerenti con l’asserzione che l'obesità agisce come mediatore nel rapporto tra la durata del sonno e l'incidenza d’ipertensione.