notiziario MAggio 2013 N.5 ALIMENTAZIONE E SALUTE: VEGETALI E CARNE A CONFRONTO

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NOTIZIARIO Maggio 2013 N°5

ALIMENTAZIONE E SALUTE: VEGETALI E CARNE A CONFRONTO

 

 

 

 

 

A cura di:
Giuseppe Di Lascio §

 

Con la collaborazione di:

Doriana Bauzulli *, Alessandro Di Lascio**
Andrea Levi Della Vida §, Simonetta Melilli §
Claudio Stazzi §, Elena Zimmatore §
 
§ Medico specialista in Medicina Interna
* Coordinatrice degli Infermieri, ** Fisioterapista

Vegetali e carne a confronto per la salute

Migliorare la nutrizione è un imperativo costante a livello internazionale nella lotta al controllo e alla progressione delle NCD (malattie non trasmissibili). La riduzione del sale nella dieta e l’attività fisica sono tra le azioni prioritarie proposte. Si stima, difatti, che l’alimentazione non salutare e l'inattività fisica hanno rappresentato globalmente nel 2010 il 10% della DALY (disability-adjusted life years). Peraltro, i rischi alimentari più importanti sono stati quelli concernenti le diete a basso contenuto di frutta e quelli ad alto contenuto di sodio.
D'altra parte, quando oggi si considera la nutrizione a livello della popolazione, si tende a ritenere altresì rilevanti le preoccupazioni per quanto riguarda la sostenibilità e l'impatto della produzione alimentare sull'ambiente. Ciò è particolarmente sentito nei termini della produzione dei gas a effetto serra (GHG).  Alcune stime, invero, riportano le emissioni globali di gas serra di origine alimentare dal 19 al 31%. Degno di nota è che alcune misure, come la sostituzione del consumo di carne rossa con altri alimenti, possono ridurre sostanzialmente tali emissioni e produrre anche reali benefici per la salute.
Le stime del consumo di carne bovina sono di circa 10 Kg/anno per persona, arrivando ai 54,5 Kg in Argentina e ai quarantadue negli Stati Uniti. Pur tuttavia, il consumo mondiale pro capite è continua crescita, in particolare in Asia a causa dello sviluppo economico delle nazioni. A tale proposito, bisogna considerare che, per la produzione dei vari alimenti, le emissioni di gas a effetto serra possono essere meglio apprezzate con il confronto con quelle di un’automobile di trasporto personale a benzina che viaggia per undici chilometri a litro. Le emissioni stimate relative alla produzione alimentare ipotizzano che 1.000 chilogrammi annui di carbonio per ettaro, pari a circa 2.700 chili di anidride carbonica, sarebbero potuti essere stati assorbiti, se non si fosse trasformato l’ambiente con le colture di foraggio o di alimenti, dalle foreste o da altra vegetazione. Il biossido di carbonio (CO2) e il metano, gas dell’effetto serra, intrappolano, così, l'energia solare che riscalda la superficie della terra. In effetti, la produzione in tutto il mondo di carne di manzo, di pollo e di maiale emette nell’atmosfera gas serra più di quanto non facciano tutte le forme di trasporto globale o i processi industriali.
Bisognerebbe, quindi, identificare più attentamente, con interventi coordinati e multidisciplinari e anche politici, modelli alimentari più sani, a basso costo e associati alle minime emissioni del gas serra. Un modo per studiare questo complesso problema delle diete, ottimizzando nel contesto più vincoli, si può ottenere, peraltro, attraverso una programmazione lineare. Questa tecnica matematica consente, difatti, la generazione di soluzioni ottimali, ad esempio di identificare il mix a minor costo degli alimenti che soddisfano i livelli dei nutrienti minimi e massimi. Per l’appunto, la programmazione lineare è stata utilizzata per decenni per informare la nutrizione con numerosi esempi recenti e con ottimizzazione delle diete verso le direzioni più salutari. Inoltre, questa metodologia ha anche iniziato a essere utilizzata per aiutare a identificare le diete associate alle più basse emissioni di gas serra.
In tale contesto, s’inserisce la dieta mediterranea tradizionale, caratterizzata da un elevato consumo di olio d'oliva, frutta, verdura e cereali. Si aggiunge un consumo moderato di pesce e pollame, un basso consumo dei prodotti lattiero-caseari, delle carni rosse, dei salumi e dei dolci e del vino ai pasti con moderazione.
Christin Heidemann dell’Harvard School of Public Health, Boston e collaboratori, considerando in gran parte sconosciuto l'impatto complessivo dei modelli alimentari sulla mortalità causata dalle malattie croniche cardiovascolari o altro, hanno voluto valutare prospetticamente dal 1984 al 2002 questa relazione in 72.113 donne, libere da infarto del miocardio, angina, chirurgia coronarica, ictus, diabete, o cancro (Circulation. 2008 July 15; 118(3): 230–237). Sulla base dell'analisi dei fattori derivati dalla somministrazione ogni 2 - 4 anni di questionari ad hoc, gli Autori hanno ottenuto i modelli alimentari dei partecipanti allo studio, identificandone due più importanti:
1) modello prudente, rappresentato da un elevato consumo di verdura, frutta, legumi, pesce, pollame e cereali integrali;
2) modello occidentale, riflettente un elevato consumo di carne rossa e lavorata, cereali raffinati, patate fritte e dolci / dessert.
Durante i diciotto anni di follow-up, occorrevano 6.011 decessi, di cui 1.154 cardiovascolari e 3.139 per cancro. Dopo aggiustamento multivariato, la dieta prudente si associava a un rischio inferiore del 28% di mortalità cardiovascolare con intervallo di confidenza 95% dal tredici al 40% e un rischio inferiore del 17% di tutte le cause di mortalità, dal 10 al 24% nel confronto tra il più alto al più basso quintile. Al contrario, il modello occidentale si associava a un alto rischio di mortalità per malattie cardiovascolari (22%, dall’uno al 48%), per cancro (16%, dal 3 al 30%) e per tutte le cause (21%, dal 12 a 32%).
In conclusione, secondo gli Autori, una maggiore aderenza al modello prudente avrebbe ridotto il rischio di mortalità cardiovascolare e totale, mentre una maggiore aderenza al modello occidentale avrebbe potuto aumentare il rischio tra le donne inizialmente sane.
In particolare dal 2005 le Dietary Guidelines for Americans, proprio in ragione  degli effetti dei grassi saturi, delle lipoproteine a bassa densità e dei livelli di colesterolo totale, consigliano una netta moderazione nel consumo di carne rossa e di trasformati. Pur tuttavia, bisogna anche fare una netta distinzione tra le carni rosse e quelle elaborate per i loro valori nutrizionali differenziali, come quelli riguardanti il contenuto di calorie, dei grassi specifici, del sodio, del ferro, o degli additivi, come i nitriti. Vi possono essere anche differenze nei metodi di preparazione, come la temperatura di cottura commerciale, che potrebbe produrre effetti diversi sul rischio cardiometabolico.

Negli Stati Uniti, sulla base dei dati rappresentativi a livello nazionale sui tipi e quantità delle carni consumate, sono state identificate in valore medio le somiglianze e le differenze dei nutrienti e / o dei conservanti delle carni rosse contro quelle trasformate.

In effetti, 50 gr di carni lavorate contenevano percentuali di calorie ed energia modestamente superiori derivate dai grassi e minori dalle proteine, rispetto alle corrispondenti quantità delle carni rosse. Coerentemente con il più basso contenuto di proteine, le carni trasformate includevano anche meno ferro ma quantità relativamente simili dei grassi saturi e leggermente inferiori del colesterolo. Differenze relativamente piccole riguardavano il contenuto dei grassi monoinsaturi, dei grassi polinsaturi, o del potassio. Più marcate differenze si riscontravano nei livelli del sodio. Le carni trasformate contenevano, difatti, livelli superiori di quattro volte di quest’ultimo elemento, 622 contro 155 mg per dose e conservanti differenti dal sale, superiori del 50%, come nitrati, nitriti e nitrosammine.
Andrew O. Odegaard dell’University of Minnesota School of Public Health – USA e collaboratori per valutare empiricamente i modelli alimentari, soprattutto nella loro associazione con il diabete di tipo 2, hanno utilizzato i dati della Singapore Chinese Health Study, relativi a 43.176 cinesi di ambo i sessi di età dai quarantacinque ai settantaquattro anni, senza diabete, malattie cardiovascolari e cancro al basale nel periodo 1993-1998 e seguiti fino al 2004 (Diabetes Care. 2011 Apr;34(4):880-5).

Gli Autori hanno identificato due principali modelli alimentari utilizzando l’analisi dei componenti principali:

  1. modello VFS, ricco di soia verdura e frutta;
  2. modello DSM, ricco di Dim Sum e carne.

I punteggi per ogni partecipante erano calcolati ed esaminati con regressione di Cox per il rischio di diabete di tipo 2. Le associazioni dei due modelli alimentari con il rischio di diabete erano modificate dallo stato di fumatore.
Nei fumatori abituali nessun modello era associato con il rischio di diabete, mentre nei non fumatori, lo era in modo inverso il modello alimentare VFS. Rispetto al quintile più basso del punteggio del modello alimentare VFS, l'hazard ratio (HR) per i quintili 2-5 erano 0.91, 0.82, 0.73 e 0.75 (p = 0.0005). Il modello alimentare DSM era positivamente associato con il rischio di diabete di tipo 2 nei non fumatori, con HR per i quintili 2-5 di 1.07, 1.25, 1.18 e 1.47 (P <0.0001).
In conclusione, il modello alimentare con una maggiore assunzione di verdura, frutta e cibi a base di soia risultava inversamente associato con il rischio di diabete di tipo 2. Invece, il modello con una maggiore assunzione di Dim Sum, carni semplici e lavorate, prodotti alimentari e bevande zuccherate e cibi fritti si associava a un aumento significativo del rischio di diabete di tipo 2 negli uomini e donne cinesi di Singapore.
S.E. Judd dell’University of Alabama Birmingham e collaboratori, riproponendo che la dieta è uno dei tanti fattori potenziali proposti per spiegare le differenze razziali e regionali nell’ictus, hanno esaminato in modo prospettico l'associazione di vari modelli alimentari con il rischio d’ischemia cerebrale acuta nello studio REGARDS (REasons for Geographic and Racial Differences in Stroke). Per questo hanno arruolato tra il 2003 e il 2007 americani sia bianchi sia di colore di quarantacinque anni o più vecchi, impiegando un approccio analitico a due stadi. In primo luogo, hanno utilizzato l'analisi delle componenti principali per valutare i modelli di dieta riguardanti cinquantasei gruppi di alimenti per 20.480 partecipanti che hanno completato il questionario di frequenza alimentare Block98. In secondo luogo, i punteggi dei partecipanti, divisi in quartili, su questi modelli sono stati poi considerati come predittivi d’incidente d’ictus con regressione di Cox. L'analisi fattoriale identificava cinque modelli dietetici:
1) di convenienza con cibi cinesi e messicani, pasta, pizza,
2) basato sui vegetali con frutta, verdura, legumi,
3) meridionale con cibi salati, fritti, carni, bevande zuccherate,
4) di dolci / grassi con dolci, zuccheri aggiunti, spuntini dolci,
5) di alcol / insalate con alcool, grassi, ortaggi.
I partecipanti con una maggiore aderenza al modello alimentare del sud avevano più probabilità di risiedere nel sud-est con un confronto Q4 Q1: 64% vs 48% e registravano un 41% di aumento del rischio d’ictus con confronto Q4 Q1: HR = 1.41, IC 95% = 1.07, 1.85. Al contrario, una maggiore aderenza al modello di base vegetale si associava a una riduzione del 29% del rischio con confronto Q4 Q1: HR = 0,71, 95% IC = 0.55, 0.91. La tendenza tra i quartili era <0,001, indicando una dose-risposta per l'aderenza a ogni modello. L’aggiunta ai modelli dello stato socio-economico, del fumo, dell'attività fisica e dell'assunzione totale di energia (calorie) attenuava l'associazione, ma il significato rimaneva lo stesso, persistendo nell’analisi dei sottogruppi esaminati solo per l’ictus ischemico. I modelli di convenienza, quello dei dolci, dell’alcol non erano associati con il rischio d’ictus.
In conclusione, secondo gli Autori il loro studio avrebbe suggerito che gli alimenti comuni della cucina meridionale, come i cibi fritti e le bevande zuccherate avrebbero potuto aumentare il rischio dell’ictus, mentre la dieta ricca di legumi, frutta, verdura e pesce lo avrebbe potuto ridurre.
In particolare lo studio dimostrava che:
a) la frequenza d’ictus era direttamente proporzionale all’abitudine alimentare meridionale dei partecipanti,
b) coloro che mangiavano cibi meridionali per circa sei volte la settimana avevano un rischio d’ictus del 41% più alto, rispetto a quelli che li mangiavano una volta il mese,
c) una dieta del sud rappresentava il 63% del rischio d’ictus tra gli afro-americani sopra di quello delle loro controparti bianche,
d) coloro le cui diete erano costituite da maggiori quantità di frutta, verdura, legumi e cereali integrali per circa cinque volte la settimana avevano un rischio d’ictus del 29% inferiore a quelli la cui dieta era scarsa in questi alimenti per consumo di circa tre volte la settimana.
Ne sarebbe, quindi, derivata la raccomandazione di incoraggiare interventi incentrati sulla maggiore diffusione del consumo di pesce e cibi a base di vegetali, riducendo i cibi fritti e le bevande zuccherate (Stroke. 2013; 44: A144).


La dieta portafoglio per combattere l’iperlipidemia

La dieta del portafoglio, che può durare tutta la vita, proposta da Amanda Ursell, nutrizionista e dietologa britannica, oltre che scrittrice e titolare televisiva e di diverse rubriche sul Times e su The Sun, ha come obiettivo principale la riduzione del colesterolo LDL con l’aumento delle HDL. Essa si basa principalmente su un’alimentazione ricca di fibre vegetali, pari a 20 - 25 grammi il giorno, che aiutano a perdere peso riducendo la necessità di assumere il cibo e rallentando l’assimilazione dei grassi. Invita a ricorrere, quindi, alle migliori fonti, come verdure, legumi, cereali integrali, frutta fresca e secca. Sono proposti anche alimenti come, l’olio d’oliva, il pesce, i molluschi e i crostacei di mare, le carni bianche, la soia, l’agar-agar, l’avena, il pysllium, i semi di lino, l’orzo, il tè e con moderazione il cacao e il vino rosso. Sono sconsigliati gli oli idrogenati e si raccomanda di ridurre il consumo della carne rossa e dei prodotti lattiero-caseari.
Le mandorle sono ottime anche per la vitamina E, importante per mantenere un cuore sano. Esse sembrano anche capaci di ridurre alcune proteine coinvolte nella produzione del colesterolo cattivo LDL, fornendo fibra ed essendo molto povere di grassi saturi. Rappresentano, peraltro, delle fonti vegetali di grassi omega 3 che, a loro volta, aiutano nell’abbassare il colesterolo. Per suo verso, la fibra solubile, di cui sono ricchi gli alimenti della dieta portafoglio, si mescola nello stomaco con il succo gastrico formando una sorta di gel in grado di inglobare parte del colesterolo ed espellerlo con le feci, contribuendo, così, ad abbassare la colesterolemia.  Infine, i semi, il latte e lo yogurt di soia forniscono le proteine note, ormai, per contribuire all’abbassamento del colesterolo cattivo LDL. Contemporaneamente alla dieta si raccomanda un congruo esercizio fisico giornaliero.
Con la dieta portafoglio è stata dimostrata la riduzione delle malattie cardiache e digestive relative al consumo delle fibre, mentre le numerose verdure comportano un efficiente ruolo nella lotta contro l’ipertensione. È facile da seguire e i pasti sono equilibrati.
Jenkins DJ dello St Michael's Hospital, Toronto – Canada e collaboratori, prendendo atto delle qualità della dieta portafoglio nel ridurre il colesterolo sierico in condizioni metabolicamente controllate, hanno voluto valutarne l'effetto in uno studio randomizzato tra il 25 giugno 2007 e il 19 febbraio 2009. Gli Autori hanno, così, arruolato 351 pazienti iperlipidemici in quattro centri accademici del Canada: Quebec City, Toronto, Winnipeg, Vancouver assegnandoli a tre trattamenti dietetici della durata di sei mesi (JAMA. 2011 Aug 24;306(8):831-9). I partecipanti del primo gruppo, ricevevano, come controlli, consigli di una dieta a basso contenuto di grassi saturi, quelli del secondo gruppo seguivano una dieta portafoglio per la quale la consulenza, assegnata a diverse frequenze, sottolineava l'alimentazione con steroli vegetali, proteine di soia, fibre viscose e noci in forma routinaria e il terzo gruppo in forma intensiva. La dieta portafoglio per più di sei mesi comportava due visite cliniche per la routinaria e sette per l’intensiva. La variazione percentuale delle LDL-C nel siero costituiva l’end point principale. Nell’intention-to-treat modificato dei 345 partecipanti il tasso di abbandono complessivo non era significativamente differente tra i trattamenti. Difatti, corrispondeva al 18% per la dieta portafoglio intensiva, al 23% per quella di routine e al 26% per quella del controllo. Il test esatto di Fisher era P = .33. Le riduzioni delle LDL-C da una media complessiva di 171 mg / dL (intervallo di confidenza [IC]95%, 168-174 mg / dL) erano -13,8% (IC 95%, da -17.2% a -10,3%, p <. 001) o -26 mg / dL (IC 95%, da -31 a -21 mg / dL, p <.001) per la dieta portafoglio intensiva. Per la dieta portafoglio di routine era, invece, -13,1% (IC 95%, -16,7% al -9,5%; P <.001) o -24 mg / dL (IC 95%, da -30 a -19 mg / dL, p <.001). Per la dieta di controllo era -3,0% (IC 95%, -6,1% allo 0,1% p = 0,06) o -8 mg / dL (IC 95%, da -13 a -3 mg / dL, p = .002). La percentuale di riduzione delle C-LDL per ciascun gruppo della dieta portafoglio era significativamente maggiore rispetto alla dieta di controllo (P <0,001, rispettivamente). Non vi era, invece, una significativa differenza tra i due interventi dietetici portafoglio (P = .66). Inoltre, tra i partecipanti randomizzati a uno degli interventi dietetici portafoglio la percentuale di riduzione delle LDL-C si associava con l'aderenza allo schema dietetico (r = -0.34, n = 157, p <.001).
In conclusione, l'adozione di una dieta portafoglio, rispetto ai consigli dietetici a basso contenuto di grassi saturi, determinava un maggiore abbassamento delle LDL-C durante i sei mesi del follow-up. Inoltre, il gruppo portfolio presentava una riduzione dell’11% del rischio cardiovascolare stimato a dieci anni.


Frutta e verdura salutari per la disfunzione arteriosa dell’artrite reumatoide

Crilly MA e McNeill G dell’Aberdeen University Medical School, Scotland, UK, considerando che l'artrite reumatoide (AR) si associa a un aumento della disfunzione arteriosa e del rischio delle malattie cardiovascolari, sulla base che il consumo regolare di frutta e verdura è ormai riconosciuto efficace nel prevenire queste condizioni, hanno voluto eseguire uno studio nei meriti (Eur J Clin Nutr. 2012 Mar;66(3):345-52).  Gli Autori hanno, così, reclutato 114 pazienti di età media cinquantaquattro anni, nello 81% femmine, affetti da AR da dieci anni in media di età compresa tra i quaranta e i sessantacinque anni senza malattia cardiovascolare conclamata. Hanno utilizzato, quindi, l'analisi multivariata per regolare i dati per età, sesso, colesterolo, pressione arteriosa media, abitudine al fumo, consumo di alcol, attività fisica, peso cumulativo dell’infiammazione, noduli reumatoidi, disabilità e istruzione. Il consumo di frutta e verdura era significativamente correlato a un più basso AIX% (-3.2, IC 95% -6,4 a -0,1, P = 0,05). All'analisi rettificata l’indice AIX% era inferiore con le verdure ogni giorno (-4,2, IC 95% -7,9 a -0,5, P = 0.003), ma non con la frutta (-0.02, IC 95% -3,9 a 3,8, p = 0,99).
In conclusione, il consumo di verdura giornaliero, ma non quello di frutta, correlava in modo indipendente con la funzione arteriosa più favorevole nei pazienti con AR.


Nitrato delle verdure e salute cardiovascolare

L'interazione tra le fonti alimentari di nitrato biologicamente inerte (NO3) e la microflora orale è abbastanza nota. La microflora orale, in effetti, converte il NO3 in nitrito bioattivo (NO2). Quest’ultimo, quando in circolo, provoca vasodilatazione e conseguente abbassamento della pressione sanguigna. La barbabietola, insieme con le verdure a foglia verde, ha alte concentrazioni di nitrato inorganico e il suo succo, quando entra in contatto con la saliva umana, aumenta i livelli di nitrato e nitrito plasmatici, conducendo conseguentemente a significative diminuzioni della pressione sanguigna in volontari sani.
Ghosh SM della Queen Mary University of London - United Kingdom e collaboratori, in conformità a quanto sopra, hanno studiato gli effetti dei nitriti della dieta su uomini ipertesi e su ratti che lo erano spontaneamente (Hypertension. 2013 May;61(5):1091-102). I nitriti causavano riduzione pressoria dose-dipendente migliorando marcatamente l’equilibrio emodinamico dei ratti rispetto ai controlli normotesi Wistar Kyoto. Questo effetto era praticamente abolito dall’allopurinolo, inibitore della xantina ossidoreduttasi (XOR), e associato all’ipertensione dipendente dall’attività specifica della nitrito reduttasi XOR, localizzata negli eritrociti, ma non nella parete dei vasi sanguigni.  Per determinare se questi percorsi si traducessero nell’ipertensione dell’uomo, gli Autori studiavano anche gli effetti dell’elevazione dei livelli circolanti dei nitriti in quindici ipertesi di grado uno. Per elevare i nitriti utilizzavano una dose di nitrati nella dieta (≈ 3.5 mmol) che permetteva il raggiungimento di livelli circa 1,5 volte maggiori (p <0.01). Quest’aumento in precedenza aveva mostrato di esercitare significativi effetti per abbassare la pressione nei normotesi. Questa dose causava, così, una sostanziale riduzione della pressione sistolica di circa 12 mmHg, ma anche della diastolica (p <0.001) e della velocità dell'onda pulsatoria (P <0,05). Inoltre, questi effetti si associavano con aumenti dell’espressione XOR eritrocitaria e dell’attività della nitrito reduttasi XOR dipendente.
Secondo gli Autori, le loro osservazioni dimostravano nell’ipertensione la maggiore efficacia del nitrato inorganico e dei nitriti, in rapporto all’aumento eritrocitario della nitrito reduttasi XOR. Peraltro, se è pur vero che frutta e verdura fanno bene al sistema cardiovascolare, non è ancora del tutto esattamente certo perché questo avvenga. Pur tuttavia, diversi studi hanno dimostrato che la verdura a larghe foglie verdi fornisce la massima protezione contro gli attacchi di cuore e d’ictus. Ciò forse è vero perché rappresenta la principale fonte di nitrato della nostra dieta. I risultati, quindi, fornirebbero supporto alla raccomandazione della supplementazione dietetica del nitrato, come mezzo antipertensivo perché efficace, strategico, semplice e poco costoso.


Gli alimenti con antiossidanti prevengono il danno tessutale

La lacrima di Giobbe (Coix lacryma-jobi) è una pianta tropicale appartenente alla famiglia delle graminacee, molto apprezzata come integratore alimentare. Il suo consumo porta a ridurre efficacemente il colesterolo, i trigliceridi e le LDL, mentre aumenta le HDL, abbassa i lipidi del fegato, previene la steatosi epatica e aumenta l'escrezione lipidica. Il grano saraceno (Fagopyrum esculentum) contiene, invece, grandi quantità di proteine, amidi e vitamine. Le proteine consistono in aminoacidi ben equilibrati, di alto valore biologico, per cui il composto si dimostra un integratore eccellente. Inoltre, il grano saraceno più di molte altre piante è costituito da rutina, dotata di attività antiossidante, antiemorragica e con proprietà di protezione dei vasi sanguigni. L’orzo (Hordeum spp.), per suo conto, grazie ai suoi composti bioattivi, come i β-glucani, sta guadagnando un rinnovato interesse come ingrediente per gli alimenti funzionali. Esso mostra un’ampia variabilità genetica tra le cultivar. Peraltro, un’importante caratteristica genetica è la presenza di diversi genotipi nel rapporto amilopectina-amilasi. L’orzo glutinoso (GB), per sua caratteristica, contiene anche delle fibre solubili, che possono rivestire interesse nel metabolismo glucidico e lipidico.
Ormai, diversi studi hanno dimostrato che i cereali integrali sono nutrizionalmente comparabili, o addirittura superiori al riso bianco (WR). Essi contengono anche micronutrienti, come la vitamina E, l’acido folico, gli acidi fenolici, lo zinco, il ferro, il selenio, il rame, il manganese, i carotenoidi, la betaina, la colina, gli aminoacidi solforati, l’acido fitico, le lignine, i lignani e gli alchilresorcinoli. Tutti composti che hanno potenzialità di effetti antiossidanti. Tuttavia, la frazione della crusca, per effetto del germe rilasciato durante la lavorazione dei cereali, gioca un ruolo più importante.
In definitiva, i cereali integrali tendono complessivamente a migliorare lo stato antiossidante degli animali. Questo effetto sembra essere più pronunciato specialmente nelle condizioni di stress ossidativo, come in caso di diete ricche di grassi o in caso d’ipercolesterolemia e in topi carenti di Apo E.  
Jung Yun Kim della Bucheon University – Korea e collaboratori hanno voluto esaminare se quattro grani, tra cui l’adlay (AD), il grano saraceno (BW), l’orzo glutinoso (GB) e il riso bianco (WR) potessero influenzare nei ratti la durata della persistenza del cibo nel tratto gastrointestinale e l'attività degli enzimi epatici (Nutr Res Pract. 2012 June; 6(3): 208–212). I ratti erano mantenuti, per indurre l'obesità, per quattro settimane con una dieta ricca di grassi sulla base AIN-93G (American Institute of Nutrition-93), contenente l’1% di colesterolo e il 20% di lipidi alimentari. Quaranta ratti maschi erano suddivisi in quattro gruppi e cresciuti per quattro settimane con una dieta contenente uno dei cereali.

Corrispondentemente al contenuto delle fibre alimentari dei grani sperimentali, il tempo di transito intestinale era più corto nei ratti nutriti con GB e aumentava nell'ordine con il BW, l’AD e il WR, alimento base dei coreani. Inoltre, il più breve tempo di transito accumulato si verificava nel gruppo GB. Il tempo di transito intestinale influenzava l'aumento di peso e il maggiore peso degli organi, perché strettamente legati all'assorbimento delle sostanze nutritive. Il livello della TBARS (thiobarbituric acid reactive substance) nel fegato era maggiore nei ratti alimentati con WR, AD, BW e GB, indicando che gli altri grani diminuivano lo stress ossidativo in vivo più del WR. I livelli del glutatione, della glutatione perossidasi e della glutatione S-transferasi nei gruppi AD, BW e GB erano significativamente più alti, rispetto a quelli del gruppo WR.
In conclusione, la riduzione del tempo di transito intestinale era implicata nel ridurre l'incidenza del cancro al colon, come testimoniato dalle popolazioni che consumano diete ricche di fibre. I cereali integrali come l’AD, il BW e il GB potevano, infatti, contribuire a una significativa fornitura di antiossidanti per prevenire lo stress ossidativo, se consumati in grandi quantità. Le fibre e i composti fenolici dietetici, presenti in grande quantità nei cereali integrali, stimolavano, di fatto, la digestione, migliorando le attività degli enzimi e la secrezione degli acidi biliari.  


L-arginina, sviluppo del tessuto adiposo bruno e riduzione del grasso bianco

L’obesità è causata da uno squilibrio cronico nel metabolismo energetico, caratterizzato da un maggior apporto di energia rispetto al dispendio energetico. Questo disturbo metabolico, manifestatosi in modo allarmante già dalla metà del secolo scorso, soprattutto nei paesi economicamente più progrediti, ha continuato ad aumentare in tutto il mondo a un ritmo epidemico negli ultimi dieci anni, interessando entrambi i sessi e tutte le fasce di età e le razze. Tale dato preoccupa sempre più i sistemi sanitari per il corrispondente aumento delle diverse malattie che hanno in comune il fattore di rischio dell'insulino-resistenza, come il diabete di tipo 2, l’arteriosclerosi, l’ictus, l’ipertensione e alcuni tipi di cancro. Pertanto, la prevalenza dell’obesità e i costi enormi del suo trattamento richiedono la necessità di una continua ricerca per la scoperta di nuovi metodi nutrizionali alternativi.
La L-arginina è un amminoacido, condizionatamente essenziale, che deve essere assunto con la dieta solo in alcuni periodi della vita, o a causa di alcune patologie. Essa è sintetizzata dall'organismo come derivato del glutammato, prodotto nel Ciclo di Krebs. Pur tuttavia, nelle donne in gravidanza e nei bambini la sua produzione non è sufficiente a coprire la richiesta biologia, perciò deve essere assunta con la dieta.
Essa è stata isolata per la prima volta precipitando il sale d'argento, derivando da ciò il suo nome. Il chimico svizzero Ernst Schultze la isolò appunto nel 1886 da un estratto di germoglio del lupino. Particolari condizioni di salute rendono necessaria la sua assunzione in maggiori quantità, come nel caso di malnutrizione proteica, di eccessiva produzione di ammoniaca, o di sovrabbondante assunzione di lisina. L’arginina è efficace, peraltro, per migliorare e ridurre i tempi di recupero e di rimarginazione delle ferite, allontanando, nello stesso tempo, il rischio di possibili infezioni dopo gli interventi chirurgici. Anche nel caso di crampi muscolari, frequente dolore alle gambe o alle mani, legato a un limitato afflusso di sangue, i supplementi di arginina possono risolvere il problema. È possibile, comunque, trovare la L-arginina in un gran numero di alimenti. La L-arginina si trova in quasi tutte le proteine e in forma libera in molte piante, come nel grano saraceno, nelle cucurbitacee e nelle aghifoglie. L’organismo la utilizza come precursore per la sintesi di molecole biologicamente importanti come l’ossido nitrico (NO), le poliammine, la creatina, l’agmatina, la prolina e il glutammato. L’arginina è, quindi, necessaria per la formazione dell’urea, elemento fondamentale per la rimozione dell’ammoniaca tossica che si deposita nell’organismo, e per la produzione di creatina. Peraltro, come precursore dell’ossido nitrico, che provoca vasodilatazione dei vasi sanguigni, torna di utilità nelle patologie di ordine medico che richiedono tale condizione, come l’angina, l’ostruzione arteriosa e la claudicatio intermittens, l’insufficienza cardiaca, la disfunzione erettile e l’emicrania di origine vascolare. Inoltre, essendo necessaria per la produzione delle proteine, torna utile agli atleti, soprattutto quelli che si dedicano al culturismo. Le evidenze disponibili mostrano anche che i livelli fisiologici di arginina e di NO promuovono l'ossidazione dei grassi e diminuiscono la loro sintesi in maniera specifica per i tessuti. Inoltre, l'inibizione della sintesi di NO sistemica aumenta i livelli circolanti dei trigliceridi e la massa grassa nei ratti. L'integrazione alimentare con L-arginina ha dimostrato, inoltre, di ridurre selettivamente la massa grassa bianca e aumentare l'espressione dei geni per la protein chinasi AMP-attivata e il PPAR coactivator-1α, regolatori principali dell’ossidazione mitocondriale.  
Wenjuan Jobgen del Texas A&M University College e collaboratori, proprio sulla base dei precedenti studi che avevano dimostrato che la dieta con L-arginina diminuiva la massa grassa bianca nei ratti geneticamente obesi, hanno testato la sua efficacia nell’obesità indotta dalla dieta (J Nutr. 2009 February; 139(2): 230–237). Gli Autori hanno, così, alimentato ratti maschi Sprague-Dawley per quindici settimane con un alto contenuto di grassi (HF), pari al 40% di energia, o a loro basso contenuto (LF), pari al 10% dell'energia. Hanno dato inizio alla dieta HF e LF a quattro settimane di età dei ratti, con conseguente aumento del peso corporeo del 18% e massa del 74% in più dei grandi cuscinetti di grasso bianco retroperitoneale, dell'epididimo, sottocutaneo e del tessuto adiposo mesenterico. Dalla 19^ settimana di età, i ratti di ogni gruppo alimentare ottenevano per dodici settimane un’integrazione dell’1,51% di L-arginina-HCl o del 2,55% di L-alanina, come controllo isonitrogeno. Pur con l’apporto energetico simile, nelle dodici settimane i pesi assoluti dei cuscinetti adiposi bianchi aumentavano del 98% nei ratti di controllo, ma solo del 35% nei ratti con l’integrazione con l’arginina. Il trattamento con arginina riduceva il peso relativo dei cuscinetti di grasso bianco del 30% e migliorava del 13% quello del muscolo soleo, dello 11% dell'estensore lungo delle dita e del 34% del grasso bruno, rispetto ai ratti di controllo. Le concentrazioni sieriche d’insulina, dell’adiponectina, dell’ormone della crescita, del corticosterone, della triodotironina e della tiroxina non differivano tra controlli e i ratti con integrazione con arginina. Tuttavia, il trattamento con arginina faceva segnare concentrazioni sieriche inferiori di leptina, di glucosio, di trigliceridi, di urea, di glutammina, di aminoacidi a catena ramificata. Si rilevavano, d’altra parte, elevate concentrazioni sieriche dei metaboliti dell’ossido nitrico e il miglioramento della tolleranza al glucosio.
In conclusione, secondo gli Autori, l’arginina avrebbe spostato la distribuzione dei nutrienti per promuovere il guadagno del muscolo sopra il grasso potendo fornire un trattamento utile per migliorare il profilo metabolico e la riduzione del grasso bianco.
Wu Z della China Agricultural University, Beijing – China e collaboratori, considerando che il tessuto adiposo bruno (BAT) nell'uomo svolge una funzione importante nell’ossidazione degli acidi grassi e del glucosio (Curr Opin Clin Nutr Metab Care. 2012 Nov;15(6):529-38), hanno voluto evidenziare un ruolo importante della L-arginina nella sua regolazione di crescita e sviluppo, rivolta a ridurre l'obesità nei mammiferi. In effetti, la supplementazione dietetica con L-Arginina riduce il tessuto adiposo bianco nei mammiferi obesi, come ratti geneticamente tarati o indotti dalla dieta, pecore gravide ed esseri umani con diabete di tipo 2. Il trattamento con L-arginina migliora la crescita del BAT sia nei feti sia nella fase postnatale. A livello molecolare e cellulare la L-arginina stimola l'espressione della proliferazione dei PGC-1α (Peroxisome proliferator-activated receptor gamma coactivator 1-alpha), principale regolatore della biogenesi mitocondriale, dell’ossido nitrico sintasi, dell’eme ossigenasi e dell’adenosina monofosfato protein chinasi attivata. A livello di tutto il corpo la L-arginina aumenta il flusso sanguigno ai tessuti insulino-sensibili, la lipolisi del tessuto adiposo e il catabolismo del glucosio e degli acidi grassi. Invece, inibisce la sintesi degli acidi grassi e modula lo stress ossidativo, migliorando così il profilo metabolico.
In conclusione, gli Autori hanno ribadito che la L-arginina aumenta la crescita del BAT nei mammiferi e il suo sviluppo attraverso meccanismi che coinvolgono l'espressione genica, la segnalazione dell’ossido di azoto e la sintesi proteica. Tutto ciò aumenta l'ossidazione dei substrati energetici e, quindi, riduce il deposito di grasso bianco nel corpo. La L-arginina si presenta, così, come un fattore molto promettente nella prevenzione e nel trattamento dell'obesità dell’uomo.


La nicotina da solanacee commestibili e rischio di malattia di Parkinson

La nicotina è un composto organico, alcaloide parasimpaticomimetico, piuttosto tossico che a dosi di 30–60 mg (0.5-1.0 mg/kg) può risultare fatale per l'uomo. La sua azione si attua come agonista nicotinico per il recettore dell'acetilcolina. Rappresenta, invero, una difesa biologica dei vegetali contro gli animali erbivori.  La nicotina è presente caratteristicamente nella pianta del tabacco, ma anche in altre solanacee. La sua biosintesi avviene nelle radici e trasferita alle foglie dove si accumula. In effetti, anche se presente in tutte le parti, le foglie sono la sede di massima concentrazione della sostanza nella pianta arrivando a costituire circa lo 0,3 - 5% del suo peso secco. Come detto, la nicotina si ritrova oltre alla pianta del tabacco anche in altre solanacee anche se in quantità minori. È presente, difatti, nel pomodoro, nella patata, nella melanzana e nel peperone.
La ricerca ha costantemente dimostrato un'associazione inversa tra il PD (Parkinson's disease) e l'uso del tabacco. In effetti, è stato rilevato che i fumatori di tabacco inveterati presentavano minori probabilità di sviluppare la malattia. Inoltre, alcuni studi sperimentali su animali hanno anche indicato una certa proprietà protettiva della nicotina sui neuroni. Tuttavia, agli studiosi non è ancora chiaro se la nicotina o qualcos'altro nel tabacco sia in realtà l’agente protettivo o se, invece, il tutto dipenda da una predisposizione individuale. Peraltro, altri studi, suggerirebbero che il fumo passivo possa essere associato a un ridotto rischio di PD.
Susan Searles Nielsen dell’University of Washington – USA e collaboratori hanno voluto verificare se il rischio di malattia di Parkinson (PD) fosse associato con il consumo di commestibili contenenti nicotina dalla stessa famiglia botanica delle solanacee del tabacco, tra cui i peperoni, i pomodori e le patate (Ann Neurol. doi: 10.1002/ana.23884). Gli Autori hanno, così, arruolato 490 casi di nuova diagnosi di PD idiopatica diagnosticati nel 1992-2008 presso l'Università di Washington e 644 controlli neurologicamente normali, non imparentati, verificando se il PD fosse associato con la frequenza tipica, auto-segnalata del consumo di peperoni, pomodori freschi o succo e patate durante l'età adulta, con aggiustamento per il consumo di altre verdure, età, sesso, razza / etnia, uso del tabacco e caffeina. Il PD era inversamente associato al consumo combinato di tutte le solanacee commestibili (rischio relativo [RR] = 0,81, intervallo di confidenza [IC] 95% = 0,65-1,01 per frequenza giornaliera), ma non al consumo di tutte le altre verdure combinate (RR = 1.00, IC 95% = 0,92-1,10). La tendenza si rafforzava quando si ponderava la concentrazione di nicotina nelle solanacee commestibili (P per la tendenza = 0,004). Un'associazione inversa era evidente in modo particolare anche per i peperoni (P per la tendenza = 0.005). Il potenziale effetto protettivo delle solanacee commestibili in gran parte si verificava in entrambi i sessi se non avevano mai usato il tabacco o non fumavano sigarette almeno da dieci anni.
In conclusione, secondo gli Autori, la nicotina negli alimenti o altre componenti del tabacco e dei peperoni avrebbero potuto ridurre il rischio di malattia di Parkinson.


Moderazione nella dieta e disturbi dell’alimentazione nei vegetariani

C. Alix Timko della Towson University, USA e collaboratori sulla base dell’ipotesi che l'aderenza a una dieta vegetariana possa essere un fattore d’insorgenza e di mantenimento di disturbi alimentari comportamentali, hanno valutato due studi cercando di affrontare le cause dei risultati inconsistenti nelle ricerche precedenti, tra cui: i piccoli campioni dei veri vegetariani, la mancanza di adeguate definizioni operative di vegetarianismo e l'incertezza circa l'adeguatezza delle attuali valutazioni del comportamento alimentare per i semi-vegetariani (Appetite, Vol. 58, Issue 3, June 2012, Pages 982–990). Lo studio uno valutava i comportamenti alimentari del più grande campione di veri vegetariani e di vegani confermati censito fino ad oggi confrontandolo con i semi-vegetariani e gli onnivori. I semi-vegetariani riportavano i più alti livelli di patologie correlate all’alimentazione. I veri vegetariani e i vegani sembravano, invece, i più sani nei riguardi del peso e del mangiare. Lo studio due esaminava le differenze tra i semi-vegetariani e gli onnivori nei termini della moderazione e dei disordini alimentari e nei semi-vegetariani trovava scarse prove per maggiori patologie correlate al mangiare rispetto agli onnivori. Peraltro, i punteggi più alti sulle valutazioni tradizionali dei comportamenti alimentari dei semi-vegetariani apparvero artificialmente gonfiati dall’esame degli elementi di valutazione per evitare gli alimenti specifici considerati normativi nel contesto di una dieta vegetariana. Nella prima ricerca, comunque, i risultati mettevano in luce le fonti d’incongruenze sui comportamenti alimentari dei vegetariani e suggerivano che il semi-vegetarianismo, al contrario del vero o del veganismo, è quello più probabilmente correlato ai disturbi alimentari.


La dieta a basso indice glicemico può invertire la disfunzione diastolica del diabetico

La complicanza più grave del diabete mellito è la malattia coronarica (CAD) che si verifica spesso con una sottile, iniziale disfunzione miocardica solo in diastole prima del quadro patologico conclamato. Proprio in ragione dell’accumulo delle evidenze sulla presenza di tale condizione prevalentemente nei diabetici senza malattia ischemica o valvolare o ipertensiva è stata proposta la definizione nosografica di una specifica cardiomiopatia diabetica. Peraltro, più recentemente è stato anche dimostrato un aumento della sua prevalenza nella sindrome metabolica.
La precocità della disfunzione diastolica subclinica è stata riconosciuta solo recentemente e, rimuovendola dall’originario ruolo di condizione benigna, è stato apprezzato il suo valore predittivo per l'insufficienza cardiaca diastolica. Di fatto, oggi la disfunzione diastolica è considerata la caratteristica più importante della cardiomiopatia diabetica e l’insufficienza cardiaca è ormai riconosciuta la più comune causa di morte (66%) dopo il primo infarto miocardico. Pur tuttavia, non c'è ancora un consenso nei riguardi dei criteri diagnostici definitivi con l’ecocardiografia tradizionale e le tecniche doppler. Inoltre, mancano precise indicazioni della medicina basata sull'evidenza sulla terapia specifica sia per la disfunzione diastolica in generale sia per quella diabetica in particolare.
Ora, comunque, ci sono prove indiscutibili per affermare l'alta prevalenza della disfunzione miocardica diastolica nei soggetti di età superiore ai sessantacinque anni. Essa può essere stimata nella popolazione generale intorno al 16%, ma se vi è la sindrome metabolica sale al 35%, se il prediabete e il diabete conclamato di tipo 2 al 50%, se la malattia coronarica al 60%, ma nei casi di CAD con diabete al 70%. Da notare che una disfunzione miocardica diastolica con una frazione di eiezione ventricolare sinistra normale è clinicamente importante perché rappresenta circa il 50% di tutti i ricoveri ospedalieri per insufficienza cardiaca acuta. Per il singolo paziente, comunque, la disfunzione diastolica e lo scompenso cardiaco diastolico significano una qualità di vita alterata, indotta dal deterioramento della capacità di esercizio fisico che limita le attività della vita quotidiana. In effetti, i pazienti con diabete e con sindrome metabolica presentano spesso una dispnea da sforzo e una ridotta tolleranza all'esercizio, dovute direttamente alla disfunzione diastolica miocardica. Peraltro, le anomalie del rilassamento miocardico, cioè relative alla disfunzione diastolica di grado uno, determinano un raddoppio del rischio della mortalità per tutte le cause e per le malattie cardiache. Tutte queste condizioni hanno portato all’aumento di attenzione e consapevolezza sull’insufficienza cardiaca diastolica con una normale frazione di eiezione.
La Società Europea di Cardiologia ha indicato tre condizioni obbligatorie per la diagnosi d’insufficienza cardiaca diastolica, che comprendono:
1) segni e sintomi clinici d’insufficienza cardiaca congestizia,
2) funzione ventricolare sinistra sistolica normale o solo lievemente anormale,
3) evidenza di disfunzione diastolica, come dimostrato dal rilasciamento ventricolare sinistro anomalo, dal riempimento diastolico, dalla distensibilità o dalla rigidità in aggiunta ai livelli elevati del BNP.
Molti possibili meccanismi che coinvolgono la regolazione della disponibilità dell’energia nei diabetici non complicati di tipo 2 sono stati già dimostrati, come le anomalie della segnalazione dell'insulina e l’aumento della produzione delle specie reattive dell'ossigeno. Da un canto, gli effetti indiretti possono implicare la sottoregolazione della perfusione per induzione della disfunzione endoteliale. Dall’altro canto, gli effetti diretti sui cardiomiociti risultano in un’alterata produzione di energia mitocondriale da rifornimento e utilizzo del substrato alterato con disaccoppiamento mitocondriale, che riduce l'efficienza cardiaca e altera la segnalazione dell'insulina. Quest'ultima svolge un ruolo chiave nella resistenza all'insulina, riducendo la biodisponibilità di ossido nitrico, alterando la disponibilità di calcio con danno e disfunzione mitocondriale che si conclude con l’anormale rimodellamento cardiaco e la disfunzione ventricolare. Vi è a tal proposito un numero crescente di rapporti che dimostrano la correlazione positiva tra l’iperglicemia diabetica con disfunzione miocardica per cui il buon controllo metabolico assume importanza nel ridurre il rischio dell’insufficienza cardiaca. In altri termini, il miglioramento della funzione diastolica correla con il grado del buon controllo della glicemia.
A parte la possibilità di rilevare le modifiche diagnostiche istologiche e molecolari nel miocardio diabetico vi è una crescente evidenza che la disfunzione miocardica diastolica e quella sistolica possono essere e dovrebbero essere regolarmente quantificate dal doppler tissutale. Rimangono, però, controverse le problematiche concernenti la diagnosi non invasiva della disfunzione ventricolare di tipo diastolico poiché non è stato ancora individuato un criterio universalmente riconosciuto che ne permetta la diagnosi in maniera sensibile e sufficientemente semplice da applicare alla pratica clinica. Oggi giorno si adottano generalmente i criteri ecocardiografici indicati dal documento di consenso del 2007 di un gruppo di esperti della Società Europea di Cardiologia (Paulus WJ e coll. Eur Heart J 2007; 28:2539-50) o quelli pubblicati più recentemente dalla Società Americana di Ecocardiografia (Nagueh SF e coll. J Am Soc Echocardiogr 2009; 22:107).
In definitiva, l’ecocardiogramma allo stato attuale rappresenta il test di elezione per la diagnosi della disfunzione ventricolare sinistra diastolica asintomatica. Esso, però, è un esame costoso che richiede competenza ed esperienza professionale per cui non è prontamente disponibile in forma routinaria. Pertanto, le condizioni di costo-efficace ne sconsigliano l’uso nello screening di massa per la bassa prevalenza della disfunzione nella popolazione generale. Nei casi di fattori di rischio aggiuntivi definiti nella preselezione clinica, supportata dall’elettrocardiogramma e dal dosaggio dei peptidi natriuretici dei pazienti, può essere eseguito a conferma dei dati. In tal caso, il propeptide natriuretico cerebrale N-terminale (NTproBNP) sembra offrire maggiori prerogative di validità diagnostica.
I diabetici, quindi, in modo simile a chi è affetto da fattori di rischio cardiovascolare, dimostrano maggiore possibilità di una concomitante disfunzione diastolica ventricolare sinistra preclinica che suole associarsi a un aumento del rischio di scompenso, di fibrillazione atriale e di morte. Pur tuttavia, la disfunzione ventricolare sinistra diastolica asintomatica nella pratica clinica corrente è spesso sotto diagnosticata e sotto-trattata. Peraltro studi clinici hanno documentato l’efficacia dei betabloccanti e degli inibitori dell’enzima di conversione dell’angiotensina nel rallentare la progressione verso lo scompenso cardiaco conclamato e nel ridurre la mortalità. Importante, a tal fine, risulta l’identificazione precoce della patologia nei pazienti senza evidenti sintomi come premessa di prevenzione della successiva progressione verso lo scompenso di circolo. Ne deriva da tutto ciò il monito imperativo di verificare nel diabete di prima diagnosi la presenza di uno o più fattori di rischio aggiuntivi, come l’obesità, l’ipertensione e le dislipidemie, che sogliono peggiorare la prognosi imponendo una strategia terapeutica globale, per la quale il compenso metabolico resta l’obiettivo centrale. Alla presenza di un’alta glicemia a digiuno è consigliabile l’uso tempestivo d’insulina. Oggi giorno gli analoghi dell'insulina ad azione ritardata permettono un controllo glicemico efficace e prolungato e di superare in parte il problema dell’ipoglicemia notturna. La glargine trova particolare indicazione nei casi di elevati dosaggi d’insulina basale in concomitanza dell’insulino-resistenza e dell’obesità. In effetti, la mono somministrazione giornaliera di glargine ha dimostrato maggiore efficacia del detemir, che richiede dosaggi maggiori bi quotidianamente. Se si verificano ampie variazioni glicemiche postprandiali con aumenti dell'HbA1c, è consigliabile introdurre l'insulina anche in fase di pranzo oppure un incretino-mimetico ad azione rapida, come il Glp-1Ra iniettabile o l’inibitore Dpp-4 per via orale. Tale raccomandazione assume valore soprattutto per evitare incrementi ponderali e/o per cercare di conservare la funzione beta-cellulare residua.
Helene von Bibra dellaTechnical University Munich – Germany e collaboratori, proprio sulla base che molti pazienti con insulino-resistenza, con diabete, o con entrambi hanno una disfunzione diastolica subclinica che peggiora la prognosi se diventa sintomatica, hanno studiato trentadue pazienti diabetici in sovrappeso o obesi con indice medio di massa corporea, trentaquattro, senza malattia cardiaca, in cui circa il 65% aveva anormale funzione diastolica come definito ecocardiograficamente dalla bassa velocità miocardica diastolica precoce (Prediabetes and the Metabolic Syndrome 2013 Congress; April 19, 2013; Vienna, Austria. Abstract 852).

I pazienti, impegnati in un programma di riabilitazione al fine di perdere peso, comprendente anche due ore il giorno di esercizio supervisionato aerobico, erano suddivisi in due gruppi di pari numero e sottoposti per tre settimane a due regimi dietetici di uguali calorie. Il primo seguiva una dieta a basso indice glicemico con il 25% di carboidrati, il 45% di grassi e il 30% di proteine. L'altro era sottoposto a una dieta a basso contenuto di grassi con il 55% di carboidrati, il 25% di grassi e il 20% di proteine. Il gruppo della dieta povera di grassi commutava in seguito per altre due settimane la dieta con quella a basso indice glicemico. Congiuntamente erano valutati tutti i giorni, prima e dopo una colazione da 400 kcal, la funzione cardiaca con ecocuore e i parametri metabolici. I pazienti del primo gruppo con dieta a basso tenore di carboidrati dopo tre settimane riducevano dell’86% l'uso dei tradizionali farmaci antidiabetici orali. Quelli della dieta povera di grassi li riducevano, invece, nello stesso periodo solo del 6%. Peraltro, si otteneva negli stessi un’altra riduzione del 57% alla fine della loro fase di dieta a basso indice glicemico di due settimane. Inoltre, dopo tre settimane nel gruppo della dieta a basso indice glicemico la pressione arteriosa sistolica media calava da 127 mmHg a 118 mmHg (p <0,002). Anche la pressione diastolica subiva una diminuzione (p <0,04).


Raccomandazioni dietetiche europee e dell’Istituto Nazionale di Ricerca per gli Alimenti e la Nutrizione

In Europa le malattie non trasmissibili legate alla dieta e allo stile di vita, come l'obesità, le malattie cardiache, il diabete e il cancro, costituiscono da qualche tempo i principali problemi di salute pubblica. Orbene sembra ormai appurato che queste condizioni possono derivare in parte da un eccesso di assunzione dei nutrienti calorici, come pure da una carenza di alcuni micronutrienti.
Pertanto, dietro la scorta di questa premessa, quasi tutti i paesi europei hanno sentito la necessità di sviluppare le FBDG (Food-Based Dietary Guidelines), basate sul principio di fornire una guida per una dieta sana e bilanciata di aiuto a mantenere il benessere. Tutte le raccomandazioni comuni includono, comunque, il consumo di molta frutta, verdura e carboidrati complessi, scegliendo alimenti con scarsità di grassi saturi, di sale e di zucchero. Pur tuttavia, le linee guida dietetiche tendono a concentrarsi sui rapporti tra la dieta e le malattie di particolare rilevanza per una specifica popolazione. In questo contesto, nella maggior parte degli Stati membri dell'UE il sovrappeso e l'obesità, le malattie cardiovascolari, il cancro, l'ipertensione, la dislipidemia, il diabete di tipo 2 e l'osteoporosi possono considerarsi gli importanti problemi di salute pubblica relativi alla dieta. Però, la prevalenza di queste condizioni varia notevolmente da paese a paese. In effetti, per le popolazioni europee è stato anche identificato un certo numero di sostanze nutritive per le quali vi è evidenza di squilibrio dietetico che potrebbe influenzare lo sviluppo delle condizioni patologiche. Si tratta, invero, di sostanze nutritive consumate in quantità eccessive con sproporzione di riserva energetica, come i grassi totali, gli acidi grassi saturi e trans, gli zuccheri e il sale. Potrebbe trattarsi, al contrario, di alimenti il cui apporto potrebbe essere inadeguato, come gli acidi grassi insaturi, le fibre alimentari, l’acqua, la vitamina D, l’acido folico, il potassio, il calcio, il ferro, lo iodio. Il verificarsi di tali squilibri nutrizionali varia da paese a paese e le differenze richiedono che le linee guida dietetiche su base alimentare debbano essere stabilite localmente.
In Italia l'INRAN (Istituto Nazionale di Ricerca per gli Alimenti e la Nutrizione) è l’unico ente le cui attività di ricerca, formazione e divulgazione sono rivolte allo studio dei cibi e del loro ruolo nel mantenimento della salute e nella prevenzione del rischio di malattie correlate all’alimentazione. È un ente pubblico di ricerca sottoposto alla vigilanza del Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali. L’INRAN pubblica periodicamente linee guida per una sana alimentazione italiana, prodotte da un gruppo di esperti al fine di suggerire i comportamenti che si riferiscono a:
1. controllare il peso e mantenersi sempre attivi,
2. consumare più cereali, legumi, ortaggi e frutta,
3. scegliere la qualità e limitare la quantità dei grassi,
4. mantenere nei giusti limiti  gli zuccheri, i dolci e le bevande zuccherate,
5. bere ogni giorno acqua in abbondanza,
6. usare poco sale,
7. controllare la quantità delle bevande alcoliche,
8. variare spesso le scelte a tavola,
9. seguire consigli speciali per delle condizioni speciali,
10.ricordare che la sicurezza dei cibi dipende anche da chi li consuma.


Aderenza alle raccomandazioni dietetiche europee e rischio di cancro del colon-retto

Turati F dell’Università degli Studi di Milano – Italy e collaboratori, riferendosi alla recente pubblicazione dell’EFSA sulle linee guida dietetiche per le assunzioni dei carboidrati, delle fibre, dei grassi e dell’acqua, hanno voluto valutare il loro ruolo sul rischio del cancro colorettale (CRC), noto per essere legato alla dieta (Eur J Clin Nutr. 2012 Apr;66(4):517-22). La predisposizione al tumore è incrementata, peraltro, dalla presenza dell’iperinsulinemia, che può stimolare direttamente la crescita neoplastica dei tessuti e che è favorita dalle diete a basso contenuto di fibre e abbondanti, invece, in carni e grassi. Gli Autori hanno, così, utilizzato i dati di uno studio italiano caso-controllo, su 1.953 malati e 4.154 controlli, raccolti nelle regioni dell’Italia settentrionale tra il 1992 e il 1996. Hanno, di poi, sviluppato un cosiddetto indice EFSA sommando un punto per l'adesione a ciascuna linea guida dell'EFSA per le seguenti categorie di nutrenti: carboidrati, grassi totali, acidi grassi essenziali omega-6. L’odds ratio (OR) e gli intervalli corrispondenti di confidenza al 95% (CIS) di CRC e i relativi siti secondari erano ricavati dai molteplici modelli incondizionati di regressione logistica, sia per l'indice sia per i suoi componenti. Quando ogni componente dell'indice EFSA era analizzato separatamente, si riscontrava, per la non aderenza alle linee guida riguardo agli acidi grassi linoleico (OR = 1.20, IC 95%, 1,07-1,36) e alfa-linolenico (OR = 1.19, IC 95%, 1,06-1,34), un significativo aumento del rischio di CRC. Quando, però, tutte le linee guida erano incluse nello stesso modello, non emergeva alcuna associazione significativa. Rispetto al minimo dell'aderenza, gli OR di CRC per i successivi punteggi dell'indice dell'EFSA erano 1,03 (IC 95%, 0,72-1,47), 1,05 (95% IC, 0,75-1,48), 1,04 (95% IC, 0,81-1,60), 0,99 (95% IC, 0,69-1,43) e 1,04 (95% IC, 0,67-1,61). Nessuna associazione significativa emergeva sia tra i maschi e le femmine e sia per il cancro del colon e per quello del retto considerati separatamente.
In conclusione, nella popolazione studiata non si riscontrava, rispetto al globale delle linee guida dietetiche dell'EFSA, un’associazione con il cancro del colon-retto. L’aderenza alle linee guida nei riguardi degli acidi grassi linoleico e alfa-linolenico poteva, però, far emergere un ruolo benefico modesto sul rischio di CRC. Tale dato suggeriva, in definitiva, che la malattia potesse essere prevenuta solo parzialmente attraverso la dieta.


Carico glicemico e recidiva/sopravvivenza nei pazienti con tumore del colon

Nonostante i progressi nello screening e nella prevenzione, nella diagnosi precoce, nella terapia adiuvante e nel trattamento della malattia metastatica, nelle società economicamente avanzate il cancro del colon-retto rimane la seconda causa di morte.
Negli Stati Uniti si contano circa 143.000 casi con 52.000 decessi attesi nel 2012. È ben noto che i tumori del colon-retto sono molecolarmente eterogenei, derivanti da diversi percorsi, essendo ogni tumore caratterizzato da tutta una serie di cambiamenti genetici.  Quando confinato all'intestino e ai linfonodi regionali, il cancro colorettale è altamente curabile con una combinazione di terapie locali, affidate soprattutto alla chirurgia e alla radioterapia, e sistemiche. Tra i pazienti con tumore del colon in stadio III, circa il 70% può essere curato con la chirurgia seguita dalla chemioterapia adiuvante.
Jeffrey A. Meyerhardt della Dana-Farber Cancer Institute, Boston – USA e collaboratori, per meglio chiarire l'influenza del carico glicemico sulle relative misure di sopravvivenza nei pazienti affetti da cancro del colon, hanno condotto uno studio prospettico osservazionale su 1.011 malati in stadio III con segnalazione della dieta alimentare durante i sei mesi dopo la partecipazione a una prova di chemioterapia adiuvante (JNCI J Natl Cancer Inst (2012) doi: 10.1093/jnci/djs399). In particolare, gli Autori hanno esaminato con i rischi proporzionali di regressione di Cox l'influenza del carico glicemico, dell’indice glicemico, del fruttosio e dell’assunzione dei carboidrati sulla ricorrenza del cancro e sulla mortalità.
I pazienti, affetti da cancro del colon in fase III del quintile più alto di carico glicemico alimentare, sperimentavano un hazard ratio (HR) per la sopravvivenza libera da malattia di 1.79 (95% intervallo di confidenza [IC] = 1,29-2,48), rispetto a quelli nel quintile più basso (p attraverso i quintili <.001). L’aumento del carico glicemico si associava a svantaggi simili nei riguardi del periodo libero da recidiva (p attraverso i quintili <0,001) e della sopravvivenza globale (p attraverso i quintili <.001). Queste associazioni differivano statisticamente e significativamente in rapporto all'indice di massa corporea (BMI) (p per l’interazione = 0,01). Invece, il carico glicemico non correlava con la sopravvivenza libera da malattia nei pazienti con BMI <25kg/m2, mentre il più alto carico glicemico era statisticamente e significativamente associato a peggiore sopravvivenza libera da malattia tra i partecipanti in sovrappeso o obesi (BMI ≥ 25kg/m2; HR = 2.26; 95 % IC = 1,53-3,32; p attraverso i quintili <.001). L’aumento dell'assunzione totale dei carboidrati era analogamente associato a un tasso inferiore libero da malattia, da recidiva e a un’inferiore sopravvivenza globale (p attraverso i quintili <.001).
In conclusione, il carico glicemico della dieta superiore e l’assunzione totale di carboidrati erano statisticamente e significativamente associati a un aumentato rischio di recidiva e di mortalità nei pazienti con tumore del colon in stadio III. Questi risultati, secondo gli Autori, avrebbero supportano il ruolo dei fattori di equilibrio energetico nella progressione del cancro del colon, potendo offrire potenziali opportunità per migliorare la sopravvivenza del paziente.


Alimentazione, composizione corporea e malattia arteriosa periferica

Diana P. Brostow dell’University of Minnesota – USA e collaboratori, considerando che i dati disponibili suggerivano che le strategie di trattamento su base nutrizionale avevano il potenziale sostanziale per ridurre l'onere dei costi economico-sociali della malattia arteriosa periferica (PAD), hanno voluto ribadire i risultati degli studi prospettici e trasversali sull’associazione tra obesità addominale e PAD, relativa alla bassa assunzione dei folati e alla riduzione della sintesi di vitamina D (Nat Rev Cardiol. 2012 Nov;9(11):634-43). Peraltro, uno scarso numero di studi clinici aveva dimostrato che nei pazienti con PAD l'aumento di assunzione di niacina e delle fibre insolubili si potesse associare a una diminuzione dei livelli del colesterolo LDL e dei biomarcatori trombogenici, così come a un aumento dei livelli sierici del colesterolo HDL.
La vitamina B12 e il 5-metiltetraidrofolato, substrato dei folati, sono cofattori per la metionina sintetasi che catalizza la conversione dell’omocisteina in metionina. La carenza di queste sostanze potrebbe, quindi, produrre un disturbo nell’omeostasi dell’omocisteina con suo conseguente accumulo e, quindi iperomocisteinemia e aumento del rischio di PAD. La metilenetetraidrofolato reduttasi è necessaria per la conversione dei substrati dei folati. La variante Cys667Thr dell'enzima ha un’efficienza catalitica ridotta, per cui la sua presenza potrebbe portare anche alla rottura dell’omeostasi dell’omocisteina e possibilmente aumentare il rischio di PAD. Tale malattia, com’è ben noto, è causa del dolore e del disagio del cammino PAD con limitazione della capacità di autonomia del paziente che incrementa le sue abitudini sedentarie con confinamento in casa o in istituto. Questo stile di vita, a sua volta, riduce la frequenza e la durata dell’esposizione al sole con possibile produzione di un circolo vizioso di auto-rafforzamento della carenza della vitamina “D”. Risulterebbe, così, una più accentuata anomalia nell’assorbimento del calcio, un più accentuato iperparatiroidismo con un più spiccato dolore e disagio alle gambe. La carenza di vitamina D, causata dall’inadeguata esposizione solare, dalla deficiente dieta alimentare, o da entrambi, potrebbe essere causa, peraltro, degli aberranti percorsi del metabolismo del calcio e della mineralizzazione delle ossa. Queste irregolarità possono portare anche ad alterazioni nella funzione delle cellule della muscolatura liscia arteriosa e promuovere la deposizione di calcio sulle pareti arteriose con consequenziale rigidità e aumento del rischio di aterosclerosi.
Tuttavia, poche prove esistono riguardo al miglioramento di questi pazienti con gli antiossidanti, le vitamine B 6 e B 12, o gli integratori degli acidi grassi essenziali. Nel complesso, sono scarsi i dati degli effetti della nutrizione e la composizione corporea sul rischio, la progressione e la prognosi della PAD.


Carne, pesce e rischio di cancro esofageo

Il cancro dell’esofago mantiene l’ottavo posto nella classifica di maggiore frequenza delle neoplasie maligne nel mondo e il sesto per la mortalità. Pur tuttavia, con l’avanzare delle conoscenze e dei progressi tecnologici nella diagnosi e nella terapia si sono segnati soddisfacenti miglioramenti. Comunque, la diagnosi precoce rimane ancora difficile e il tasso di sopravvivenza a un anno è sempre basso, rimanendo poco sopra del 10%. Gli studiosi, sulla scorta di tali dati, continuano a protendere i loro sforzi per identificare i fattori di rischio modificabili che possono intervenire a modificare lo sviluppo del tumore esofageo e che potrebbero, se combattuti con efficacia, abbassarne la frequenza. L’indice di massa corporea, l'età, il fumo e l’abuso di alcol sono alcuni tra essi, con ben riconosciuta associazione con i due principali tipi istologici più comuni del cancro esofageo, cioè l’adenocarcinoma (EAC) e il carcinoma a cellule squamose (ESCC). A tale proposito, bisogna ricordare che la carne rossa, contenendo molto più ferro emoglobinico della carne bianca. Ha la proprietà di alterare il rivestimento epiteliale del tratto digestivo producendo a lungo termine un danno cellulare. Inoltre, la cottura ad alte temperature, favorendo la formazione di sostanze cancerogene, come le ammine eterocicliche mutagene e gli idrocarburi policiclici aromatici, contribuisce, di certo, anch’essa allo sviluppo del cancro.
Maryam Salehi della Mashhad University of Medical Sciences, Mashhad – Iran e collaboratori, pur essendo ben definiti i fattori di rischio per l’ESCC (esophageal squamous cell carcinoma) e per l’EAC (esophageal adenocarcinoma), hanno considerato ancora non ben chiaro il ruolo della dieta. Hanno, così, compiuto uno studio bibliografico dal 1990 al 2011 sulle associazioni di rischio del cancro esofageo (CE) e il consumo di diversi tipi di carne e pesce (Nutrition Reviews Vol. 71, Issue 5, pages 257–267, May 2013). Gli Autori hanno condotto un’analisi dei sottogruppi sulla base del sottotipo istologico, del disegno dello studio e della nazionalità. Hanno, quindi, identificato quattro coorti e trentuno studi caso-controllo. Il rischio relativo complessivo (RR) di CE e gli intervalli di confidenza (IC), per i gruppi con il più alto rispetto ai più bassi livelli di assunzione, sono stati i seguenti: 0.99 (IC 95%: 0,85-1,15) per le carni totali; 1.40 (IC 95 %: 1,09-1,81) per la carne rossa, 1,41 (IC 95%: 1,13-1,76) per le carni trasformate; 0,87 (IC 95%: 0,60-1,24) per il pollame e 0,80 (IC 95%: 0,64-1,00) per il pesce. Le persone con i più alti livelli di assunzione di carne rossa avevano un rischio significativamente aumentato di ESCC. L'assunzione di carni lavorate è stata associata a un aumentato rischio di EAC.
Questi risultati suggerivano che i bassi livelli di consumo delle carni rosse e lavorate, per esempio i salumi, e i più elevati livelli di assunzione di pesce potevano ridurre il rischio CE.


Il decalogo alimentare dell’ANDID (Associazione Nazionale Dietisti)

I dietisti dell'ANDID nel loro 25° congresso nazionale di Firenze del maggio 2013 hanno affrontato il problema dell’alimentazione anche nei riguardi del risparmio in questi tempi di crisi economica. Risparmio, in effetti, significa usare attenzione e competenze per un consumo alimentare basato sulla varietà e per la scelta di cibi salutari. Sulla scorta delle evidenze cliniche, bisogna favorire il consumo alimentare dei prodotti ortofrutticoli, riducendo i derivati animali, pur mantenendo le fonti di gran valore nutritivo e di costo limitato, come latticini, formaggi e uova.  Va incoraggiato il consumo di acqua di rubinetto, come fonte principale per l’idratazione. Va, peraltro, combattuto in ogni modo lo spreco.
Su tali basi sono state proposte dieci semplici regole per un’alimentazione sana e sostenibile, sia per il pianeta e sia per il portafoglio.
Il decalogo è così composto:

1) Distribuire l’assunzione degli alimenti in regolarmente in almeno tre pasti il giorno.

2) Preferire alimenti, vegetali stagionali, come frutta, verdura, legumi e cereali, possibilmente di produzione locale e ripartiti in cinque porzioni giornaliere.

3)Inserire a ogni pasto principale almeno una porzione di cereali e derivati, come pane, pasta, riso, mais, patate, dando la preferenza ai prodotti integrali e con scarsità di grassi.

4) Non eccedere nel consumo di prodotti di origine animale, come carne, specialmente lavorata, prodotti lattierocasearii. Privilegiare, comunque, la carne bianca, e soprattutto con il pesce.

5) Consumare almeno due volte a settimana legumi secchi o freschi, come ceci, fagioli, lenticchie, fave, piselli, alimenti che appartengono da sempre alla tradizione gastronomica italiana.
 
6) Usare l’olio extravergine d’oliva, sia per la cottura sia come condimento a crudo.

7) Pianificare, per quanto possibile, il menù settimanale senza farsi influenzare dalle campagne di marketing che tendono spesso a suggerire l’acquisto “conveniente” di alimenti non realmente necessari.

8) Osservare il principio della riduzione, del riuso, del riciclo.
 
9) Bere spesso e ricordare che l’acqua di rubinetto va benissimo.

10) Vivere una vita attiva e proporsi ogni occasione per muoversi di più.