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I target glicemici

Enrico Bologna

 

Specialista in Medicina Interna, Gastroenterologia e Patologia generale.
Già Primario Ospedale Fatebenefratelli, Isola Tiberina, Roma. 
Libero docente in Patologia Medica, Università di Roma “Sapienza”.


Il principale obiettivo perseguito nel trattamento dei pazienti diabetici è quello di ridurre al minimo il rischio di complicazioni micro- e macrovascolari riportando verso la norma i valori glicemici, come anche quelli lipidici e pressori così spesso alterati in questi pazienti.

L’aumento della glicemia costituisce di per sé un fattore di danno biologico poiché favorisce la formazione di ponti intermolecolari tra glucosio e varie molecole mediante una reazione non enzimatica la cui entità è proporzionale alla concentrazione di glucosio, alla permeabilità cellulare ed alla disponibilità di gruppi NH2 liberi. Tale processo, definito “glicazione”, termina con la produzione di sostanze, denominate nell’insieme prodotti finale di glicazione (Advanced Glycation Endproducts, AGE), che modificano la permeabilità cellulare, promuovono la liberazione di citokine, ostacolano la produzione di NO ed alterano le proprietà fisico-chimiche di molte molecole. Fra queste figurano le lipoproteine (delle quali rendono più facile l’ossidazione e quindi la capacità aterogena), alcuni fattori della coagulazione (che vengono attivati), la mielina (di cui è indotta la degenerazione, responsabile del danno neurologico), etc. Dalla proteolisi degli AGE hanno origine gli AGE-peptidi, che svolgono le stesse azioni dannose prodotte dagli AGE ma che risultano elettivamente lesivi per il rene ove inducono alterazioni mesangiali e glomerulosclerosi (8,10,11,19, 26)

Il controllo della glicemia viene effettuato mediante prelievi eseguiti a digiuno e a distanza dai pasti, e -più recentemente- con la misurazione della concentrazione plasmatica di molecole glicate. Fra tali molecole quella di gran lunga più utilizzata è l’emoglobina glicata (HbA1c), i cui valori desiderabili sono stati indicati nelle linee guida delle varie Società interessate allo studio del diabete mellito di tipo 2. Questi valori devono essere inferiori a 7,0% secondo ADA, AMD, SID ovvero pari a 6,5% sec ACE e IDF). I limiti indicati in queste linee guida sono ampiamente conosciuti ed accettati; conseguentemente è diminuito il ricorso alle “classiche” ma molto meno comode misurazioni giornaliere multiple della glicemia.

Il valore di HbA1c può essere utilizzato anche per la diagnosi di ridotta tolleranza glicidica in quanto più semplice e più facilmente ripetibile rispetto al test di tolleranza al glucosio per os, anche se meno sensibile rispetto ad esso (6).

Questo nuovo modo di seguire i pazienti diabetici rende opportuna una riflessione critica sul significato e sul valore di HbA1c, come anche degli altri indicatori della glicemia media.

All’emoglobina contenuta negli eritrociti appena entrati in circolo resta adesa solo una minima quantità di glucosio. Successivamente, l’elevata permeabilità della membrana eritrocitaria facilita l’ingresso del glucosio plasmatico nelle emazie, ove esso si lega in modo  irreversibile con l’emoglobina; l’entità del fenomeno dipende dalla glicemia media vigente nei 120 giorni di vita degli eritrociti in circolo; la massima correlazione si ha con i valori glicemici delle 8-12 settimane precedenti l’esame (15,16,21,23).

La percentuale di HbA1c, quindi, costituisce un indice indiretto dei valori glicemici, ma anche un indice diretto dell’entità delle alterazioni che il processo di glicazione provoca atraverso gli AGE su molte altre molecole. Va però precisato che l’aumento degli AGE è particolarmente elevato in corrispondenza dei picchi glicemici, la cui entità e frequenza non può essere desunta dai valori di HbA1c (14).

Benché la standardizzazione internazionale del dosaggio di HbA1c abbia ridotto gli errori di misurazione, altri errori sono possibili per vari fattori biologici. Il più importante fra questi è rappresentato da variazioni del tempo di permanenza in circolo delle emazie. Quando, per deficit di ferro, Vit. B12 o Acido folico la produzione degli eritrociti è rallentata, la prevalenza di eritrociti vecchi determina falsi aumenti di HbA1c; il fenomeno opposto si ha quando il turnover eritrocitario è accelerato come nelle emolisi o in corso di trattamento di una anemia con ferro, Vit. B12,  Acido folico o Eritropoietina (3,18,20). Valori falsamente elevati possono aversi in pazienti con insufficienza renale se il metodo utilizzato per la misura di HbA1c è sensibile alla interferenza da parte di emoglobina carbamilata, prodotta in presenza di urea in eccesso. Alcuni metodi di dosaggio, infine, danno luogo a valori falsamente elevati in soggetti con emoglobinopatie (HbF, HbS).

Come accennato, la misura della concentrazione plasmatica di molecole glicate non si limita all’emoglobina ma riguarda anche altre sostanze che possono essere utilizzate per conoscere la glicemia media di un determinato periodo. Rientrano fra queste albumina, Fruttosamina e  1,5-Anidroglucitolo.

L’albumina glicata (Glycated Albumin, GA), avente emivita 2-3 settimane, può fornire indicazioni utili in tutte le condizioni richiedenti un controllo ravvicinato delle glicemie come nel diabete gestazionale,  nelle coronaropatie e nell’ emodialisi, condizioni in cui però non può sostituire completamente l’automonitoraggio circadiano della glicemia.Rispetto a HbA1c, GA appare inoltre più strettamente correlata ai picchi glicemici ed è perciò considerata un miglior indice di rischio micro- e macrovascolare; l’attendibilità dell’esame è però ridotta in caso di anomalie del turnover alluminico (22).

 Con il nome di Fruttosamina si indicano una serie di ketoamine facenti parte degli AGE. Alcuni dei metodi utili per dosare la Fruttosamina sono più economici e più semplici rispetto a quelli utilizzati per  HbA1c, con la quale vi è una buona correlazione. La misurazione di Fruttosamina, peraltro, presenta una maggiore variabilità intraindividuale e soprattutto, per il più rapido turnover delle proteine interessate (la cui emivita è in media pari a 28 giorni), è correlata alla glicemia media degli ultimi 10-15 giorni. Il dosaggio stesso, inoltre, è influenzato dalla concentrazione e dal turnover dell’albumina plasmatica (9).

1,5-Anidroglucitolo (1,5-AG) è un poliolo di origine alimentare che nel soggetto normoglicemico viene filtrato dal glomerulo e completamente riassorbito nel tubulo. Il riassorbimento tubulare è inibito competitivamente dal glucosio. L’aumento della glicemia oltre i 180 mg/dL (la cosiddetta soglia renale del glucosio) determina passaggio di glucosio nel tubulo, ove esso ostacola il riassorbimento tubulare di 1,5-AG, di cui  provoca così diminuzione della concentrazione plasmatica;  l’entità di tale riduzione è inversamente proporzionale alla glicemia media delle ultime 24 ore ed è particolarmente sensibile alle iperglicemie postprandiali (7,12).

Il laboratorio offre così quattro metodi che permettono di conoscere la glicemia media: delle ultime 24 ore (1,5-AG), degli ultimi 10-20 giorni (Albumina glicata e Fruttosamina),  e degli ultimi due-tre mesi (HbA1c).

I valori soglia di HbA1c indicati nelle già ricordate linee guida sono stati definiti interpretando i risultati di numerosi studi clinici controllati di cui è opportuno sintetizzare i risultati, iniziando con quelli  relativi al rischio microvascolare.

Lo Studio United Kingdom Prospective Diabetes Study (UKPDS) (24, 25) fu progettato per confrontare l’efficacia del trattamento sul controllo glicemico e sulle complicazioni del diabete in circa 4.000 pazienti con diabete di recente diagnosi, avendo l’obiettivo di raggiungere una glicemia a digiuno pari o inferiore a 108 mg/dL (quando questo studio fu iniziato la determinazione di HbA1c non era ancora diffusamente utilizzata). Un gruppo di pazienti fu posto in trattamento con sola dieta (terapia farmacologica veniva prescritti qualora la glicemia a digiuno fosse superiore a 270 mg/dL). Un altro gruppo fu trattato con una sulfonilurea o con insulina (alla sulfonilurea veniva aggiunta  metformina se la glicemia a digiuno superava 270 mg/dL, e se questo valore non era ottenuto con il trattamento orale veniva aggiunta insulina). I risultati osservati nei successivi 10 anni furono i seguenti: HbA1c risultò in media 7,0% nel gruppo in terapia intensiva e 7,9% nel gruppo in trattamento convenzionale: il rischio di eventi e di morte dipendenti dal diabete risultò inferiore del 12% e rispettivamente del 10% nel gruppo a trattamento intensivo; fu stimato che occorreva trattare 19,6 pazienti per prevenire un singolo evento in un singolo paziente nei 10 anni. La riduzione del rischio risultò significativamente ridotta dal trattamento intensivo solo nei confronti della malattia microvascolare e apparve indipendente dal tipo di trattamento. I pazienti del gruppo in terapia intensiva presentarono maggior frequenza di ipoglicemia e maggior aumento di peso, quest’ultimo solo nei soggetti trattati con insulina (4,13). Dopo il completamento di questo studio nel 1997, tutti i pazienti sopravvissuti (3.277), seguiti dal proprio medico o in ambulatori ospedalieri, senza continuare il trattamento ricevuto durante lo studio  ma solo con l’obiettivo di mantenere glicemie accettabili, furono oggetto di un controllo annuale per cinque anni. All’inizio di questo periodo i valori di HbA1c risultarono migliori nel gruppo che era stato trattato in modo intensivo (7,9 e rispettivamente 8,5%), ma questa differenza dopo un anno era scomparsa e alla fine del periodo i valori erano in entrambi i casi di circa 7,8%; non vi erano differenze significative neppure  relativamente a pressione arteriosa, peso corporeo o lipidi plasmatici. Tuttavia la riduzione del rischio microvascolare rilevato nel gruppo già in terapia intensiva fu mantenuta nell’intero follow-up (mediana di 17 anni).

Analogo vantaggio del trattamento intensivo è stato rilevato in uno studio giapponese su due gruppi di diabetici con e senza microalbuminuria o segni di retinopatia. Dopo 6 anni il valore di HbA1c risultò rispettivamente 7,1% e  9,4% e la progressione della retinopatia e della nefropatia significativamente più lenta nel gruppo in trattamento intensivo (21).

Nello studio ADVANCE circa 5.600 diabetici in trattamento intensivo (HbA1c media 6,5%) presentarono a 5 anni minor rischio di nefropatia rispetto ad un gruppo di circa 5.500 diabetici in trattamento standard (HbA1c media 7,3%); nessuna differenza fu invece notata per la retinopatia (23).

Nello Studio  VATD (Veterans Affaire Diabetes Trial) circa 900 soggetti con diabete di lunga durata dopo una mediana di 5,6 anni di trattamento intensivo (HbA1c 6,9%) non presentarono vantaggi relativamente alla nefropatia né alla retinopatia rispetto ad altrettanti diabetici in trattamento standard (HbA1c 8,4%)(16). Il mancato beneficio del trattamento intensivo in questo studio è stato attribuito alla lunga durata del diabete nei pazienti esaminati ed alla intensa terapia antiipertensiva e ipolipemizzante che ha accompagnato quella ipoglicemizzante.

Per quanto riguarda il rapporto tra controllo glicemico e rischio di danno macrovascolare, questo è stato valutato in tre degli  studi già citati (UKPDS, ADVANCE e VADT ed inoltre nello Studio ACCORD (Action to Control Cardiovascular Risk in Diabetes), in cui 10.250 adulti con diabete noto da dieci anni sono stati trattati in modo intensivo (obiettivo HbA1c ≤ 6%) o standard (obiettivo HbA1c 7,0 – 7,9%) (1,2,17,24). In tutti questi studi l’osservazione protratta fino a 6 anni ha dimostrato che lo stretto controllo glicemico non è in grado di ridurre il rischio di eventi cardiovascolari, ma solo di ritardare la comparsa del’albuminuria e di alcune complicazioni oculari. Nello Studio ACCORD, anzi, il trattamento intensivo fu sospeso dopo 3.5 anni per eccesso di letalità.

Un aspetto molto interessante del rapporto tra i valori di HbA1c e la letalità e il rischio vascolare è emerso da una recente ricerca condotta su due coorti di diabetici adulti (circa 28.000 pazienti in trattamento ipoglicemizzante orale di associazione; circa 20.000 pazienti in trattamento anche con insulina) seguiti dai medici del Servizio Sanitario Britannico. Ad un follow-up medio di 4,5 anni il rischio di morte per tutte le cause di entrambe le coorti ha mostrato una curva di correlazione con i valori di HbA1c a forma di U, con rischio minimo in corrispondenza con HbA1c di circa 7,5%. Questo studio indica che, indipendentemente dal trattamento, il rischio aumenta non solo per valori elevati, ma anche per valori bassi di HbA1c; in particolare, per i diabetici in trattamento anche con insulina il rischio a valori di HbA1c di 6,5% è analogo al rischio correlato ad HbA1c di 10,5% (5).

Dai risultati di questi studi si possono trarre numerose importanti indicazioni di ordine pratico. La prima consiste nella dimostrazione che il mantenimento di HbA1c a valori inferiori a 6,5-7,0% esercita una parziale protezione nei confronti della microvasculopatia e può ridurre gli eventi cardiovascolari e la letalità a lungo termine solo se iniziato in fase precoce; l’efficacia del trattamento intensivo, in questo caso, si mantiene anche quando, a distanza, esso è stato abbandonato. Nei soggetti con diabete presente già da tempo i vantaggi del trattamento intensivo sono modesti o nulli e comunque non bilanciano i rischi di ipoglicemia e le conseguenze dell’aumento del peso corporeo provocato dall’insulina.

L’importante studio di coorte realizzato in Gran Bretagna indica che il valore di HbA1c che si correla con il minor rischio di eventi cardiovascolari e di morte per tutte le cause è compreso tra 7,5% e 8,0%; valori inferiori o superiori sono ugualmente sfavorevoli.

Nei diabetici il trattamento con statine e con antiipertensivi ha un valore nei confronti degli eventi cardiovascolari e della letalità pari o superiore a quello con ipoglicemizzanti: perciò il perseguimento di un target glicemico non accompagnato da un intervento multifattoriale è spesso inutile e talora dannoso.

I target glicemici consigliati dalle linee guida non devono essere generalizzati; in particolare devono essere meno stringenti nei casi di diabete inveterato o di difficile compenso, nei soggetti con limitata aspettativa di vita, nei cardiopatici, nei pazienti con pregresse gravi crisi ipoglicemiche, in presenza di grave danno micro- o macrovascolare, in presenza di gravi comorbilità.

Ma un altro aspetto della possibilità di misurare HbA1c deve essere sottolineato, ed è un aspetto negativo: il rischio, purtroppo non teorico, che la misura dell’emoglobina glicata induca a  ridurre eccessivamente la pratica dell’automisurazione giornaliera multipla della glicemia, certamente meno comoda ma ricca di informazioni che HbA1c non può offrire.

 

Riassunto

La concentrazione plasmatica di emoglobina glicata (HbA1c) esprime la glicemia media delle 8 –12 settimane precedenti il prelievo ed è ampiamente utilizzata, spesso in sostituzione delle automisurazioni multiple della glicemia, per valutare il controllo dei pazienti diabetici. Viene qui discussa la validità a questi fini della misura di HbA1c, come anche quella di altri indicatori della glicemia media (Fruttosamina, 1,5-anidroglucitolo ed Albumina glicata) .

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