notiziario Novembre 2011 N°10 - VITAMINA “D” E MALATTIE CARDIOVASCOLARI

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NOTIZIARIO Novembre 2011 N°10

"VITAMINA “D” E MALATTIE CARDIOVASCOLARI"

 

 

A cura di:
Giuseppe Di Lascio

 

Con la collaborazione di:

Bagalino Alessia, Bauzulli Doriana, Di Lascio Alessandro, Di Lascio Susanna, Levi Della Vida Andrea, Melilli Simonetta, Pallotta Pasqualino, Sesana Giovanna, Stazzi Claudio, Zimmatore Elena


Le malattie non trasmissibili nel mondo

Secondo il World development indicator Washington, DC, International Bank for Reconstruction and Development/The World Bank 2009, le NCD (non communicable diseases), principali cause di morte nel mondo, sono state responsabili nel 2008 di cinquantasette milioni di morti, pari al 63% di tutti i decessi. Il World Economic Forum per i prossimi venti anni ha stimato superiore ai 47.000 miliardi di dollari l’onere relativo al loro trattamento e alla perdita di produttività. D'altra parte, Ban Ki-moon, segretario generale dell'ONU ha riferito che più del 25% di chi soccombe si trova proprio nel pieno della vita lavorativa e che la stragrande maggioranza è appannaggio dei paesi in via di sviluppo. Invero, la globalizzazione degli stili insalubri di vita e la crescita della popolazione mondiale stanno alimentando la maggiore prevalenza di queste malattie che, secondo l'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), complessivamente aumenteranno nel prossimo decennio del 17%, con un balzo del 24% nelle nazioni più povere dell'Africa. Sta di fatto che i tassi di mortalità appaiono strettamente correlati al reddito di ogni nazione essendo quelli standardizzati per età più alti nei paesi a basso reddito. In particolare, nella maggior parte dei paesi a medio e alto reddito le NCD sono imputabili di più decessi di tutte le altre cause combinate di morte, con un rapporto sulle totali di oltre il 70%. Nei paesi a basso e medio - basso reddito, invece, la più alta percentuale si determina sotto i sessanta anni di età. In effetti, per i paesi ad alto reddito le morti premature sotto tale età sono corrisposte al 13%,  mentre per quelli a medio - alto al 25%, a basso - medio al 28%, a basso al 41%, tre volte di più rispetto ai paesi ad alto reddito.


Morti nel mondo (2004) attribuite ai 19 principali fattori di rischio, in rapporto al livello del reddito dei paesi

Come oramai noto, i fattori di rischio prevenibili, alla base della maggior parte delle malattie non trasmissibili, sono tra gli oneri principali di morte e di disabilità in quasi tutti i paesi della terra, a prescindere dal loro sviluppo economico.

In particolare, l'ipertensione, responsabile nei dati più recenti del 13% dei decessi a livello globale, si dimostra il fattore principale, seguita dal consumo di tabacco con il 9%, dal disordine del metabolismo glucidico con il 6%, dall’inattività fisica con il 6% e dal sovrappeso e obesità con il 5%. In particolare, la prevalenza di questi fattori è variata nei paesi del mondo in rapporto al reddito e al sesso, così che la più alta prevalenza per diversi di essi, tra cui l'inattività fisica per le donne, il consumo totale di grassi, il colesterolo totale, si è riscontrata nei paesi ad alto reddito. Conformemente a ciò, il rapporto 2007–2008  NHANES (National Health and Nutrition Examination Survey) ha verificato cheil 49,7% degli adulti statunitensi di età ≥ 20 anni, circa 107.3 milioni di persone, aveva almeno uno dei tre fattori di rischio, determinando costi per ben $444 miliardi circa. Alcuni fattori, d’altra parte, sono diventati più comuni nei paesi a medio reddito, come l'uso del tabacco per gli uomini, il sovrappeso e l'obesità. L'uso del tabacco, d’altra parte, è divenuto più frequente nei paesi a medio reddito, rispetto a quelli a basso o ad alto reddito e in tutti i gruppi si è evidenziato più alto tra gli uomini rispetto alle donne. Gli uomini dei paesi a reddito medio - basso hanno, in particolare, mostrato la prevalenza più alta del fumo con il 39%, seguiti con il 35% da quelli a reddito medio alto. Tra le donne ci sono stati tassi relativamente più elevati, con circa il 15% nei paesi a reddito medio - alto e alto e percentuali nettamente inferiori, tra il 2-4%, nei paesi a reddito basso e medio - basso. D’altra parte, la prevalenza d’insufficiente attività fisica è stata più alta in base al livello del reddito, così che nei paesi ad alto reddito ha raggiunto valori doppi rispetto a quelli a basso reddito per ambo i sessi, con il 41% per gli uomini e il 48% per le donne nell’alto rispetto al 18% e il 21% nel basso rispettivamente. Pertanto, nel 2008 nei paesi ad alto reddito quasi ogni donna su due ha svolto insufficiente attività fisica. La prevalenza di aumento della pressione arteriosa, peraltro, per entrambi i sessi è stata  sempre elevata in tutti i paesi del mondo a qualsiasi reddito, con tassi di circa il 40% per entrambi i sessi e pari al 35% nei paesi ad alto reddito. La prevalenza del diabete dell'adulto, standardizzata per l’età, è stata, invece, del 9,8% per gli uomini e del 9,2% per le donne, rispetto all’8,3% e il 7,5% del 1980, così che, il numero dei diabetici è aumentato dai 153 milioni del 1980 ai 347.000.000 del 2008. In modo simile, la prevalenza dell’alto IMC (indice di massa corporea), nel corso dei tre decenni, è aumentato in tutte le fasce di reddito e, in genere, di pari passo con il crescere del suo livello. Peraltro, la prevalenza del sovrappeso nei paesi ad alto e medio - alto reddito è stata più del doppio di quella dei paesi a basso e medio - basso. In particolare, si è riscontrato il sovrappeso nei paesi ad alto reddito in più della metà degli adulti e l’obesità in poco più del quinto, mentre nei paesi a reddito medio - alto il primo è stato in più della metà e la seconda in un quarto. Dal 1980 al 2008 nei paesi a medio - basso e in quelli a basso reddito gli aumenti della prevalenza del sovrappeso e dell’obesità sono stati superiori di quelli a medio - alto e alto reddito, con tassi di raddoppiamento dell'obesità. In particolare, nel corso di questo periodo l'obesità nei paesi a reddito medio - basso è raddoppiata dal 3 al 6% e nel basso reddito dal 2 al 4%, mentre il sovrappeso è passato dal 15 al 24% e dal 10 al 16%. Gli aumenti più drammatici per il sovrappeso e l'obesità delle donne si sono ottenuti nei paesi a basso reddito, raddoppiando rispetto agli uomini e passando dal 9% del 1980 al 18% del 2008, mentre l'obesità è più che raddoppiata passando dal 2 al 5%.Nel 2008, il colesterolo medio totale, standardizzato per età, è stato in tutto il mondo 4,64 mmol / L per gli uomini e 4,76 mmol / L per le donne. La prevalenza globale di colesterolo totale elevato è stata del 38%. Nei paesi ad alto reddito oltre il 50% degli adulti aveva il colesterolo totale alto, più del doppio del livello dei paesi a basso reddito. Nel basso - medio reddito circa un terzo degli adulti aveva il colesterolo totale alto, mentre nel basso circa un quarto. Nei circa tre decenni, dal 1980 al 2008, i livelli medi del colesterolo totale sono cambiati poco, anche se la prevalenza dei suoi livelli alti è diminuita in tutti i gruppi di reddito, ad eccezione di quello a medio - basso.


Le malattie non trasmissibili in Italia

L’Italia, paese del gruppo ad alto reddito, con popolazione totale nel 2010 di 60.550.848 persone, secondo le stime della WHO, nel 2008 ha contato 536.900 morti per NCD sotto i sessanta anni, di cui 256.100 uomini e 280.800 donne, con percentuale su tutte le morti di 9.8 e 5.6 rispettivamente.

Il tasso di mortalità per 100 000, standardizzato per età, è stato 644,7 per tutte le morti NCD, 399,8 per gli uomini e 244,9 per le donne, di cui 258,3 per le malattie cardiovascolari e il diabete, 156.3 per gli uomini e 102.0 per le donne, 248,7 per il cancro, 158.0 per gli uomini e 90.7 per le donne, 34,0 per le malattie respiratorie croniche, 24.6 per gli uomini e 9.4 per le donne. Nel 2008 la prevalenza percentuale dei fumatori correnti è stata nel totale 26,3, 13,5 nei maschi e 19,6 nelle femmine e rispettivamente l'inattività fisica 56,6 - 51,0 - 61,8, l’aumento della pressione arteriosa 46,1 - 47,9 - 44,4, l’aumento della glicemia 9,1 – 10,6 – 7,6, l’eccesso ponderale 54,1 – 61,8 – 47,1, l’obesità 19,8 – 21,2 – 18,5, l’aumento del colesterolo 65,2 – 63,5 – 66,8.

In definitiva, quindi, nella maggior parte dei decessi delle NCD, circa trentasei milioni, devono ascriversi alle malattie cardiovascolari e al diabete e in secondo luogo ai tumori e alle malattie respiratorie croniche.


Tassi di mortalità dai 35 - 74 anni per 100.000 abitanti per malattie cardiovascolari (MCV), malattia coronarica (SCA), ictus e decessi totali (DT) in alcuni paesi del mondo


Tasso delle morti per malattie cardiovascolari negli Stati Uniti

Negli StatiUniti le sole malattie cardiovascolari (CVD) determinano ogni anno un decesso su tre (circa 800.000).


Tasso delle morti per malattie cardiovascolari in Europa

Anche nell’unione europea le malattie cardiovascolari rappresentano, con il 42%, la principale causa di morte, raggiungendo dopo i sessantacinque anni l’81% per cento delle morti maschili e il 94 per cento di quelle femminili, soprattutto come risultato della malattia aterosclerotica.

La cardiopatia ischemica costituisce il 37% di tutti i decessi da malattie circolatorie e quella cerebrovascolare un altro 26% e nel loro determinismo lo stile di vita sedentario e la dieta ricca di grassi animali sono certamente tra i fattori più importanti.

C’è da considerare, a tal proposito, che nelmondo occidentale nel quarto trimestre del secolo scorso e soprattutto nell'ultimo periodo, dopo i forti aumenti seguiti alla seconda guerra mondiale, la mortalità per malattia ischemica coronarica ha iniziato a diminuire. Ciò in ragione verosimile con i cambiamenti dello stile di vita che hanno portato alla riduzione del fumo, all’adozione di diete più salutari, contrastando anche l’epidemia dell’obesità, l’iperdislipidemia e l’ipertensione. Particolare considerazione merita anche l’efficienza della sanità pubblica per la maggiore possibilità e fruibilità d’intervento terapeutico adeguato, utilizzando farmaci sempre più nuovi ed efficaci.

In Europa la mortalità cardiovascolare nei maschi è più alta che nelle femmine, ma con differenze meno marcate rispetto alla maggior parte delle altre cause. In media, nei maschi la morte standardizzata, con tassi tra 151 e 1.500 ogni 100.000 abitanti, è il 53% superiore a quella delle donne che presentano tassi tra 97 e 1.054. I tassi più alti si rilevano in Bulgaria e i più bassi in Francia. La più bassa perdita di vite umane per malattie circolatorie si è rilevata in Francia con valori di 2.800 per gli uomini e 2.500 nelle donne, in Spagna con 3.200 e 3.000 e in Svizzera con 3.000 per entrambi i sessi.


Vit. “D”, arteriosclerosi

La vitamina “D”ha anche effetti sui sistemi microendocrini dell'apparato cardiovascolare, alcuni dei quali rilevati solo di recente. L'aterosclerosi è una delle principali cause della malattia arteriosa periferica, essendo il fumo il fattore di rischio dominante. La 1α, 25 (OH) 2D3, ormone steroideo rivolto a regolare più di sessanta geni, traslocato nelle cellule, si lega al VDR, recettore della vitamina “D” con alta affinità, membro della superfamiglia dei recettori nucleari.

Il VDR è un polipeptide di 427 aminoacidi strutturato in tre domini funzionali:

  1. il C-terminale LBD (ligand binding domain), che lega l’ormone a livello del suo anello A, contenente il gruppo 1α-idrossilato,
  2. il DBD, (DNA binding domain-), organizzato in due moduli zinco-nucleati (zinc finger), responsabili dell’interazione ad alta affinità con le specifiche sequenze di DNA delle regioni promotrici del gene bersaglio, VDRE, elementi che rispondono alla vitamina “D”,
  3. lo N-terminale, per i processi di trascrizione.

Il complesso, una volta formatosi, interagisce con gli elementi di risposta alla vitamina nella regione promotrice dei geni bersaglio, alterando, in questo modo, i tassi di espressione genica. La 1α, 25 (OH) 2D3, così, influenza un certo numero di geni, rilevanti per la parete arteriosa, tra cui il fattore di crescita vascolare endoteliale, la metalloproteinasi della matrice di tipo 9, la miosina e le proteine ​​strutturali, come l'elastina e il collagene tipo I. Inoltre, è emersa evidenza di una via alternativa per la 1α, 25 (OH) 2D3 nell’alterare la transattivazione del gene, attraverso proteine intracellulari leganti la stessa vitamina. L'uso recente degli analoghi della 1α, 25 (OH) 2D3, come agenti immunomodulatori, si basa, difatti, sulla loro capacità d’influenzare l'espressione genica nelle cellule del sistema immunitario e dell’espressione delle citochine di altre cellule.

Peraltro, in comune con altri ormoni steroidei, la 1α, 25 (OH) 2D3 induce una serie di effetti che occorrono troppo rapidamente per coinvolgere l'espressione genica. Questi includono un aumento del calcio intracellulare e dei livelli di cGMP, l'attivazione della protein chinasi C e le variazioni del metabolismo fosfoinositide.Gli effetti sono mediati dai recettori plasmatici di una o più membrane, ma il loro ruolo nella maggior parte dei tipi cellulari non è chiaro.

Un esempio,rilevante per la parete arteriosa, comprende la stimolazione delle cellule muscolari lisce vascolari (VSMC) e la loro migrazione attraverso l'attivazione della fosfatidilinositolo 3-chinasi. Il VDR, insomma, regola la trascrizione del DNA in mRNA, prodotta dalla RNA polimerasi II, che trasduce l’informazione ai ribosomi per la sintesi proteica, una volta migrata nel citoplasma.

Il VDR lega la 1,25(OH)2D3 nel dominio LBD (Ligand BindingDomain) in quattro fasi successive con cambi conformazionali nel recettore, favorendo, così, il legame eterodimerico con il recettore dell’acido retinoico X (RXR) a livello del LBD e la traslocazione nel nucleo. Il nuovo complesso 1,25(OH)2D3-VDR/RXR si lega mediante il DBD (DNA-Binding Domain) alle sequenze specifiche del VDRE. Si producono, quindi, modifiche conformazionali del DNA genomico. Infine, il VDR richiama le proteine nucleari co-attivatrici e/o co-repressive in sostegno alla modulazione della trascrizione genica. L’equilibrio finale tra co-attivatori e co-repressori, alla presenza di stimoli fisiologici o patologici, stabilisce, infine, il controllo della trascrizione genica. Classicamente, quindi, la 1α, 25 (OH) 2D3 mantiene l'omeostasi del calcio e dei fosfati, avendo come target principali l'intestino e l'osso. Pur tuttavia, la sua azione comprende una ben più vasta gamma di tessuti bersaglio non classici, compreso il cuore e la parete arteriosa con specifiche, importanti implicazioni funzionali. Difatti, sembra che essa possa causare l'arresto del ciclo cellulare e inibire la proliferazione della maggior parte dei tipi cellulari, tra cui i linfociti. Inoltre, la 1α,25(OH)2D3 provoca l’apoptosi delle cellule endoteliali tumorali, interferisce con il fattore di crescita vascolare endoteliale e sopprime l’angiogenesi. D’altro canto, la vitamina agisce anche suimacrofagi e sui linfociti di una parete arteriosa malata. La calcificazione della parete arteriosa rappresenta la condizione premonitrice degli eventi cardiovascolari ed è possibile che la vitamina “D” rivesta un suo ruolo nella patogenesi. Tal evento patologico segue, in effetti, due distinti modelli:

1) la calcificazione media, come nella sclerosi di Mönckeberg, che si realizza nell'invecchiamento, nell’insufficienza renale cronica e nel diabete,

2) la calcificazione dell'intima, che si osserva nell’aterosclerosi.

Il secondo è quello più considerato per il particolare valore prognostico delle arterie coronarie e dell’arco aortico. Pur tuttavia, più diffuso e intenso si concentra con l'età nella media della parete, senza caratteri occlusivi o associati alla placca aterosclerotica. Diversi studi hanno messo in risalto la relazione inversa tra 1α, 25 (OH) 2D3 sierica e la calcificazione arteriosa, ma, a tutto oggi, non vi sono evidenze definitive nei meriti. C'è, invece, una crescente indicazione di un’associazione paradossale tra l'osteoporosi e le calcificazioni vascolari, forse legata alla correlazione trai comuni polimorfismi del gene VDR e la malattia. Peraltro, studi sull’aterosclerosi, soprattutto quella che suole accompagnare l’insufficienza renale e/o il diabete mellito, hanno permesso di considerare un ruolo della vitamina ”D” attraverso la sua inibizione sul PTH, sull’infiammazione, sull’apoptosi cellulare e sull’angiogenesi. D’altra parte vi sono evidenze, anche da studi sugli animali, che la 1α, 25 (OH) 2D3 abbia la capacità di aumentare la resistenza vascolare, incrementando, così, la sensibilità alla noradrenalina delle arterie di resistenza. Nel loro insieme, questi studi suggerirebbero che l'ipertensione induce o sensibilizza il VDR della membrana, modulando le concentrazioni di calcio intracellulare.

In conclusione, oltre al suo ruolo nell’omeostasi del calcio e del fosforo, la vitamina “D” avrebbe un importante ruolo in molti processi fisiologici e patologici, rilevanti per la malattia arteriosa periferica, essendo, di certo, essenziale per lo sviluppo e la regolare attività dei vasi. La 1α, 25 (OH) 2D3 influenza la migrazione, la proliferazione e l'espressione genica del VSMC (vascular smooth muscle cell), l’elastogenesi e l’immunomodulazione, tutti processi coinvolti nella patogenesi della malattia aterosclerotica e aneurismatica arteriosa. Peraltro, essa ha altri effetti non genomici sulla contrattilità dei vasi nell’ipertensione essenziale ed è probabile che abbia anche un ruolo fondamentale nell’associazione paradossale tra l’osteoporosi e la calcificazione vascolare stessa.

A fronte di tutto quanto riportato, bisogna, però, anche riportare che proprio di recente Adam Gepner dell’University of Wisconsin e collaboratori hanno presentato all'AmericanHeart Association Scientific Sessions 2011 i risultati di un loro studio, peraltro piccolo, su 114 donne in postmenopausa con livelli sierici di 25-OH-vitamina D tra > 10 e <60 ng / ml, randomizzate a 2500 UI di vitamina D3 oppure a placebo per quattro mesi. I casi con bassi livelli di vitamina avevano, invero, maggiore probabilità di avere una moltitudine di fattori di rischio cardiovascolare, rispetto a quelli con livelli significativamente più elevati al basale, ma non si riconoscevano differenze su più end-point surrogati, tra cui la funzione endoteliale, la rigidità arteriosa, la proteina C-reattiva (PCR) e la pressione sanguigna. Gli autori esprimevano, pertanto, la loro perplessità sulla tanta diffusione della convinzione di grande panacea per tutti i tipi di condizioni attribuita alla vitamina “D”. Si hanno, difatti, altri agenti efficaci a ridurre il rischio delle malattie cardiovascolari e, quindi, risulterebbe incongrua ed ingiustificata  la prescrizione d'integratori e ancor più di megadosi da parte dei medici senza certezza di verifica.

Lo studio VITAL, attualmente in corso su 20.000 pazienti, sta valutando l’azione cardiovascolare della vitamina “D” e dei grassi Omega-3 e, di certo, offrirà i suoi risultati nel 2016 o 2017. Lo studio clinico randomizzato indaga, in effetti, se l'assunzione di 2000 UI di vitamina D3 il giorno o 1 g di acidi grassi omega-3 riducono il rischio di sviluppare il cancro, malattie cardiache e l’ictus nelle persone che non hanno una precedente storia di queste malattie.


 

Vit. “D” e PAD (arteriopatia ostruttiva periferica)

 

Pur tuttavia, bisogna considerare che i livelli bassi di vitamina si associano, in modo particolare, con l’obesità, il diabete mellito e l’ipertensione, condizioni che aumentano il rischio di PAD, così che, persistendo l’inversa correlazione tra i suoi livelli plasmatici e la PAD, anche dopo aggiustamento per questi fattori di rischio, bisogna invocare ulteriori meccanismi a loro estranei.
Peraltro, lo stato vitaminico è significativamente correlato alla forza muscolare e una carenza può, di certo, causare una miopatia, più marcata nei muscoli prossimali. Vi sono evidenze che la vitamina possa mediare la sintesi proteica e l’accumulo cellulare di adenosina trifosfato, della troponina C e dell’actina, aumentando nei muscoli striati l'espressione della proteina sarcoplasmatica. In tal modo, essa potrebbe avere un ruolo fondamentale nel ridurre il rischio di PAD. Altro coinvolgimento della vitamina “D” in rapporto all’aterosclerosi è derivato da studi recenti sui linfociti e sui macrofagi, che svolgerebbero un ruolo iniziale nella generazione degli ateromi.

S’ipotizza, difatti, chele cellule Th1 inizino la produzione in eccesso di IFN-γ, potente stimolatore dell’attività dei macrofagi, che, così attivati, ​​secernono l’IL-1β, IL-6 e il TNF-α. Queste citochine reclutano monociti aggiuntivi aumentando l'ossidazione delle LDL e generando la MMP (matrix metalloproteinase), che può destabilizzare la placca, favorendone la rottura e la trombosi. Al contrario, il sottogruppo dei linfociti TH2, definito fenotipo antiaterogeno, produce IL-10, citochina buona, che sopprime l'attivazione dei macrofagi e la proliferazione delle Th1.

Peraltro, la vitamina “D” inverte il processo fibrotico indotto dall’AZCT (5'-azacitidina) nelle cellule mesenchimali multi potenti. In sua mancanza una lesione innesca la cascata infiammatoria, con possibilità di un processo fibrotico e la progressiva cicatrizzazione. La 1,25 (OH) D, forma attiva della vitamina, induce un fenotipo di segnale antifibrotico VDR-mediato nelle cellule mesenchimali multi potenti, caratterizzato da una diminuita espressione dei marcatori profibrotici, come il TGF-β1, l’inibitore del PAI-1, attivatore del plasminogeno 1, la miostatina e un aumento dell'espressione dei marcatori antifibrotici come il BMP2, bone morphogenic protein 2, e il BMP77, la follistatina, il MMP8, portando a una riduzione efficace dell’espressione del collagene, marcatore finale di una condizione fibrotica.

La vitamina “D” ricopre un ruolo, non solo lungo i multipli percorsi che regolano le prime fasi dell’aterogenesi di per sé, ma anche in corso di calcificazione vascolare. Recenti scoperte, derivate da sperimentazioni su un modello murino, hanno suggerito che la somministrazione di calcitriolo e paracalcitolo, a dosaggi sufficienti a correggere l’iperparatiroidismo secondario, sono protettivi contro la calcificazione aortica, mentre i dosaggi più elevati ne stimolato la calcificazione. Di certo, dosaggi protettivi della vitamina sopprimono l'espressione genica osteoblastica aortica.

Michal Melamed dell’Albert Einstein College of Medicine, Bronx, New York e collaboratori, sempre sulla base delle evidenzedelle relazioni negative tra i bassi livelli di vitamina “D” e ilsistema cardiovascolare, considerando la quasi ubiquitarietà dei VDR e i più alti tassi di malattia coronarica e ipertensione nelle popolazioni più distanti dall'equatore, per la minore esposizione al sole, hanno esaminato i dati di 4.839 partecipanti al NHANES 2001-2004(National Health andNutrition Examination Survey) per valutare la corrispondenza dell’insufficienza vitaminica con la PAD (Arteriosclerosis, Thrombosis, and Vascular Biology.2008; 28: 1179-1185).

La prevalenza dellaPAD, definita dall’indice caviglia-braccio <0,9, attraverso i quartili di 25 (OH) D, dal più basso al più alto, si rilevava nell’8,1 - 5,4 - 4,9 e 3,7% (p trend <0,001).

Dopo aggiustamento multivariato per caratteristiche demografiche, comorbidità, livello di attività fisica e misure di laboratorio, il rapporto di prevalenza di PAD per il più basso rispetto al più altoquartile di 25 (OH) D, corrispondenti a <17,8 e ≥ 29,2 ng / ml, rispettivamente, era 1,80 (intervallo di confidenza 95%: 1,19, 2,74). Per ogni 10 ng / mL di livello più basso di 25 (OH) D, il tasso di prevalenza multivariato, aggiustato della PAD era 1,35 (intervallo di confidenza 95%: 1,15, 1,59).

In conclusione, i bassi livelli sierici di 25 (OH) D erano associati a una maggiore prevalenza di PAD. Difatti, i casi del quarto quartile solo nel 3,7% presentavano la malattia, mentre quelli del più basso nell’8,1%.


Vit. “D” e calcificazione (calcium score) coronarica

Davis W, Rockway S, Kwasny M del Milwaukee Heart Scan, Milwaukee, WI, USA, sulla base delle precedenti  valutazioni dell’impatto della gestione terapeutica intensiva dei lipidi con acidi grassi omega-3 e vitamina D3 sulla placca aterosclerotica mediante il punteggio di serie con tomografia computerizzata del calcio coronarico (CCS) e della mancata riduzione o rallentamento della sua progressione seriale, anche dopo riduzione del colesterolo a bassa densità ​​con la terapia con le statine, per cui rimaneva il dubbio sull'utilità di questo approccio per il monitoraggio della progressione aterosclerotica, hanno condotto uno studio aperto su 45 soggetti di ambo i sessi con CCS maggiore o uguale a 50, senza sintomi della malattia cardiaca (Am J Ther. 2009 Jul-Aug;16(4):326-32). Hanno, quindi, oltre alla dieta adeguata, somministrato statine, niacina e supplementazione di acidi grassi omega-3 per ottenere le LDL e i trigliceridi più bassi o uguali a 60 mg / dL e le HDL maggiori o uguali a 60 mg / dL In più, hanno aggiunto la D3 per raggiungere livelli sierici maggiori o pari a cinquanta ng / ml di vitamina “D”. Si otteneva, così, una variazione significativa del profilo lipidico con -4% del colesterolo totale, -41%, delle LDL, -42% dei trigliceridi, +19%, delle HDL, mentre la concentrazione media della 25 (OH) D sierica si portava a +83%. Dopo una media di diciotto mesi, venti soggetti sperimentavano un calo delle CCS, con modificazione media del -14,5% (range da 0% a -64%). Di riscontro, 22 soggetti non subivano alcun cambiamento o presentavano un lento tasso annuo d’incremento delle CCS, pari a +12% (range 1% -29%). Solo in tre soggetti, ogni anno, la progressione delle CCS era uguale al 29% (44% -71%). Pur tuttavia, nonostante vi fossero differenze nella risposta alla strategia di cura, si raggiungeva nel 44% dei soggetti la sostanziale riduzione della CCS con il rallentamento della crescita della placca nel 49%.


Vit. “D” e infarto del miocardio

Dal suo canto Edward Giovannucci dell’Harvard School of Public Health, Boston, Massachusetts e collaboratori (Arch Intern Med 2008; 168:1174–1180) hanno valutato prospetticamente più di 18.000 uomini dell’Health Professionals Follow-up Studydi età dai quaranta ai settantacinque anni, senza diagnosi di malattie cardiovascolari al momento della campionatura dei prelievi di sangue, confrontando il basso livello sierico di vitamina (<37,5 nmol / l) con quello più ottimale (> 75 nmol / L). Durante i dieci anni di follow-up, 454 uomini sono andati incontro a un infarto miocardico non fatale o a una malattia coronarica fatale. L'incidenza di eventi cardiovascolari era 2,09 volte maggiore negli uomini con i bassi livelli di vitamina, con una differenza statisticamente significativa. Dopo aggiustamento per le variabili abbinate, i soggetti con deficit di 25 (OH) D (15 ng / mL) dimostravano un aumentato rischio d’infarto miocardico, rispetto a quelli considerati in stato di sufficienza di 25 (OH) D (30 ng / mL) (rischio relativo [RR], 2,42, 95% intervallo di confidenza [IC], 1,53-3,84, p <0.01).

Dopo successivo aggiustamento per la storia familiare d’infarto miocardico, indice di massa corporea, consumo di alcool, attività fisica, storia di diabete mellito e livelli d’ipertensione, etnia, regione, assunzione di omega-3, LDL e HDL, trigliceridi, questa relazione rimaneva significativa (RR 2,09, 95% IC, 1,24-3,54, p = .02). Anche con i livelli intermedi di 25 (OH) D vi era un rischio elevato, rispetto a quelli sufficienti (22,6-29,9 ng / mL: RR, 1,60 [95% IC, 1,10-2,32]; e 15,0-22,5 ng / mL: RR, 1,43 [95% IC, 0,96-2,13], rispettivamente).
In conclusione, la bassa 25 (OH) D corrispondeva a un più alto rischio d’infarto miocardico, in maniera graduale, anche dopo aggiustamento per i fattori noti, associati alla malattia coronarica.

Bryan Kestenbaum dell’University of Washington e collaboratori hanno voluto valutare l’associazione, separatamente e in combinazione, della 25-OHD e del PTH (ormone paratiroideo) con gli eventi cardiovascolari e la mortalità durante i quattordici anni di follow-up del CHS (Cardiovascular Health Study), in rapporto all’evidenza dell’abbastanza comune frequenza dell’insufficienza della prima e dell'eccesso del secondo negli anziani (J Am Coll Cardiol, 2011; 58:1433-1441). Hanno, così, arruolato un totale di2.312 persone senza malattia cardiovascolare al basale, monitorando tutti i casi d’infarto del miocardio, d’insufficienza cardiaca, di morte cardiovascolare e di mortalità per qualsiasi causa. Trecentottantaquattro partecipanti, corrispondenti al 17%, avevano livelli sierici di 25-OHD <15 ng / ml e 570, il 25%, PTH di 65 pg / ml. Dopo aggiustamento, ogni concentrazione di 25-OHD inferiore di 10 ng / ml si associava a un 9% in più (IC (intervallo di confidenza) 95%: 2% al 17%) del rischio relativo di mortalità e a un 25% maggiore (IC 95%: 8% al 44%) rischio relativo d’infarto miocardico. Livelli sierici di 25-OHD <15 ng / ml si associavano anche a un rischio di mortalità del 29% superiore (IC95%: 5% al 55%). D’altro canto, le concentrazioni sieriche di PTH di 65 pg / ml si associavano a un maggiore rischio del 30% d’insufficienza cardiaca (IC 95%: 6% al 61%), ma non di altri esiti. Non era, peraltro, evidente un’interazione tra i livelli sierici di 25-OHD e le concentrazioni di PTH e di eventi cardiovascolari.


Vit. “D” e scompenso cardiaco

La vitamina “D”, proposta ormai come importante mediatore della pressione arteriosa e delle malattie cardiovascolari, sarebbe associata, nei pazienti con i  bassi livelli, con esiti particolarmente avversi, anche all’insufficienza cardiaca. Ciò proprio in relazione al fatto che molte comorbidità sono comuni alle due condizioni, quali l’ipertensione, l’aterosclerosi e il diabete. Peraltro, i dati sperimentali più recenti stanno sempre più confermando la convinzione che la vitamina rappresenti un vero e proprio fattore cardioprotettivo.

In effetti, per molti eventi cardiovascolari è stata ampiamente provata la variabilità stagionale, con inizio in settembre e con picco d’incidenza nei mesi invernali, in rapporto verosimile, almeno in parte, alla diminuzione delle riserve corporee della sostanza. Ancora di recente, sono stati segnalati diversi casi di grave cardiomiopatia in concomitanza dei suoi bassi livelli, soprattutto nei bambini con pelle scura.

Essa, da considerare ormai un ormone steroide, regola, in effetti, l'espressione di molti geni con ruolo di primo piano nella progressione dell'insufficienza cardiaca, come le citochine e gli ormoni. In particolare, si propone come regolatore negativo del sistema renina-angiotensina-aldosterone e studi sperimentali sui topi, privi del recettore vitaminico, hanno dimostrato lo sviluppo d’ipertensione e del rimodellamento cardiaco patologico, mediati dal sistema renina-angiotensina. Peraltro, l’evidenza dell’espressione del recettore specifico nel cuore è riprova della sua azione modulatrice sull’ipertrofia cardiaca, associata all'espressione di altri geni ipertrofici, come i peptidi natriuretici. Il cuore, quindi, secondo le più recenti ricerche, è da ascrivere tra gli organi bersaglio più importanti della vitamina, sia a livello genomico sia no. I miociti, quindi, esprimono il VDR (recettore della vitamina D) e diversi modelli di studi sperimentali dell’ipertensione degli animali hanno dimostrato che la vitamina è in grado di prevenire l'ipertrofia cardiaca. In effetti, crescenti sono le prove che confermano l’importanza della sua carenza nello sviluppo dello scompenso cardiaco congestizio e anche della morte cardiaca improvvisa. Inoltre, va considerato, come fattore aggiuntivo a tutto quanto sopra, che essa tende ad aumentare la secrezione dell’ormone paratiroideo, a sua volta concausa di sviluppo d’insulinoresistenza, di diabete, d’ipertensione e d’infiammazione. Infine, è importante tenere presente che l'ipocalcemia, di per sé, può essere causa reversibile di scompenso cardiaco, suscettibile di guarigione attraverso la correzione dei livelli del calcio e delle cause sottostanti.

Interessante appare anche la dimostrazione del dicembre 2009 di R. Simpson e collaboratori di una variante del gene responsabile per l'attivazione della vitamina“D”, associata allo sviluppo d’insufficienza cardiaca congestizia nei soggetti con ipertensione (vedi notiziario di marzo 2010 N° 3).

Tuttavia, pur essendoci dati epidemiologici e studi meccanicistici a forte sostegno dell’effetto potenzialmente cardioprotettivo della vitamina, non è ancora chiaro il valore della sua supplementazione e l’utilità del suo uso nella prevenzione e/o terapia dell'insufficienza cardiaca.

Comunque, la sua carenza produce ben noti impatti sul metabolismo del calcio e innesca meccanismi di compensazione secondaria attraverso l’iperattività delle paratiroidi.

Già nel 1997 Elizabeth Shane e collaboratori del Presbyterian Hospital New York (Am J M ed. 1997 Sep;103(3):197-207), considerando che l’insufficienza cardiaca congestizia, a differenza di quella renale ed epatica, non era stata ancora associata con un disordine metabolico osseo ben definito, studiarono 79 uomini e 22 donne, tra i 25 ei 70 anni, con grave scompenso di  classe funzionale III o IV NYHA (New York Heart Association) e  dimostrarono che l'osteoporosi (T score < o = -2,5) era presente nel 7% a livello della colonna lombare, il 6% a livello dell'anca totale e il 19% del collo femorale, mentre l’osteopenia (punteggio T tra -1,0 e -2,5) nel 43% a livello della colonna lombare, nel 47% a livello dell'anca totale e nel 42% del collo femorale.  Le donne, peraltro, presentavano maggiore gravità (p = 0,007). I bassi livelli sierici di 25-OHD (< o = 9 pg / mL) e di 1,25 (OH) 2D (< o = 15 pg / mL) si riscontravano rispettivamente nel 17% e 26% dei pazienti e gli elevati livelli sierici di PTH (> o = 65 pg / ml) nel 30%. Entrambi i bassi livelli sierici di 1,25 (OH) 2D e gli aumentati di PTH si associavano con azotemia prerenale. Peraltro, i bassi livelli sierici dei metaboliti della vitamina correlavano con l’evidenza biochimica del turnover osseo aumentato, ma la BMD (bassa densità minerale ossea) non differiva dallo stato della vitamina “D” o del PTH. Inoltre, i pazienti con più grave scompenso avevano i metaboliti della vitamina significativamente più bassi e maggiori segni del turnover osseo, mentre il PTH elevato si associava con una migliore LVEF (left ventricular ejection fraction)(21 + / - 1 contro 18 + / - 1%, p = 0,05) e correlava positivamente con la gittata cardiaca a riposo (R = 0,220, p = 0,04). In conclusione, l'osteopenia o l’osteoporosi si osservavano in circa la metà di questi pazienti con grave scompenso insieme alle anomale concentrazioni di ormone calciotropo, con evidenza di aumento del riassorbimento osseo, mentre erano disgiunte dalla BMD. Inoltre, le concentrazioni anormali dell’ormone calciotropo correlavano con la gravità della compromissione cardiovascolare. Sulla scorta di questi dati, gli autori consideravano opportuna un’attenta valutazione del ricambio del calcio nei pazienti con scompenso cardiaco.

Licette C.Y. Liu dell’University of Groningen, The Netherlands e collaboratori hanno misuratola 25 (OH) D, la PRA (attività della renina plasmatica), l’IL-6 (interleuchina-6), la CRP (proteina C-reattiva) e l'incidenza di morte o di riospedalizzazione in 548 pazienti con HF (scompenso cardiaco), d’età media di 74 (64-80) anni, con frazione di eiezione ventricolare sinistra del 30% (23-42) per un follow-up medio di diciotto mesi (Eur J Heart Fail (2011) 13 (6): 619-625).I livelli bassi della vitamina erano associati con il sesso femminile (p <0,001), l'età maggiore (P = 0,002) e i più alti valori del NT-proBNPN (N-terminal pro-brain natriuretic peptide) (P <0,001). L’analisi multivariata di regressione lineare mostrava anche che i livelli della PRA (P = 0,048) e del CRP (p = 0,006) erano predittivi indipendenti dei livelli di 25 (OH) D. Durante il follow-up, 155 pazienti morivano e 142 venivano riospedalizzati. L’analisi Kaplan-Meier mostrava che alla più bassa concentrazione della 25 (OH) D si associava un aumento del rischio per l'endpoint combinato (mortalità per tutte le cause e riospedalizzazione) (log rank test p = 0,045) e un aumentato rischio di mortalità per qualsiasi causa (log rank test P = 0,014). Dopo aggiustamento in un’analisi di regressione Cox multivariata, la bassa 25 (OH) D rimaneva associata, in modo indipendente, all’aumentato rischio per l'endpoint combinato [hazard ratio (HR) 1,09 per 10 nmol / L di diminuizione; IC (intervallo di confidenza) al 95%: 1.00-1,16, p = 0,040] e per la mortalità per qualsiasi causa (HR 1,10 per 10 nmol / L di diminuizione, IC 95% 1,00-1,22, p = 0,049). In conclusione, la bassa concentrazione di 25 (OH) D si associava a una prognosi sfavorevole nei pazienti con scompenso cardiaco. In tal caso, l'attivazione del sistema RAS e l'infiammazione dovrebbero essere chiamate in causa per gli effetti negativi conferiti dalla carenza di vitamina “D”.

Louise Lind Schierbeck dell’Hvidovre Hospital, Denmark e collaboratori hanno, per loro parte, compiuto uno studio prospettico su 148 pazienti ambulatoriali, di cui 102 uomini, con scompenso, di età media di sessantotto anni, per un follow-up per la mortalità di tre anni e mezzo, misurando i livelli dello NT-proBNP, del PTH, della 25-OHD e di molti altri biomarcatori (Eur J Heart Fail(2011)13(6):626-632). Gli AA hanno eseguito l’analisi di regressione multivariata con aggiustamento per le altre variabili prognostiche indipendenti sulla mortalità generale e su quella cardiovascolare. Il deficit vitaminico “D” (≤ 50 nmol / L) era prevalente nel 43% della popolazione, mentre il 26% aveva elevati livelli di PTH, senza che ci fosse un caso d’iperparatiroidismo primario. Si rilevava una forte associazione indipendente e significativa, sia per il PTH sia per la vitamina “D”, nei riguardi della mortalità, indipendentemente da altri parametri clinicamente importanti [NT-proBNP, velocità di filtrazione glomerulare stimata (eGFR), età e frazione di eiezione ventricolare sinistra (LVEF)]. Entrambi il PTH e la vitamina “D” erano significativamente associati alla mortalità per tutte le cause. In un modello regolare, l’hazard ratio era 1,9 (intervallo di confidenza 1,1-3,4) per il deficit di vitamina e 2.0 (1,0-3,8) per la mediana superiore del PTH. In conclusione, in questo studio prospettico, relativamente piccolo, il PTH e la vitamina “D” mostravano un’associazione indipendente con la mortalità per tutte le cause e quella cardiovascolare nei pazienti con scompenso cardiaco e tale dato risultava anche indipendente da altri fattori di rischio noti, come l’eGFR, la LVEF, il NT-proBNP e l’età.


Vit. “D” scompenso e morte cardiaca improvvisa

Stefan Pilz dell’University of Heidelberg Germany, per chiarire la possibile associazione tra insufficienza vitaminica “D”, scompenso cardiaco e SCD (morte cardiaca improvvisa), sulla scia dei loro precedenti risultati dello studio LURIC (LUdwigshafen RIsk and Cardiovascular Health), volto allo studio dei fattori di rischio ambientali e genetici per le malattie cardiovascolari e in cui risultava che i bassi livelli di 25 (OH) D] erano un fattore di rischio indipendente per la mortalità cardiovascolare globale e il cancro in 3.299 pazienti caucasici con indicazione di angiografia coronarica di base, hanno conseguentemente rilevato che la 25 (OH) D era negativamente correlata con il peptide natriuretico di tipo pro-B N-terminale e inversamente associata a una maggiore classe NYHA (New York Heart Association) e compromissione della funzione ventricolare sinistra. Dopo il follow-up di 7,7 anni, 760 pazienti, con disponibilità dei livelli di 25 (OH) D, morivano, di cui 188 per SCD (il 25% di tutte le morti) e 116 per l’insufficienza cardiaca (il 15%). Nella grave carenza (25 (OH) D <25 nmol / l), dopo aggiustamento per i fattori di rischio cardiovascolare, gli hazard ratio (con intervalli di confidenza al 95%) per la morte da insufficienza cardiaca e per la morte cardiaca improvvisa erano 2,84 (1,20-6,74) e 5,05 (2,13-11,97) rispettivamente, rispetto ai casi nel range ottimale (≥ 75 nmol / litro). In tutte le analisi statistiche gli autori ottenevano risultati simili, sia con la 25 (OH) D sia con l’1,25-diidrossivitamina D (J Clin Endocrinol Metab2008;93:3927–3935).

In particolare, nel gruppo con grave carenza di vitamina gli HR non aggiustati (con l’IC 95%) per la morte da scompenso cardiaco e SCD erano 4,13 (1,77-9,62) e 5,98 (2,60-13,74)  rispettivamente, rispetto al gruppo nel range ottimale. Questi HR rimanevano significativi anche dopo aggiustamento per i vari fattori confondenti, tra cui quelli cardiovascolari, l'uso di farmaci, i parametri del metabolismo minerale e i livelli di attività fisica. I modelli di rischio proporzionale di Cox per quartili di 1,25 (OH) 2D mostravano, nel confronto con il quarto quartile, che nel primo e più basso aumentava il rischio di mortalità a causa d’insufficienza cardiaca e di SCD. Nei pazienti, poi, senza CAD angiografica e senza ipertensione arteriosa, gli autori registravano rispettivamente solo venti e venticinque decessi dovuti a insufficienza cardiaca e, rispettivamente, trentanove e quarantatré per SCD. Nei test, quindi, usavano per le interazioni un end point combinato di questi  due eventi cardiovascolari fatali. Nel modello corretto integralmente non vi era alcuna interazione significativa con l’ipertensione arteriosa (p =  0,250), mentre l'interazione con CAD angiografica era vicina a raggiungere la significatività statistica (P = 0,059). Così, si effettuava un’analisi dei sottogruppi di pazienti con e senza CAD e l’HR, corretto integralmente, era 3,75 (1,89-7,44) per i pazienti con CAD e 5,56 (1,30-23,75) per quelli senza, nel confronto tra il deficit severo di vitamina con il gruppo in range ottimale. Gli studiosi calcolavano anche l’HR per l'end point combinato di SCD e di morte per insufficienza cardiaca nel grave deficit di vitamina e nel caso di concentrazioni entro il più basso quartile, rispetto a chi aveva livelli ottimali, all'interno del più alto quartile di 1,25 (OH) 2D. L'HR non aggiustato (con IC 95%) per i pazienti che avevano valori bassi per entrambe le forme di vitamina “D” era 7.35 (2,96-18,21), e l’HR multivariato, aggiustato, era 4.40 (1,74-11,15). Per l’infarto miocardico fatale (n = 90) l’HR, completamente aggiustatoper l’IMC, il fumo, l’attività, il diabete, l’ipertensione, il GFR, lo LDL e l’HDL, i trigliceridi, il CRP, la CAD, l’ACE-I, i diuretici, i β-bloccanti era 1,54 (0,67-3,58) nei pazienti con grave carenza di vitamina, rispetto al gruppo con i livelli ottimali.

Rajat Deo dell’University of Pennsylvania, Philadelphia e collaboratori, considerata l’evidenza  dell’aumentato rischio degli eventi cardiovascolari e della mortalità con i bassi valori di 25-OHD e i livelli alti dell'ormone PTH paratiroideo, ma in  assenza di  valutazioni tra le associazioni dei marcatori del metabolismo di queste sostanze con il rischio di morte cardiaca improvvisa, hanno studiato 2.312 partecipanti al Cardiovascular Health Study, in assenza di verifica clinica di malattie cardiovascolari misurando la 25-OHD e il PTH (Hypertension. 2011;HYPERTENSION AHA.111.179135). Hanno, quindi, definito in un individuo precedentemente stabile la SCD come una improvvisa condizione senza polso, di origine cardiaca, verificatasi fuori dall'ospedale o in pronto soccorso. Hanno, pertanto, stimato  le associazioni tra i valori di 25-OHD e di PTH con la SCD, utilizzando modelli proporzionali di Cox, dopo aggiustamento per le variabili confondenti rilevanti. Durante un follow-up mediano di 11,2 anni, si verificavano 73 SCD e l'incidenza di morte cardiaca improvvisa era di 2 eventi per 1000 persone-anno tra quelli con 25-OHD ≥ 20 ng / ml, rispetto ai 4 con vitamina D <20 ng / ml. Allo stesso modo, l'incidenza di morte cardiaca improvvisa era di 2 eventi per 1000 persone-anno tra quelli con PTH <65 pg / ml, rispetto ai 4 con PTH> 65 pg / ml.  L’associazione tra le concentrazioni di PTH e di 25-OHD con la SCD rimaneva significativa anche dopo aggiustamento per l’età, il sesso, la razza, la stagione, il fumo, l’indice di massa corporea, l'ipertensione, il diabete e il tasso stimato di filtrazione glomerulare. L’HR era uguale a 1.15, 95% (IC - 1,00-1,32) per ogni 5 ng / ml di diminuzione della vitamina D e uguale a 1,63, (IC 95% - 0,99-2,68) per il PTH> 65 pg / ml. La combinazione di alto PTH (> 65 pg / ml) e di bassi livelli di vitamina “D” (<20 ng / ml) si associava modo indipendente con un rischio di morte cardiaca improvvisa più di due volte maggiore: [HR aggiustato = 2.33, IC 95% (1.25- 4.35)]. In conclusione, negli anziani senza malattie cardiovascolari la bassa 25-OHD e l’elevato PTH si associavano con SCD portando a considerare che, essendo comuni tra gli anziani i disturbi del metabolismo minerale, essi possono, di certo, entrare in gioco negativamente sullo  stato di salute cardiovascolare.


Vit. “D” e trapianto di cuore

Il trapianto cardiaco è oramai una terapia ampiamente diffusa per il trattamento della fase terminale dell’insufficienza cardiaca congestizia. La maggior parte dei candidati comprende quelli refrattari alla terapia medica convenzionale ed esclusi da altre scelte chirurgiche per le loro cattive condizioni. Circa il 45% dei pazienti, nelle fasce sempre più giovani della popolazione, presentano una cardiomiopatia ischemica in progressivo aumento a causa della maggiore prevalenza della malattia coronarica. Peraltro, il 54% ha anche una qualche forma di cardiomiopatia dilatativa, spesso di origine non chiara, mentre il rimanente 1% rientra nella categoria di altre malattie, come quelle congenite, non suscettibili di correzione chirurgica. Dal  momento che Christian Barnard eseguì il primo trapianto di cuore con relativo successo in un essere umano nel 1967 in Sud Africa, dopo i tentativi del 1905 su animali quando Alexis Carrel trapiantò il cuore di un cucciolo nel collo di un cane, si sono succedute tecniche migliorative con gli opportuni interventi d’immunosoppressione. Nel 1983 l'uso clinico della ciclosporina e di seguito di altri farmaci, ha, in effetti, rivoluzionato il campo del trapianto cardiaco, permettendo di ottenere tassi di sopravvivenza sempre maggiori e producendo, così, un aumento esplosivo del numero dei centri dedicati a tale particolare cura.

Per quanto riguarda la vitamina “D”, nei candidatial trapianto d'organo con insufficienza cardiaca congestizia sono stati documentati suoi bassi livelli, come nello stadio terminale della malattia polmonare, dell’insufficienza epatica e della malattia renale cronica. A tale proposito si sono avanzate diverse ipotesi, quali la limitata esposizione alla luce solare e la bassa assunzione alimentare della vitamina, ma anche la disfunzione epatica, consequenziale alla congestione derivante dallo scompenso cardiaco e da altre epatopatie concomitanti in cui la 25-idrossilazione della sostanza potrebbe essere compromessa.

Emily M. Stein della Columbia University, New York e collaboratori hanno voluto compiere uno studio trasversale su sessantanove pazienti, quarantasei trapiantati di cuore e ventitré di fegato, di età media di cinquantatrè anni, con lo scopo di valutare e confrontare direttamente la prevalenza d’insufficienza della vitamina “D” <75 nmol / L. Al momento del trapianto cardiaco o epatico, la 25OHD media era ben sotto il limite inferiore dell'intervallo di normalità (43,2 ± 21,2 nmol / L).

Il 91% dei pazienti aveva livelli sotto i 75 nmol / l, soglia comunemente usata per indicare la sufficienza, e il 71% inferiori ai 50 nmol / L. La grave carenza (25OHD <25 nmol / l) era riscontrata nel 16%.

In conclusione, una grave carenza di vitamina “D” è molto probabile nei pazienti con  trapianto di cuore e di fegato. Peraltro, nello stadio terminale della malattia epatica il rischio aumenta notevolmente, probabilmente a causa dei fattori correlati, come il malassorbimento e il peggioramento dell’insufficiente  25-idrossilazione della vitamina. Pertanto risulta importante per i medici mantenere un elevato grado di vigilanza per questa condizione con supplementi della vitamina per fornire benefici sia scheletrici sia extra (Clin Transplant. 2009 Nov-Dec; 23(6): 861–865).

 


Vit. D, PTH e aterosclerosi carotidea

JP Reis del Johns Hopkins Medical Institutions, Baltimore, USA, partendo dalle evidenze che livelli bassi di vitamina “D” ed elevati di PTH (ormone paratiroideo) possono aumentare il rischio di malattie cardiovascolari, in considerazione delle scarse prove a riguardo nell'aterosclerosi subclinica, hanno eseguito uno studio trasversale su 654 adulti residenti in comunità, di età compresa tra i 55 e i 96 anni (età media 75,5 anni), senza storia di malattia coronarica, rivascolarizzazione, ictus, nell’ambito del Rancho Bernardo Study (Atherosclerosis.2009 Dec;207(2):585-90. Epub 2009 Jun 6). Dopo aggiustamento per età, sesso, fumo, assunzione di alcol, rapporto vita-fianchi, esercizio fisico, stagione del prelievo di sangue, diabete, ipertensione, la media geometrica dell’IMT (intima - media wall thickness) della carotide interna era diminuita in modo dose-dipendente con le concentrazioni crescenti di 25 (OH) D (p (trend) 0.022). Ciò non si rilevava per la carotide comune (P = 0,834), né c'era alcuna associazione tra la 1,25 (OH) (2) D o il PTH con le misure della IMT carotidea. Nelle analisi dei sottogruppi, la 1,25 (OH) (2) D era, invece, inversamente associata con l’IMT carotidea interna nei casi con ipertensione (p = 0,036). Questi risultati, derivati da una coorte di anziani, suggerirebbero, a detta degli autori, un ruolo potenziale della vitamina “D” nello sviluppo dell’aterosclerosi subclinica.

Angela L. Carrelli e collaboratori della Columbia University College in New York hanno selezionato 203 adulti dal Northern Manhattan Study con ecografia della carotide e misure della 25-idrossivitamina D, 1,25-diidrossivitamina D, calcio, fosforo e ormone paratiroide nel siero (Stroke. 2011 Aug;42(8):2240-5). Dopo aggiustamento per i fattori di rischio cardiovascolare, i ricercatori hanno scoperto che il 57% dei soggetti studiati avevano placche, il cui numero correlava con i livelli di fosforo (beta, 0,39 per aumento di 1-mg/dL, P = .02) e di prodotto calcio-fosforo (beta, 0,36 per 10-U aumento; P = .03). La 25-idrossivitamina D è risultata inversamente associata sia con lo spessore dell’intima-media (beta, -0,01 per aumentare 10-ng/mL, P = .05) sia con il massimo spessore della placca carotidea (beta, -0,10 per 10-ng/mL aumento; P = .03). In un modello che teneva conto dei fattori di rischio cardiaci tradizionali e degli indici del metabolismo minerale, la 25-idrossivitamina D rappresentava il 13% della varianza, sia per lo spessore dell’intima-media sia per il massimo spessore della placca carotidea. Al contrario, il calcio, l'ormone paratiroideo e l’1,25-diidrossivitamina D non risultavano associati a queste misure carotidee. Shonni Silverberg, membro del gruppo di studio, concludeva, quindi, che questa ricerca confermava i dati precedenti, dimostrando, per di più, una robusta associazione dei livelli di vitamina “D” con i marcatori dell’aterosclerosi carotidea subclinica. In effetti, la letteratura, in precedenza a tale studio, non avrebbe garantito un adeguato controllo delle ricerche per i fattori di rischio cardiovascolare e della funzione renale e la maggior parte dei dati disponibili non avevano preso in considerazione l'interazione della vitamina con gli altri indici del metabolismo minerale.


Vit. “D” e ictus

L’ictus, le cui descrizioni risalgono ai tempi antichi di Ippocrate (460-370 aC.), dopo la cardiopatia ischemica e il cancro è la terza causa di morte in Europa. Peraltro, non è importante solo per tale motivo, ma anche per il carico di morbilità e dei costi sanitari molto alti che condiziona, soprattutto a causa degli esiti neurologici. Inoltre, è causa frequente di morte improvvisa e imprevista. In definitiva, l'ictus è una delle principali cause di morbilità e mortalità anche in tutto il mondo, con ampie disuguaglianze epidemiologiche tra l’Europa dell'Est e quella dell’Ovest, probabilmente derivanti dalla differenziale prevalenza dell’ipertensione, più elevata nell’Europa orientale. L'ictus, comunque, in Europa è la più importante causa di morbilità e di disabilità a lungo termine e i continui cambiamenti demografici lasciano presupporre un suo aumento d'incidenza e di prevalenza. Esso, peraltro, rappresenta negli anziani la seconda causa più comune di demenza, la più frequente d’epilessia e porta frequentemente a depressione. L'aggiornamento dell’EUSI (European Stroke Initiative) della prima edizione del 2000 riguarda sia l'ictus ischemico sia il TIA (attacco ischemico transitorio), patologie che, oramai, sono da considerarsi una singola entità. Il concetto “time is brain” s’impone come indicazione prioritaria di assistenza sanitaria e pone l’accento sul trattamento dell’ictus, che deve essere considerato nei termini di un'emergenza, evitando qualsiasi ritardo nocivo alle prime cure.

 Stefan Pilz e collaboratori dell’University of Heidelberg, Germany, attingendo sempre allo studio LURIC (Ludwigshafen Risk and Cardiovascular Health), hanno studiato 3.316 pazienti con misure  della  25-idrossivitamina D e 1,25-diidrossivitamina D, sottoposti a angiografia coronarica. Dopo un follow-up di 7,75 anni, 769 pazienti erano morti, di cui 42 per ictus fatale, di forma   ischemica in 27, emorragica in 8 e di eziologia sconosciuta n 7 (Stroke. 2008 Sep;39(9):2611-3. Epub 2008 Jul 17).

Nel confronto con i sopravvissuti in analisi di regressione logistica binaria, l'odds ratio (con l’IC 95%) per l'ictus fatale era pari a 0,58 (0,43-0,78, p <0,001) per ogni valore di z di 25 (OH) D e 0,62 (0,47-0,81; P <0,001) per ogni valore z di 1,25 (OH) 2D. Dopo aggiustamento per i possibili vari fattori confondenti, queste odds ratio rimanevano significative per la 25 (OH) D a 0,67 (0,46-0,97, p = 0,032) e per l’1,25 (OH) 2D a 0,72 (0,52-0,99, P = 0,047). Valori Z di 25 (OH) D e 1,25 (OH) 2D erano, peraltro, ridotti in 274 pazienti che avevano una storia di precedente malattia cerebrovascolare. Questi risultati permettevano agli autori di concludere che i bassi livelli di 25 (OH) D e di 1,25 (OH) 2D erano indipendentemente predittivi per l’ictus fatale, suggerendo che la supplementazione della sostanza, per i suoi probabili effetti antitrombotici e neuro protettivi, si offrirebbe come approccio promettente per la prevenzione dell’ictus.

Erin Michos della Johns Hopkins University School of Medicine, Baltimore e collaboratori hanno inteso arruolare il 25% dei soggetti di colore dello studio randomizzato, controllato con placebo, VITAL (VITamin D and OmegA-3 TriaL), finanziato dal National Institutes of Health e gestito dall’Harvard Medical School e Brigham and Women's Hospital, che sta valutando se 2000-UI il giorno di vitamina “D” o di olio di pesce, contenente circa 1 g di acidi grassi omega-3, possano ridurre l’incidente di cancro, di malattie cardiache o d’ictus (NHANES III linked mortality files" AHA 2010; Abstract 9478.).  

Già in precedenza, il gruppo della Johns Hopkins e altri ricercatori avevano dimostrato che la carenza di vitamina era un fattore di rischio per le malattie cardiovascolari, per l’infarto miocardico e per la morte cardiovascolare e per tutte le cause, in modo indipendente dai tradizionali fattori di rischio. Si era anche dimostrata la molto diffusa prevalenza della carenza della vitamina, in modo particolare per le popolazioni nere, con valori dell'80% negli Stati Uniti, tanto da ritenere che si potessero spiegare, così, alcuni degli eccessi di rischio cardiovascolare in questa etnia, rispetto ai bianchi. Pur tuttavia, gli studi, condotti sino a oggi sul rapporto tra vitamina “D” e ictus, hanno interessato solo popolazioni bianche e non i soggetti di colore, in cui sono più frequenti entrambe le condizioni patologiche. Usando la NHANES III (third National Health and Nutrition Examination Survey), come rappresentativo campione trasversale degli adulti statunitensi, i ricercatori hanno arruolato 7.981 adulti bianchi e di colore, senza storia di malattie cardiovascolari e d’ictus. Nella media di quattordici anni di follow-up, si sono verificati 176 decessi totali d’ictus, di cui 116 in bianchi e sessanta in neri. Al basale, i neri presentavano 25 (OH) D molto più bassa rispetto ai bianchi. La carenza di vitamina, definita da valori inferiori ai 15 ng / mL, era presente nel 6,6% dei bianchi vs il 32,3% dei neri.

Pur tuttavia, i neri avevano ancora un più alto tasso d’ictus fatale rispetto ai bianchi, con un aumento del 65% dopo aggiustamento per i vari fattori di rischio, quali età, sesso, istruzione, reddito, indice di massa corporea, fumo, attività fisica, e proteine C-reattiva.

La razza, l’età, il genere o la stagione non determinavano differenze nei livelli di vitamina. La 25OHD media era più bassa nel gruppo del trapianto di fegato, rispetto a quello del cuore (34,4 ± 17,5 vs 47,7 ± 20,7 nmol / L, p <0.03). Tra i trapiantati di fegato il 22% aveva addirittura livelli non rilevabili (<17 nmol / L).

Tali risultati condurrebbero a mantenere alto il grado di attenzione per questa problematica nel trapianto di cuore e ancor più di quello di fegato (Clin Transplant. 2009 Nov-Dec; 23(6): 861–865).