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Menopausa, rischio cardiovascolare e terapia ormonale sostitutiva
Menopause, cardiovascular risk and hormonal replacement therapy

Enrico Bologna
Specialista in Medicina Interna, Gastroenterologia e Patologia generale.
Già Primario Ospedale Fatebenefratelli, Isola Tiberina, Roma.
Libero docente in Patologia Medica, Università di Roma “Sapienza”.


Abstract.
In women hypertension and cardiovascular events are more frequent in postmenopausal age. Several observations indicate that postmernopausal blood pressure is lower and cardiovascular events are less frequent in women on hormonal replacement therapy (HRT). In controller studies, on the contrary,  HRT appears to be associated with a significantly greater risk of stroke and of breast cancer.
These conflicting data might be explained by differences between the treatment modalities in the various studies (age of beginning and lenght of treatment, drug composition, oral or transdermal way of administration).
On the basis of actual knowledge HRT is not recommended for the prevention or treatment of postmenopausal cardiovascular diseases. In this condition the common antihypertensives are infìdicated, possibly with some preference for central (Moxonidine) or peripherral (beta-blocker) antiadrenergic drugs, owing the sympathetical hyperactivity typical of postmenopausal state, mainly in his first phase. Between the beta-blocking drugs Nebivolol seems the better choise because of its actvity on vascular estrogen receptors.

Riassunto
Nella donna l’ipertensione arteriosa e gli eventi cardiovascolari sono particolarmente frequenti dopo la menopausa. Da vari studi osservazionali è risultato che  questo rischio è minore nelle donne che seguono un trattamento ormonale sostitutivo. Questi rilievi non hanno però trovato conferma in studi controllati, secondo i quali le donne così trattate presentano un maggior rischio di ictus cerebrale oltre che di neoplasia mammaria.
Questa discordanza può forse essere spiegata da differenze nelle modalità di trattamento adottate nei vari studi (età di inizio e durata del trattamento, sostanze ormonali utilizzate, via di somministrazione orale o transdermica).
Sulla base delle attuali conoscenze la terapia ormonale sostituiva non trova indicazione nella prevenzione  o nel trattamento delle malattie cardiovascolari nella postmenopausa. Per quanto riguarda l’ipertensione, che così spesso si instaura in questo periodo, restano indicati i comuni antiipertensivi, forse con qualche preferenza per le molecole con attività antiadrenergica sia centrale (come Moxonidina) sia periferica (come i beta-bloccanti), data l’iperattività simpatica propria della postmenopausa, soprattutto della sua fase iniziale. Tra i beta-bloccanti Nebivololo potrebbe offrire dei vantaggi, data la sua attività sui recettori estrogenici presenti nei vasi.

 

Nei paesi occidentali le malattie cardiovascolari hanno da tempo raggiunto il primo posto tra le cause di morbilità e di mortalità. Nei confronti queste malattie l’eccesso di rischio attribuibile all’ipertensione arteriosa assume un ruolo di primo piano. Circa l’11% delle morti nei paesi occidentali sono infatti riferibili all’ipertensione arteriosa: questa è ritenuta responsabile di oltre il 50% delle affezioni coronariche e di circa il 75% di quelle cerebrovascolari (18).
Ma la frequenza delle cardiovasculopatie presenta rilevanti differenze in rapporto all’età e al genere. E’ di comune osservazione che la prevalenza delle malattie cardiovascolari nelle donne in età premenopausale è notevolmente inferiore rispetto a quella rilevata negli uomini di pari età (6); ed è altrettanto noto che questa frequenza si riduce fino ad annullarsi nel periodo che segue la manopausa. E’ altresì accertato che la menopausa precoce (naturale o chirurgica) si associa ad un rischio maggiore e/o anticipato di eventi cardiovascolari (33, 37)
Per quanto riguarda la prevalenza dell’ipertensione arteriosa in rapporto all’età ed al genere, i risultati di numerosi studi condotti su diverse popolazioni occidentali concordano sul rilievo di una maggiore prevalenza di preipertensione (PA compresa tra 120/80 e 139//89) e di ipertensione (PA superiore a 140/90) negli uomini rispetto alle donne nella fascia di età inferiore a 60 anni, e sulla maggior prevalenza di ipertensione nelle donne rispetto agli uomini nella fascia di età superiore ai 60 anni (2, 55).


Molti studi trasversali e longitudinali sono stati condotti, in particolare, per accertare se esista una associazione tra menopausa e ipertensione arteriosa. Per la maggior parte, questi studi hanno portato gli autori ad affermare l’esistenza di questa associazione, anche se non mancano indagini le cui conclusioni sono incerte o addirittura opposte (17, 56, 63, 71). In considerazione di questi divergenti risultati merita di essere citata una importante indagine effettuata in Italia. Si tratta dello Studio SIMONA, pubblicato nel 2005, che è stato condotto su una popolazione di 18.326 donne di età compresa tra 46 e 59 anni. I dati sono stati raccolti da 505 medici di Medicina generale coordinati da 47 internisti e cardiologi ospedalieri della maggior parte delle Regioni italiane. L’esame dei dati ottenuti da questo studio dimostra che la pressione arteriosa sistolica e diastolica è leggermente ma significativamente più elevata nelle donne in postmenopausa rispetto a quelle in pre- e in perimenopausa; questa differenza è più netta nella fascia di età compresa tra i 46 e i 49 anni e rimane significativa anche escludendo le donne in menopausa chirurgica e quelle con malattie cardiovascolari. La significatività rimane anche se si esclude l’effetto confondente dell’età, dell’indice di massa corporea e dell’uso di contraccettivi (87). I risultati dello studio SIMONA confermano quelli desunti dallo Studio statunitense NHANES III 7. Appare evidente, da quest’ultima ricerca, che nelle donne americane bianche e in quelle di origine messicana la prevalenza di ipertensione arteriosa aumenta nettamente al passaggio dal quarto al quinto decennio di vita. Lo studio dimostra anche che questo netto aumento manca solo nelle donne di etnia nera, nelle quali però la prevalenza di ipertensione arteriosa è particolarmente elevata ed aumenta in modo pressoché lineare a partire già dal terzo decennio. Tutto sembra deporre, in conclusione, per l’esistenza nelle donne di etnia non nera di una vera e propria ipertensione della menopausa.
Questi rilievi epidemiologici trovano riscontro in alcune caratteristiche fisiopatologiche dell’apparato cardiovascolare femminile. Fino alla menopausa, infatti, le donne possono essere considerate emodinamicamente più “giovani” dei coetanei uomini sotto vario aspetti. La pressione differenziale, che come è noto costituisce un fattore indipendente di rischio vascolare (7, 22), è più bassa nelle donne rispetto ai coetanei uomini fino ai 40 anni di età, mentre dopo i 55 anni la situazione si inverte  (48, 65). Nelle donne in età fertile, inoltre, l’aumento pressorio indotto dallo sforzo è minore rispetto agli uomini di pari età (51). Queste favorevoli caratteristiche sono da attribuire alla maggiore elasticità delle pareti arteriose che rende più distendibili, e quindi in grado di meglio assorbire l’onda di pressione sistolica, l’aorta e le grandi arterie.
Con la menopausa la componente elastica delle pareti arteriose va incontro a fenomeni di frammentazione, mentre si manifesta accumulo di collagene; questi due fenomeni, che hanno luogo in tempi relativamente brevi, riducono l’elasticità 3elle arterie con conseguente aumento della pressione sistolica e differenziale (12, 60, 65, 70).
Secondo alcuni autori questo rapido “invecchiamemto” delle arterie risulterebbe particolarmente dannoso per la preesistenza, nel genere femminile, di una condizione sfavorevole di natura anatomica. Questa sarebbe rappresentata dalla minore statura e quindi dalla minore lunghezza dell’albero arterioso femminile. Tale condizione comporterebbe una più precoce riflessione dell’onda sfigmica che giungerebbe alla valvola aortica in fase ancora sistolica amplificando il picco sistolico e riducendo quello diastolico (39, 36, 70, 65, 74).
Questa ipotesi, che peraltro meriterebbe conferme ottenibili solo con la ricerca di una correlazione tra pressione arteriosa in menopausa e statura, potrebbe contribuire a spiegare il “sorpasso” del rischio vascolare femminile postmenopausale rispetto a quello maschile.
Poiché la variazione biologica più rilevante della menopausa è costituita dalla riduzione della produzione di estrogeni, questa è stata ritenuta la principale responsabile – o comunque il primum movens – della accresciuta prevalenza di ipertensione arteriosa (come anche  di altre malattie cardiovascolari) nella menopausa.
 La rilevante efficacia degli estrogeni sintetici nei confronti dei sintomi che accompagnano la menopausa ha determinato una ampia utilizzazione del trattamento estrogenico, cui diversi studi osservazionali hanno attribuito, nell’ultimo decennio del secolo scorso, la capacità di ridurre l’incidenza di malattie cardiovascolari oltre che di osteoporosi e di neoplasie colorettali (9, 38). Questi benefici effetti del trattamento estrogenico erano accompagnati da aumentata incidenza di cancro dell’endometrio e della mammella, di ictus cerebrale e di tromboembolia venosa, che tuttavia non appariva tale da annullare il vantaggio costituito dalla rilevante riduzione del rischio cardiovascolare (2, 27, 35).
Per quanto riguarda specificamente gli effetti della terapia ormonale sostitutiva sulla pressione arteriosa, in donne trattate fino a 20 anni è stato rilevato che la pressione diastolica mostra una significativa riduzione, la cui entità è direttamente proporzionale alla durata del trattamento; lo stesso studio ha dimostrato  che nelle donne lippe, cioè con caduta notturna dei valori pressori, questa era più netta nei soggetti trattati. Il trattamento ormonale sostitutivo, peraltro, non modificava la distensibilità aortica né la massa cardiaca (76).
Altri studi, condotti con l’associazione di Estradiolo con Drospirenone (un progestinico sintetico analogo di Spironolattone) hanno confermato la significativa riduzione della pressione arteriosa a seguito del trattamento (4, 75).
I dati emersi da questi studi hanno rappresentato uno stimolo per molte altre indagini, osservazionali o controllate, sulla capacità del trattamento ormonale sostitutivo di prevenire le malattie cardiovascolari nelle donne in menopausa; anche se non dirette al problema dell’ipertensione arteriosa, alcune di queste ricerche meritano di essere qui brevemente illustrate e commentate.
Il  trattamento ormonale sostitutivo con estrogeni equini coniugati (EEC) si è associato ad una riduzione significativamente minore (0,70%) di malattie cardiovascolari rispetto a donne non trattate (6, 9). In studi su donne normotese HRT (estrogeni da soli o associati a progestinici) è risultato capace di esercitare effetti benefici sui lipidi e sul fibrinogeno del plasma ed in parte anche sui valori pressori. Tutti questi studi non controllati sono stati oggetto di critiche, in particolare relative alla possibilità che le donne motivate a seguire il trattamento fossero verosimilmente anche più attente ad attenersi a corrette abitudini di vita e ad eseguire regolari controlli medici (10, 11, 70). La principale dimostrazione della capacità di HRT di proteggere dalle malattie cardiovascolari è derivata dai risultati di un importante studio osservazionale, il Nurse’s Health Study  (NHS), iniziato nel 1976 e condotto su 121,700 infermiere di età compresa tra 30 e 55 anni. Esso ha dimostrato che in 70.633 di queste, seguite per 20 anni, il rischio relativo di malattie CV era inferiore del 39% nei soggetti trattati con estrogeni rispetto a quelli non trattati (valore corretto per l’età e per altri fattori di rischio) (27).
Ai risultati di questi studi si sono però contrapposti quelli negativi scaturiti dalle indagini controllate. Nello Heart and Estrogen/progestin Replacement Study (HERS) 2.763 donne in postmenopausa con malattia coronarica (età media 67 anni) sono staste trattate con EEC (0,625 md/die) associati a medrossiprogesterone acetato (MPA, 2,5 mg/die) o con placebo. Ad un follow-up di 4,1 anni non sono state rilevate differenze significative nella incidenza di eventi cardiovascolari ; questi, anzi, nel primo anno sono risultati significativamente più numerosi nelle donne trattate rispetto a quelle di comtrollo (32). Nessun effetto protettivo fu rilevato al termine di un ulteriore periodo di controllo di 2,7 anni (45).
Ad analoghe conclusioni giungevano gli autori di una metanalisi di vari piccoli studi controllati, condotti in prevalenza su donne giovani, che non ha mostrato alcun significativo effetto protettivo di vari trattamenti ormonali sostitutivi nei confronti di malattie cardiovascolari (29). Nessun significativo vantaggio del trattamento con estrogeni è risultato da una metanalisi  relativa a 22 piccoli studi randomizzati di breve durata (fino a3 anni) su un totale di 4,124 donne (per lo più giovani ed a basso rischio cardiovascolare), trattate con HRT, placebo, vitamine o non trattate (Il trattamento HRT era costituito da estradiolo in 12 studi, da EEC in 8, da estrone solfato in 2, da etinilestradiolo in 1 e da mestranolo in 1 (29).

Un’altra importante dimostrazione di mancato effetto protettivo (se non addirittura di danni) del trattamento sostitutivo nei confronti delle malattie cardiovascolari  è stata fornita dai risultati dello studio Women’s Health Initiative (WHI), articolato in due bracci. Nel primo 16.880 donne di 50-79 anni sono state trattate con nel quale 16.880 donne di 50-79 anni sono state trattate con EEC 0,625 mg + MPA 2,5 mg/die in confronto con placebo, e  con 10.739 donne isterectomizzate trattate con EEC 0,625 mg/die. Questo studio, infatti,  è stato interrotto precocemente, poiché sia l’estrogeno da solo sia l’associazione estrogeno-progestinico sono apparsi responsabili di un aumento del rischio di ictus cerebrale di circa il 40%; in particolare l’associazione estroprogestinica è risultata associata ad un maggior rischio di eventi coronarici  e di embolia polmonare (oltre che di neoplasia mammaria) rispetto all’estrogeno da solo (59, 69, 73, 77).
Conclusioni negative sono scaturite anche dallo studio Postmenopausal Estrogen Progestin Intervention (PEPI) nel quale 596 donne (età 45-64 anni) trattate per due anni con tEEC o,625 mg e varie dosi di MPA hanno presentato una maggiore – anche se non significativa – incidenza di eventi cardiovascolari (70).
Si deve però sottolineare che anche questi studi sono stati oggetto di critiche relative sia ai criteri di arruolamento (in alcuni casi erano state escluse le donne con sintomi menopausali particolarmente intensi) sia a disomogeneità tra il gruppo trattato e quello di controllo. Un importante effetto confondente, inoltre, potrebbe essere stato rappresentato dalla presenza di non diagnosticate componenti della sindrome metabolica oltre che dal contemporaneo uso di altri farmaci, in particolare antiipertensivi.
Tutte le ricerche fin qui citate, sia osservazionali sia controllate, sono caratterizzate da un altro e probabilmente più importante motivo di incertezza, costituito dalle differenze nella composizione (in alcuni casi non menzionata), nelle dosi e nella via di somministrazione (orale o transdermica) dei prodotti ormonali utilizzati (21). In considerazione di questi aspetti ed al fine di meglio comprendere le ragioni dei discordanti risultati degli studi condotti sul trattamento ormonale della postmenopausa è opportuno un richiamo dei meccanismi attraverso i quali il trattamento stesso può influenzare i fattori di rischio cardiovascolare.
Esistono numerose prove di una correlazione tra disfunzione endoteliale e ridotta produzione endogena di estrogeni, quale avviene dopo la menopausa naturale o chirurgica e in caso di deficit ovarico precoce in donne sane o coronaropatiche (34, 57, 61, 68).
Le numerose azioni degli estrogeni endogeni sull’apparato cardiovascolare possono essere svolte direttamente sui vasi ovvero indirettamente attraverso la modulazione di alcuni fattori di rischio, in particolare quelli relativi al profilo lipidico (riduzione del colesterolo totale e LDL, aumento di HDL-C, inibizione dell’ossidazione  delle LDL (52).
Gli effetti di HRT sull’apparato cardiovascolare sono mediati dai recettori estrogenici α e β, presenti nelle cellule muscolari lisce e nell’endotelio. Le molteplici influenze di questi recettori sulle funzioni cardiovascolari e in particolare sulla pressione arteriosa è dimostrata da numerose ricerche (12, 19, 30, 40, 53, 66).
Vari studi sperimentali condotti in animali e su cellule isolate indicano che gli estrogeni proteggono l’apparato cardiovascolare. Questi benefici effetti appaiono riferibili a tre meccanismi principali. Il primo è rappresentato dalla capacità degli estrogeni di indurre la sintesi di molecole vasodilatatrici e capaci di modulare la crescita cellulare (monossido di azoto, prostaciclina, cAMP, Adenosina).  Un altro meccanismo consiste nell’inibizione della sintesi di molecole vasocostrittrici, di induttori della crescita cellulare e dell’aterogenesi (endotelina, omocisteina, Angiotensina II, renina, enzima di conversione dell’angiotensina, catecolamine, lipoproteine a bassa densità). Un terzo meccanismo è rappresentato dall’inibizione dello sviluppo indotto da mitogeni dei miociti vascolari, dei fibroblasti miocardici e delle cellule del mesangio glomerulare (17).
Gli effetti diretti degli estrogeni sul tono vascolare comprendono vasodilatazione acuta mediata dalla sintesi di NO (40, 48), modulazione a lungo termine del tono vascolare attraverso la regolazione della sintesi di prostaglandine ed espressione di eNOS e del gene endotelina (13), inibizione della vasocostrizione da endotelina e dell’attività simpatica (46).
Gli estrogeni esercitano inoltre azione antiproliferativa sulla muscolatura liscia vascolare (4), inibiscono la trombogenesi dopo lesione (54) e promuovono l’espressione di proteine contrattili nel miocardio (64).
L’influenza degli estrogeni sulla funzione endoteliale ha trovato conferma in una ricerca condotta su donne in menopausa non trattate con HRT, nelle quali è stata dimostrata l’esistenza di una correlazione tra concentrazione plasmatica di estradiolo libero e NO. Nel fegato, e forse anche in altre sedi, gli estrogeni possono mediare sia effetti benefici come l’espressione di apoproteine che modificano favorevolmente il profilo lipidico, sia effetti dannosi come l’aumento dell’espressione di fattori pro coagulativi e riduzione dei fattori fibrinolitici (69). E’ questo un aspetto di rilevante interesse ai fini della comprensione dei mortivi, che più avanti saranno discussi, per i quali gli effetti della HRT dipendono anche dalla via di somministrazione.
La presenza di estrogeni è stata dimostrata, oltre che negli organi riproduttivi della donna e, in minor misura, dell’uomo, anche nelle pareti dei vasi ove 17β-estradiolo si forma per conversione di testosterone ad opera della aromatasi (31, 54). L’ipotesi che la presenza dell0’estrogeno nelle pareti vascolari di entrambi i generi possa svolgere un ruolo fisiologicamente importante appare confermato dall’osservazione che, in uomini sani, l’inibizione farmacologica della aromatasi determina riduzione della vasodilatazione endotelio-dipendente (38).
E’ quindi degno di rilievo il fatto che i principali studi clinici controllati (in particolare HERS e WHI), dai cui risultati HRT appare inefficace se non dannosa, sono stati condotti con la somministrazione di EEC, cioè di una miscela di 26 molecole ormonali estratte dalle urine di cavalla gravida tra cui prevalgono Estrone solfato sodico, Equilinsolfato e 17α-diidroequilenina mentre non è presente 17β-estradiolo. In altri termini, queste sperimentazioni sono state effettuate con preparati nei quali manca il principale ormone ovarico umano, la cui caduta caratterizza la menopausa, mentre prevale Estrone che nella donna in postmenopausa non subisce riduzioni significative perché è in gran parte prodotto in sedi non ovariche (15).
Notevoli differenze possono esistere inoltre, tra gli effetti del trattamento con estrogeni da soli  o associati con progestinici: l’uso di queste associazioni, infatti, sembra accompagnarsi ad un aumentato rischio cardiovascolare in donne sane in postmenopausa, soprattutto durante il primo anno di trattamento (45). Il problema della via di somministrazione, d’altra parte, appare ancora1più rilevante; quando sono somministrati per via orale, infatti, gli estrogeni raggiungono nei sinusoidi epatici una concentrazione particolarmente elevata (quattro-cinque volte superiore a quella plasmatica. Questa concentrazione largamente soprafisiologica, che stimola in modo molto intenso i processi di biotrasformazione di primo passaggio epatico P450-dipendenti, è ritenuta capace di amplificare l’espressione di numerose proteine sintetizzate dagli epatociti, tra le quali Proteina C-Reattiva (C-Reactive Protein, CRP) e Amiloide sierica A (Serum Amyloid A, SAA), ed inoltre fattori procoagulativi come i frammenti 1 e 2 della Protrombina e vari enzimi coinvolti nell’aterogenesi. SAA, in particolare, forma un complesso con le lipoproteine HDL, riducendone le funzioni antiaterosclerotica, antiossidante e antiinfiammatoria (1).
Questi fenomeni non si manifestano con la somministrazione per via transdermica, che immette l’ormone direttamente nel circolo sistemico a bassa concentrazione ed in modo protratto e che sembra associata ad un minor rischio di tromboembolismo venoso (24, 59). Per questa via, infatti, gli estrogeni sembrano in grado di influenzare favorevolmente alcuni fattori di rischio cardiovascolare, in particolare la composizione delle lipoproteine plasmatiche e le proteine della coagulazione. Di particolare interesse, in questo senso, l’osservazione che il trattamento  effettuato con estradiolo per via transdermica (100 mg/die) non altera i livelli di CRP né di SAA, mentre la somministrazione di EEC (0,625 mg/die) causa l’aumento di entrambe le proteine. Va aggiunto  che l’aumento di PCR in corso di trattamento ormonale si osserva non solo con gli EEC ma anche con 17β-estradiolo ed Estradiolo valerianato (59, 62, 72).
Un altro meccanismo con il quale la caduta degli estrogeni può favorire la comparsa di ipertensione arteriosa e il danno vascolare sarebbe rappresentato dalla perdita della protezione che gli ormoni ovarici esercitano sulla sensibilità pressoria al sale, come è stato rilevato in donne studiate prima e dopo istero-annessiectomia. In base a queste osservazioni si può ipotizzare che il deficit estrogenico contribuisca a “smascherare” una quieta  (circa il 30% della popolazione studiata) di donne esposte a maggior rischio di ipertensione sodio-sensibile. 
Benché per definizione possa definirsi estrogeno ogni composto capace di legarsi ai recettori estrogenici ed attivarli, tra EEC ed Estradiolo esistono delle differenze farmacologicamente rilevanti,che possono spiegare il diverso esito degli studi in cui gli uni e l’altro sono stati utilizzati. Gli estrogeni contenuti negli EEC presentano differenti attività di legame per i recettori, differente selettività per i due sottotipi dei recettori stessi, differente capacità agonista; dopo biotrasformazione, inoltre, danno origine a metaboliti diversi da quelli derivati da Estradiolo. Poiché le azioni farmacologiche di Estradiolo sono mediate da meccanismi sia recettore-dipendenti sia recettore-indipoendenti, gli EEC possono non svolgere gli stessi effetti prodotti da Estradiolo. In particolare possono non essere in grado di proteggere l’apparato cardiovascolare come nel caso di Estriolo (27) o addirittura esercitare su di esso effetti dannosi, come nel caso di Etinilestradiolo (17). Studi in vitro su miocellule da aorta umana hanno dimostrato che gli EEC sono significativamente meno potenti di Estradiolo nell’inibire la crescita derlle miocellule lisce e l’attività delle proteinchinasi indotte da mitogeni (14).
Questi effetti antimitogenici di Estradiolo sono dovuti all’attività (non mediata dai recettori estrogenici) dei metaboliti di Estradiolo, rappresentati da catecolestradioli e da metossiestradioli, che inibiscono la crescita sia dei miociti arteriosi, sia dei fibroblasti miocardici, sia delle cellule mesangiali glomerulari; attività queste di primaria importanza nei confronti di molte affezioni cardiovascolari e in particolare dell’ipertensione arteriosa (14, 15).
L’attività antimitogena e antiipertensiva dei metossiestradioli è confermata sperimentalmente dall’osseeravzione che in ratti ZFS1 con sindrome metabolica la somministrazione di 2-idrossiestradiolo riduce la pressione arteriosa, il danno renale e la colesterolemia mentre migliora la funzione endoteliale e il metabolismo glicidico.. Molte altre ricerche sperimentali, che non è necessario esporre in questa sede, confermano l’azione protettiva di Estradiolo nei confronti dell’apparato cardiovascolare (16, 17).
 Un altro aspetto che merita di essere citato riguarda la capacità degli estrogeni di contrastare gli effetti delle catecolamine, proprietà questa che riveste notevole interesse considerando l’attivazione simpatica che caratterizza la menopausa. E’ stato infatti osservato che Estradiolo valerato inibisce la vasocostrizione indotta da noradrenalina e la secrezione di adrenalina in donne in epoca postmenopausale (67). Di particolare interesse è anche uno studio in cui è stato rilevato che estradiolo, somministrato per via transdermica, riduce la scarica simpatica e la pressione arteriosa, mentre il trattamento orale con EEC è in questo senso del tutto privo di efficacia (58). L’azione inibente di Estradiolo sull’attivazione simpatica e sulla secrezione di adrenalina si manifesta solo nel trattamento protratto ed è quindi dipendente da un meccanismo genomico. Si tratta verosimilmente di un meccanismo specifico, poiché i metaboliti di Estradiolo, in particolare i catecolestradioli, inibiscono la tiroxina idrossilasi, cioè l’enzima che condiziona la sintesi delle catecolamine.
Una questione tuttora dibattuta riguarda gli effetti dell’associazione di progestinici agli estrogeni nei confronti con le malattie cardiovascolari. I dati ottenuti in alcuni studi (HERS, WHI, PEPI) e in alcune ricerche sperimentali sembrano indicare che l’associazione con Medrossiprogesterone acetato (MPA) riduce in misura spesso considerevole i benefici effetti di Estradiolo; ma queste conclusioni non sono confermate da altre ricerche sperimentali. Allo stato attuale delle conoscenze non si può affermare, in conclusione, che a MOPA possa essere attribuita la capacità di annullare l’efficacia protettiva cardiovascolare degli estrogeni (16, 17, 50).
Altri meccanismi patogenetici invocati per spiegare i rapporti fra menopausa e malattie cardiovascolari e i particolare ipertensione arteriosa, comprendono l’iperandrogenismo, l’aumento di endotelina, l’iperattività del SRA e lo stress ossidativo. Per quanto riguarda il ruolo degli androgeni, il comportamento di questi ormoni in rapporto alla menopausa è controverso:: secondo una ricerca, il testosterone decresce dopo la menopausa per tornare ai valori pre-menopausali nel settimo decennio di vita; secondo altri studi la le menopausa è seguita da riduzione di diidrossitestosterone e da aumento di testosterone. L’interesse per le modificazioni degli androgeni risiede nella capacità di questi ormoni di stimolare l’espressione dei recettori AT1 e la produzione di Endotelina, la cui sintesi è invece inibita da Estradiolo (57).
Studi sperimentali hanno dimostrato le influenze che gli ormoni possono svolgere nella patogenesi dell0ipertensione. Oltre 10 anni fa è stato osservato che 17β-estradiolo contrasta l’effetto vasocostrittore svolto da Acetilcolina sulle coronarie di animali di genere femminile ma non maschile (12). Più recentemente, altre interessanti informazioni sono state ottenute da un modello animale che ben si presta a confronti con l’ipertensione della menopausa come quello rappresentato dalle femmine di ratto SHR. In questi animali la cessazione del ciclo mestruale, che ha luogo al 10° – 12° mese di vita, si accompagna a caduta della concentrazione plasmatica di Estradiolo e ad aumento del testosterone, mentre aumenta la pressione arteriosa. La cessazione dell’attività ovarica spontanea o indotta chirurgicamente è seguita da riduzione della funzione renale, da aumento della proteinuria, da incremento delle resistenze vascolari e dell’attività reninica plasmatica misurata con la generazione di angiotensina. Vi è inoltre aumento dello stress ossidativo, dimostrato dall’incremento di F-2isoprostano. Il rapporto di queste variazioni con l’aumento della pressione arteriosa appare confermato dall’effetto antiipertensivo esercitato dal trattamento con antiossidanti  (Vit. E) nelle femmine ma non nei maschi di ratto SHR (57).
Ai fini del trattamento, le acquisizioni sui meccanismi coinvolti nell’ipertensione postmenopausale possono essere sintetizzati come segue: 1) la terapia ormonale sostitutiva, attuata con estrogeni, da soli o associati a progestinici appare capace di svolgere effetto antiipertensivo e, in genere, protettivo nei confronti dell’apparato cardiovascolare, ma espone al rischio di effetti avversi. L’entità e l’esistenza stessa di tale rischio, peraltro, appaiono dipendenti  dalla composizione e dalla via di somministrazione dei preparati ormonali, ma questa ipotesi non è ancora comprovata da studi adeguati; 2) i meccanismi patogenetici di questa forma di ipertensione non differiscono da quelli invocati in tutte le altre forme , ma tra essi sembrano prevalere l’iperattivazione simpatica e forse la ritenzione salina.
In base a queste considerazioni i farmaci antiipertensivi che appaiono più specificamente indicati nella donna ipertesa in menopausa sono, oltre ai diuretici, quelli attivi sul sistema nervoso simpatico in sede centrale o periferica. Tra i primi sono da considerare Metildopa, Clonidina e Moxonidina. Quest’ultima molecola si potrebbe far preferire per la sua azione selettiva sui recettori imidazolinici I1, che consente di ottenere l’effetto antiipertensivo senza gli inconvenienti (xerostomia e sedazione) propri di Clonidina e Metildopa. Gli ACE inibitori e gli antagonisti recettoriali dell’Angiotensina, come anche i β -bloccanti, permettono di agire sul sistema nervoso simpatico in periferia. Tra i β -bloccanti Nebivololo, caratterizzato da rilevanti similarità strutturali e chimiche con 17β-estradiolo, possiede specifiche proprietà vasodilatatrici endotelio-dipendenti in quanto, interagendo con i recettori estrogenici endoteliali, induce eNOS e provoca vasodilatazione NO- mediata (25). Questi rilievi appaiono confermati dall’osservazione di aumentata attività vasodilatatrice in soggetti trattati con Nebivololo (58). Nello  stesso senso depongono i risultati dello Studio SENIOR, nel quale il trattamento con Nebivololo in soggetti anziani con insufficienza cardiaca ha ridotto morbilità e letalità in misura più netta nelle donne (20).
Discutendo sui possibili effetti protettivi del trattamento ormonale sostitutivo nei confronti delle malattie cardiovascolari postmenopausali non si può trascurare un cenno ai rapporti tra questo trattamento e il rischio di neoplasia mammaria. La maggior parte dei dati disponibili indicano l’esistenza di un rapporto causale estrogeni endogeni, terapia estrogenica e neoplasia mammaria, soprattutto nei trattamenti a lungo termine; unica eccezione lo studio WHI, relativo al trattamento con estrogeni non associati a progestinici. D’altra parte, l’uso di associazioni estroprogestiniche per periodi limitati (meno di tre anni) in donne che avevano fatto precedentemente uso di estrogeni (!3) non si associa ad un significativo maggior rischio di neoplasia mammaria, ma può renderne più difficile la diagnosi mammografica.
Con un follow-up più prolungato (mediana 5,9 anni), nello studio WHI è stato rilevato un rischio lievemente ridotto di neoplasia nelle donne trattate con solo estrogeno, ma secondo gli studi osservazionali un uso più prolungato sembra comportare un rischio maggiore. Alcuni dati indicano che il rischio di neoplasia mammaria è maggiore se il trattamento ormonale viene iniziato entro i primi cinque anni successivi alla menopausa. Gli effetti di varie molecole di estrogeni, di diversi progestinici e di minori dosi di ormoni sul rischio di neoplasia mammaria non sono noti, anche se la maggior parte degli esperti attualmente raccomandano l’uso delle dosi più basse capaci di combattere i sintomi menopausali e di ridurre asl minimo la durata del trattamento.
Nello Studio WHI, condotto con terapia ormonale combinata, i rischi sono risultati quelli di eventi coronarici, ictus, tromboembolie venose e neoplasia mammaria, mentre i benefici comprendevano riduzione del rischio di fratture ossee e di neoplasia del colon. Per contro, nessun aumento di rischio  per coronaropatia o neoplasia mammaria è stato osservato a seguito di trattamento con estrogeni da soli, nel quale anzi  si è rilevata la tendenza ad un minor rischio di neoplasia mammaria.
Successive  indagini indicano che il rischio cardiovascolare dipende dalla durata del trattamento e non dal momento di inizio del trattamento stesso. Inoltre la letalità appare minore nelle donne trattate precocemente rispetto a quelle non trattate. Per questi motivi un breve HRT in fase precoce appare ragionevole nelle donne in cui la sintomatologia postmenopausale non risulti tollerabile.

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