notiziario Agosto 2011 N°7 - VITAMINA “D” E CANCRO

Stampa

logo amec

NOTIZIARIO Agosto 2011 N°7

"VITAMINA "D" E CANCRO"

 

A cura di:
Giuseppe Di Lascio

 

Con la collaborazione di:

Bagalino Alessia, Bauzulli Doriana, Di Lascio Alessandro, Di Lascio Susanna, Levi Della Vida Andrea, Melilli Simonetta, Pallotta Pasqualino, Sesana Giovanna, Stazzi Claudio, Zimmatore Elena

 


Un importante problema: Vit. “D” e mortalità per cancro

JoAnn Manson dell’Harvard Medical School, Brighame i membri della commissione dello IOM (Institute of Medicine) per le linee guida alimentari sulla vitamina “D”, hanno dichiarato quanto esaminato dal comitato sulle prove di prevenzione del cancro. Sul piano teorico, difatti, è biologicamente plausibile che la vitamina possa aiutare a prevenire questa temibile malattia, poiché il suo recettore è espresso nella maggior parte dei tessuti. Peraltro, studi su colture cellulari e modelli sperimentali suggerirebbero che il calcitriolo possa promuovere la differenziazione delle cellule, inibire la proliferazione di quelle tumorali e presentare proprietà antinfiammatorie, pro-apoptotiche e antiangiogeniche. Risultati questi che possono suggerire ma non dimostrare il ruolo della sostanza nella prevenzione, nello sviluppo del cancro o nel rallentare la sua progressione (March 23, 2011 (10.1056/NEJMp1102022). Le diverse revisioni sistematiche nei confronti di una causa-effetto su quest’argomento, risultano, purtroppo, incoerenti e inconcludenti e nessun trial clinico randomizzato ha mostrato completezza di dati, sia perché molti studi sono stati troppo piccoli sia perché altri hanno usato una dose molto bassa di vitamina. Gli studiosi hanno affermato, quindi, la necessità di eseguire studi clinici randomizzati su larga scala con dosi adeguate di vitamina per verificare il suo ruolo nella prevenzione del cancro. La ricerca, sino a oggi attuata, secondo l’esame degli Autori, è stata anche incoerente. Nello Women's Health Initiative, difatti, sembrerebbe esserci un’associazione iniziale tra i livelli ematici di 25-idrossi vitamina D e cancro del seno, che scompare, però, dopo aggiustamento per l’indice di massa corporea e l'attività fisica. Anche gli studi sul cancro alla prostata sono stati contraddittori. D’altra parte, però, per il cancro del colon-retto l'evidenza scientifica osservazionale è risultata più forte e più coerente. Tuttavia, negli studi osservazionali l’associazione non può dimostrare la causalità, ossia la relazione di causa-effetto. Le correlazioni, peraltro, potrebbero essere vincolate ad altri fattori di confondimento, come l'obesità o il solo stato generale nutrizionale o i livelli di attività fisica, che possono introdurre il ruolo dell’attività all'aria aperta e, quindi, della maggiore esposizione al sole.

Helzlsouer KJ del Weinberg Center for Women’s Health and Medicine, Paul Place, Baltimoree collaboratori, nell’ambito del consorzio VDPP (Vitamin D Pooling Project of Rarer Cancers), hanno riunito dieci coorti per uno studio prospettico sull'associazione tra vitamina “D” e sviluppo di neoplasie più rare, come l’endometriale, l’esofagea, la gastrica, la renale, il linfoma non-Hodgkin, l’ovarica e la pancreatica (Am J Epidemiol 2010;172:4–9). Le coorti erano provenienti da tre continenti con partecipanti, quindi, multirazziali e residenti in una vasta gamma di latitudini. Per ogni tipo di tumore non si dimostrava alcuna evidenza di protezione delle alte concentrazioni di 25-idrossivitamina D (> 75 nmol / L) contro il cancro. Al contrario, ai livelli molto elevati di vitamina (≥ 100 nmol / l) si registrava un aumento del rischio di cancro del pancreas, come conferma di precedenti relazioni. Nel complesso, la conclusione, che scaturiva dall’attento esame della letteratura, ridondante di centinaia e centinaia di studi, era un’incoerenza delle evidenze, convincenti, invece, per la salute delle ossa. A tal fine, le quote di vitamina di 600 UI il giorno, raccomandate nella dieta per le età da uno ai settanta anni e di 800 UI per le età dai settanta anni e oltre, andrebbero impostate tassativamente per coprire le esigenze della salute delle ossa di almeno il 97,5% della popolazione. È, peraltro, possibile che, nell'uso a lungo termine o per condizioni croniche, i singoli processi decisionali, da parte di ogni medico per uno specifico paziente, possano condizionare una dose maggiore.

Freedman DM del National Cancer Institute e collaboratori, per valutare l'associazione tra i livelli basali di 25-idrossivitamina D (25 [OH] D) e la mortalità per cancro, hanno esaminato (Cancer Res2010 Nov 1; 70:8587)in modo prospettico i dati su 16.819 partecipanti al NHANES III (Third National Health and Nutritional Examination Survey). I livelli di 25 (OH) D sono stati misurati una volta in primavera o estate nelle latitudini più alte e in autunno o in inverno nelle latitudini più basse. Durante un follow-up medio di 13,4 anni, 884 partecipanti sono morti di cancro e non in correlazione con la 25 (OH) D sierica della popolazione totale o degli uomini e delle donne, analizzati separatamente. Tuttavia, gli uomini con i livelli di 25 (OH) D > 80 nmol / L avevano un tasso di mortalità per cancro significativamente più alto, rispetto a quelli con livelli <50 nmol / L. In estate, tra le donne alle latitudini superiori, il trend complessivo di rischio di cancro era significativamente più basso con i maggiori livelli di 25 (OH) D. Inoltre, i  livelli sierici di 25 (OH) D non si associavano con la mortalità per cancro tra i bianchi non ispanici, neri non ispanici e messicani-americani.Il trend di morti per cancro del colon non era significativamente inferiore con i maggiori livelli di 25 (OH) D. Negli uomini, ma non nelle donne, gli elevati livelli sierici basali di 25 (OH) D si sono associati a un aumento delle morti per cancro del polmone e del tratto digestivo, diversi dal cancro del colon-retto. Nessuna chiara tendenza era evidente per il cancro al seno femminile, quello alla prostata o per le morti da linfoma non-Hodgkin o leucemia. L’ampio database NHANES III fornisce, invero, un'occasione unica per valutare in dettaglio la relazione tra vitamina “D” e le malattie. Le limitazioni di questo studio, però, riguardano la misurazione solo in fase basale dei livelli di vitamina. I risultati, comunque, suggeriscono che non si è detta ancora  l'ultima parola sulla relazione analizzata. Rimane l’interesse, soprattutto per i dermatologi, che possono utilizzare queste informazioni per contestare la presunzione comune che l'esposizione al sole o l’utilizzo delle lampade solari proteggano contro la mortalità per cancro. Al contrario, invece, tal esposizione può effettivamente aumentare le morti per alcuni tipi di cancro.

Lisa Gallicchio e collaboratori del Mercy Medical Center, Baltimore hanno voluto ribadire, per loro parte, il valore del VDPP, incentrato sulle associazioni tra 25-idrossivitamina D (25 (OH) D) e il rischio di tumori più rari nei 5.491 pazienti, di cui 830 con cancro primario dell’endometrio, 775 del rene, 516 dell'ovaio, 952 del pancreas, 1.065 del tratto gastrointestinale superiore e 1353 non-Hodgkin (Am. J. Epidemiol. (2010) 172(1): 10-20). Hanno, quindi, sottolineato che le analisi di regressione logistica condizionale sono state condotte utilizzando punti di divisione clinicamente definita, con 50 - <75 nmol / L, come categoria di riferimento. Il VDPP, secondo gli Autori, ha fornito, così, un contributo unico per la comprensione della possibile associazione, superando molti dei limiti ecologici e degli studi caso-controllo. Uno dei punti di forza principali è stato, in effetti, il numero dei casi dei tumori inclusi, che hanno superato quelli delle precedenti ricerche osservazionali in modo singolo, permettendo un'analisi rigorosa delle associazioni in esame. Inoltre, le coorti nel VDPP provenivano da un'ampia distribuzione geografica, coprendo estremi di latitudine e dell'esposizione solare, permettendo la stima dei rischi di cancro a molto alte e basse concentrazioni della vitamina, a differenza degli studi osservazionali derivati da un unico sito. Altri punti di forza sono stati quelli riguardanti la disponibilità dei campioni di sangue per la misura della 25 (OH) D, raccolti in maniera prospettica, l'uso di un laboratorio centralizzato e la disponibilità delle norme NIST (National Institute of Standards and Technology) per il controllo qualità.

Secondo gli Autori, in conclusione a quanto emerso dagli studi, il VDPP permetterebbe di affermare che:

Anche Gandini S dell’European Institute of Oncology, Milano e collaboratori, sulla base  di questi studi epidemiologici, hanno effettuato una revisione sistematica dei trial osservazionali sulla 25-idrossivitamina D sierica e cancro del colon-retto, mammella, prostata e l’adenoma del colon, analizzando la letteratura fino al dicembre 2009 senza restrizioni di lingua (Int J Cancer. 2011 Mar 15;128(6):1414-24.). È stata eseguita, peraltro, la metanalisi di regressione al fine di calcolare gli effetti dose-risposta e, poiché negli studi caso-controllo la 25-idrossivitamina D sierica era stata misurata dopo la diagnosi del cancro, sono state condotte analisi separate per gli studi caso-controllo e quelli prospettici. Sono stati identificati, così, trentacinque trial indipendenti e i sette studi sugli adenomi del colon-retto sono stati dichiarati eterogenei nei termini dell’endpoint e del controllo per i principali fattori di confondimento, per cui non inseriti nella meta-analisi. Il rischio relativo (SRR) e l’IC (intervallo di confidenza 95%) per ogni 10 ng / mL di aumento della 25-idrossivitamina D nel siero corrispondeva a:

Per il cancro al seno, gli studi caso-controllo (3.030 casi) presentavano notevoli limiti e corrispondevano a uno SRR di 0,83 (0,79, 0,87), mentre lo SRR degli studi prospettici (3.145 casi) era 0,97 (0,92; 1.03). Per il cancro del colon-retto e della mammella, le differenze tra casi e controlli nella stagione di prelievo di sangue o d’inattività fisica o in sovrappeso/obesità non sarebbero stati in grado di spiegare i risultati ottenuti.

In conclusione, si rilevava un rapporto coerente inverso tra livelli sierici di 25-idrossivitamina D e cancro del colon-retto. Nessuna associazione, invece, si riscontrava per il cancro al seno e alla prostata.

 


Morti di cancro più nell’uomo che nella donna?

Michael B. Cook del National Cancer Institute e collaboratori hanno analizzato i dati per età e sesso dell’ampio database degli Stati Uniti SEER (Surveillance, Epidemiology and End Results), relativi alle statistiche di trentasei neoplasie per il periodo dal 1977 al 2006 (Cancer Epidemiol Biomarkers Prev; 2011, 20(8); 1–9. © AACR). I rapporti di mortalità tra maschi e femmine erano di: 5,51 uomini per ogni donna per il cancro del labbro, 5,37 a uno per il cancro della laringe, 4.47 a uno per il cancro dell'ipofaringe, 4,08 a uno per il cancro dell'esofago, 3,36 a uno per il cancro della vescica. Molti tumori con più alto tasso di mortalità generale hanno anche mostrato maggiore rischio di morte negli uomini rispetto alle donne. Il rapporto uomo-donna per il cancro del polmone era, difatti, 2,31 a uno, per il tumore del colon-retto 1,42 a uno e per il carcinoma pancreatico 1,37 a uno. Per la leucemia il rapporto era 1,75 a uno e per il cancro del fegato e delle vie biliari intraepatiche 2,23 a uno. Analizzando poi il tasso di sopravvivenza a cinque anni, i ricercatori hanno anche appurato, senza, però, potere riconoscere le ragioni alle radici, che essa era più scarsa negli uomini per molti tipi di cancro. Solo i cancri della colecisti, dell’ano, del peritoneo, dell’omento e del mesentere dimostravano un tasso di mortalità maggiore nelle donne rispetto agli uomini. Pur tuttavia, secondo i ricercatori, le differenze nello screening delle persone senza sintomi, nella presenza di altre malattie o di comportamenti di assistenza sanitaria e nelle stesse differenze del comportamento del cancro, sarebbero stati fattori determinanti per la realizzazione di questi risultati. Se si fossero potute identificare le cause di queste differenze di genere, si sarebbe potuto, sempre secondo gli Autori, intraprendere azioni preventive per ridurre, in certo qual modo, l'onere del cancro.

John H. Holmes dell’University of Pennsylvania School of Medicine e collaboratori, proprio in considerazione dei numerosi fattori che entrano in gioco nelle disparità sanitarie, pur riconoscendo che le stesse si possono manifestare a livello del singolo, hanno richiamato l’attenzione sugli altri contesti. Essi sono rappresentati, difatti, dal nucleo famigliare, dal quartiere di residenza, dalle organizzazioni sociali e dalle strutture sanitarie (Am J Prev Med 2008;35(2S):S182–S192). A tale proposito, è stato istituito il CPHHD (Centers for Population Health and Health Disparities) dal NIH (National Institutes of Health) per esaminare l’alta dimensione e la complessa natura delle disparità e dei loro effetti sulla salute. A causa della sua natura intrinseca interdisciplinare, il programma ha teso a offrire un sistema unico in cui eseguire una ricerca sanitaria multilivello sulle disparità.  Nel corso del programma, i centri CPHHD hanno sperimentato sfide specifiche per questo tipo di ricerca, classificate lungo tre assi:

  1. fonti dei soggetti e dei dati,
  2. caratteristiche dei dati,
  3. analisi multilivello e di interpretazione.

Si può, così, affermare che il CPHHD offre collettivamente un esempio unico di come queste sfide possano essere soddisfatte, ma anche come, in via altrettanto importante, esse possano rivelare una vasta gamma di questioni sulle disparità di salute che i ricercatori dovrebbero prendere in considerazione.

Peraltro, Sarah J Gehlert Graham Colditz della Surgery, Washington University, considerando che i primi venti anni di pubblicazione della Cancer Epiemiology, Biomarkers and Prevention sono stati contrassegnati da una progressiva aumentata attenzione sulle disparità di salute tra maschi e femmine e sui progressi delle conoscenze sulle loro determinanti, hanno dovuto riconoscere che, nonostante una documentazione chiara delle differenze e la conoscenza avanzata delle stesse determinanti, si sono ottenuti solo scarsi progressi nella riduzione delle disparità a livello della popolazione (Cancer Epidemiol Biomarkers PrevJuly 22, 2011 cebp.0628.2011; Published OnlineFirst July 22, 2011; doi:10.1158/1055-9965.EPI-11-0628). In tale contesto, traducendo le scoperte scientifiche in soluzioni pratiche, si sono prodotti modelli multilivello come quello della CPHHD (Centers for Population Health and Health Disparities), promettente per la comprensione dei complessi fattori determinanti le disparità del cancro e delle loro interazioni. Il modello CPHHD esplora, in effetti,  una vasta gamma di discipline scientifiche, dal biologico al sociale, ognuna secondo il proprio linguaggio e metodo. Infatti, la capacità di lavorare in modo efficace attraverso i confini disciplinari è essenziale per inquadrare nella loro completezza le soluzioni. Dopo aver brevemente caratterizzano lo stato attuale delle conoscenze circa le disparità sanitarie, i ricercatori hanno, così, delineato le tre sfide principali affrontate dai professionisti nelle disparità per offrire i suggerimenti idonei per affrontarle. Nelle disparità del cancro esse corrispondono a:

  1. problematicità della razza e dell'origine etnica,
  2. modo migliore per tradurre le scoperte in soluzioni di sanità pubblica,
  3. come creare un ambiente di ricerca che supporti l'esecuzione di successo della ricerca multilivello.

In conclusione, i ricercatori raccomandano attenzione a tutte e tre queste condizioni per un urgente e necessario avanzamento degli sforzi diretti a eliminare le disparità del cancro.

 


Vit. “D” e cancro del colon: lo studio EPIC

Un ruolo della vitamina “D” nel contesto del cancro del colon-retto può essere importante poiché le cellule di questo tratto intestinale, sia normali sia neoplastiche, sono in grado di produrre la forma attiva circolante di 25 - (OH)-D, che può essere implicata direttamente nel controllo della crescita delle cellule normali e neoplastiche del colon. Tuttavia, l'evidenza epidemiologica non è decisiva e quasi nessun dato di pre-diagnosi è disponibile nelle popolazioni europee. In tale ambito, lo studio EPIC (European Prospective Investigation into Cancer and Nutrition) è stato tracciato per stabilire la relazione tra dieta, stato nutrizionale, stile di vita, fattori ambientali e l'incidenza di cancro e delle altre malattie croniche. L’EPIC è, di fatto, un ampio studio che si riferisce a dieta e salute, coinvolgente più di mezzo milione (520.000) di persone di dieci paesi dell'Europa occidentale: Danimarca, Francia, Germania, Grecia, Italia, Paesi Bassi, Norvegia, Spagna, Svezia e Regno Unito (Eur J Clin Nutr 2009, Nov;63, S1-S274).

Utilizzando i dati di tale studio, Jenab M e coll. hanno potuto esaminare 1.248 pazienti (785 tumori del colon e 463 cancri del retto) che hanno sviluppato il cancro colon-rettale, abbinandoli a caso a 1.248 soggetti di controllo per valutare l'associazione tra la concentrazione di vitamina “D” circolante, sua assunzione e del calcio con il rischio di tumore del colon-retto (BMJ 2010;340:b5500).

La concentrazione di medio livello della 25-(OH)D era definita nei termini di 50,0-75,0 nmol/L. Quindi, si rilevava una forte associazione inversa lineare, dose-risposta, tra i valori della vitamina e il rischio di tumore del colon-retto (P <.001). Confrontati con la metà dei valori di 25-(OH)D, quelli più bassi si associavano con un rischio maggiore (<25,0 mol/L: IRR, 1.32; 95% IC, 0,87-2,01 vs 25,0-49,9 nmol/L: IRR, 1,28, IC 95%, 1,05-1,56).

I livelli superiori si, invece, associavano a minor rischio (75,0-99,9 nmol/L: IRR, 0.88, IC 95%, 0,68-1,13 vs ≥ 100,0 nmol/L: IRR, 0,77; IC 95%, 0,56-1,06).Rispetto al gruppo di pazienti del più basso quintile di concentrazione di 25-(OH)D, quello del più alto presentava il rischio di cancro colon-retto del 40% più basso (P < .001). Nell’analisi dei sottogruppi si rilevava una forte associazione tra i livelli di 25-(OH)D e il cancro del colon, ma non con quello del retto (eterogeneità del P.048).L'assunzione di vitamina “D” nella dieta non era correlata a rischio di malattia, a differenza di quella con il più alto apporto di calcio. Secondo gli AA tale studio dimostrerebbe, quindi, che gli alti livelli di 25-(OH)D, e un maggior consumo di calcio nella dieta si associano a un minor rischio per il cancro colon-rettale. Tuttavia, l'assunzione di vitamina “D” nella dieta non sembrerebbe influenzare il rischio del cancro.


Vit. “D” e cancro della prostata

Travis RC e collaboratori dell’University of Oxford, UK  (Am J Epidemiol. 2009 May 15;169(10):1223-32), sulla base dei risultati della maggior parte degli studi dimostranti solo una debole associazione tra le concentrazioni circolanti di vitamina “D” e rischio di cancro alla prostata, hanno voluto eseguire uno studio caso-controllo nel’ambito dell’EPIC 1994-2000 (European Prospective Investigation into Cancer and Nutrition).

I ricercatori hanno provveduto, così, alla misura delle concentrazioni sieriche della 25-idrossivitamina D di 652 portatori di tumore alla prostata, abbinati a 752 controlli provenienti da sette paesi europei, dopo un tempo mediano di follow-up di 4,1 anni. Sono stati utilizzati modelli di regressione logistica condizionale per calcolare gli odds ratio per il rischio di cancro alla prostata nei confronti del 25-idrossivitamina “D”, dopo standardizzazione per il mese di raccolta del sangue e la regolazione per le covariate.

Nessuna associazione significativa si dimostrava tra il più alto rispetto al più basso quintile: odds ratio = 1,28, intervallo di confidenza 95%: 0,88, 1,88, p per trend = 0,188). L’analisi dei sottogruppi rivelava, peraltro, una significativa eterogeneità per lo stadio del tumore o il suo grado, l’età alla diagnosi, l'indice di massa corporea, il tempo di raccolta del sangue per la diagnosi o l’assunzione di calcio. In sintesi, i risultati di quest’ampio studio caso-controllo non fornivano alcuna prova a sostegno di un effetto protettivo delle concentrazioni circolanti di vitamina “D” sul rischio di cancro alla prostata.

Demetrius Albanes del Cancer Epidemiology and Genetics, Bethesda e collaboratori hanno esaminato, per loro conto, la relazione tra 25-idrossivitamina D[25 (OH) D] e cancro della prostata nell’ambito dello studio caso-controllo Alpha-Tocopherol, Beta-Carotene Cancer Prevention Study in anziani finlandesi di 50-69 anni (Cancer Epidemiol Biomarkers PrevJuly 22, 2011 cebp.0403.2011). Hanno, così, abbinato 1.000 controlli a 1.000 casi diagnosticati durante tutti i venti anni di follow-up in base all'età (± 1 anno) e alla data di raccolta del sangue (± 30 giorni). Modelli di regressione logistica condizionale multivariata hanno prodotto l’odds ratio (OR) e gli intervalli di confidenza al 95% (C). I casi non avevano una 25 (OH) D significativamente superiore al 3% (p = 0,19). Gli OR (IC 95%) per i quintili stagionali specifici maggiori di 25 (OH) D sono stati: 1,00 (riferimento), 1,29 (0,95-1,74), 1,34 (1,00-1,80), 1,26 (0,93-1,72) e 1,56 (1,15 -2,12) (Ptrend= 0,01). Le analisi, sulla base delle categorie cliniche pre-specificate, e i valori, aggiustati per la stagione, hanno offerto risultati simili. Questi effetti apparivano più robusti per la malattia aggressiva (OR [95% IC], per il quinto quintile di 25 (OH) D sierica = 1,70 [1,05-2,76]), per gli uomini con una maggiore attività fisica (1,85 (1,26-2,72), P trend = 0,002), per i casi di più elevato colesterolo totale (2,09 (1,36-3,21), P trend= 0.003) o di alfa-tocoferolo (2,00 (1,30-3,07), P trend= 0,01), o per i più elevati introiti di calcio totale (1,82 (1,20-2,76), P trend= 0,01) o di vitamina “D” (1,69 (1,04-2,75), Ptrend = 0,08), o per chi aveva ricevuto supplementi di alfa-tocoferolo (1,74 (1,15-2,64), Ptrend = 0,006). In conclusione, i risultati degli studiosi indicavano che gli uomini con i livelli più alti di vitamina “D” nel sangue potevano essere a maggiore rischio di sviluppo del cancro alla prostata.


Calcio, Vit. “D” nell’alto rischio per melanoma

Teresa Fu della Stanford University School of Medicine di Palo Alto, California e collaboratori il 7.2.2011 al 69° congresso annuale dell'American Academy of Dermatologya New Orleans hanno presentato un’analisi retrospettiva di una parte dello studio WHI (Women's Health Initiative). La ricerca è stata condotta su 36.282 donne, tra i 50 e i 79 anni, in postmenopausa, randomizzate con supplementi di 400 UI di vitamina “D3” e 1000 mg di calcio il giorno o placebo e poi seguite per sette anni per verificare l’incidenza delle fratture dell'anca e di neoplasie (Journal of Clinical Oncology, 2011; DOI:10.1200/JCO.2011.34.5967). I ricercatori di Stanford e altri avevano già dimostrato che topi, privi di recettori per la vitamina “D”, presentavano più frequentemente tumori cutanei e che in vitro l'aggiunta della sostanza era, talvolta, in grado di ridurre nelle cellule malate di cancro della pelle la loro crescita. Gli studiosi, però, non riscontravano differenze nei tassi di tumori cutanei, melanoma e non, come il basalioma e il carcinoma spino cellulare, nei due bracci di analisi, essendo l'hazard ratio (HR) 1.02 (P = 0,59) per il gruppo in trattamento e 0,86 (P = 0,32) per il gruppo in placebo. Pur tuttavia, nelle donne con una storia di cancro non melanoma della pelle il calcio e la vitamina “D” riducevano il rischio di melanoma di quasi il 55% (HR = 0.43, P = 0,38), mentre in quelle con negatività di tale anamnesi non vi era alcuna riduzione del rischio (HR = 1,02). L'analisi separata dei dati del WHI rivelava anche che le donne con i più bassi livelli sierici di 25-idrossivitamina “D”, all'inizio dello studio, andavano incontro a un rischio maggiore di melanoma. La ricerca, peraltro, non rivelava alcuna riduzione del cancro al seno o al colon, dimostrando solo una lieve riduzione delle fratture all'anca con la supplementazione. Secondo gli AA, tale studio sembrerebbe, pertanto, indicare che chi presenta una storia positiva di basalioma o di carcinoma a cellule squamose della pelle, essendo a maggior rischio di melanoma, dovrebbe essere trattato preventivamente, per ridurlo, con supplementi di vitamina “D” e calcio.


Integratori di Vit. “D” e rischio di cancro al seno

Laura N. Anderson e colleghi del Cancer Care Ontario, in Toronto, Canada, sulla base della non chiara associazione tra la vitamina “D” e la riduzione del rischio di cancro al seno, anche in rapporto allo stato menopausale, hanno utilizzato il Registro Tumori dell’Ontario, identificando 3.101 donne, tra i venticinque e i settantaquattro anni, con diagnosi tra il giugno 2002 e l’aprile 2003 di primo tumore al seno, patologicamente confermato, e utilizzando come controllo 3.471 donne senza tumore (Am J Clin Nutr 2010 91:6 1699-1707). Lo studio ha fornito alcune prove sull’associazione indipendente della riduzione del rischio di cancro al seno con l'uso degli integratori della vitamina, ma non nell'assunzione del solo cibo o delle combinazioni. Sembrerebbe, difatti, che ci possa essere una soglia a> 10 mcg / die (400 UI / die) per gli integratori vitaminici. D’altra parte, non si è osservato nessun OR significativo del rischio di cancro con l'assunzione di calcio alimentare, integratori o combinato in totale. Tuttavia, si è delineata una significativa tendenza inversa tra le categorie di utilizzo del supplemento di calcio.  

Da notare che Gissel e collaboratori dell’Aarhus University Hospital, Denmark, nella loro meta-analisi sull'associazione tra assunzione di vitamina “D” e rischio di cancro al seno, avevano identificato un totale di 1.731 studi, ma solo sei contenenti i dati originali (Steroid Biochem Mol Biol2008;111:195). Nel complesso, non dimostravano alcuna associazione tra la quantità di vitamina e il rischio di carcinoma mammario (RR = 0,98, 95% CI: 0,93-1,03, test per l'eterogeneità p <0,01). Tuttavia, la maggior parte dei trial riportava apporti molto bassi di vitamina, nel range di 100-400 UI / die. Limitando l'analisi alle assunzioni maggiori o uguali a 400 UI / die, si otteneva, invece, un risultato più omogeneo, con una tendenza verso la riduzione del cancro, rispetto al più basso consumo inferiore ai 50-150 UI / die (RR = 0,92, 95% CI: 0,87-0,97, p per eterogeneità 0,14).

Laura N. Anderson e collaboratori in un successivo studio hanno valutato, tra il 2003  e il 2004 in una popolazione caso-controllo dell’Ontario di  3.101 pazienti e 3.471 controlli, la correlazione tra radiazioni ultraviolette solari, e quindi tra la produzione consequenziale cutanea di vitamina “D”, con il rischio di cancro al seno (2011 Am. J. Epidemiol. kwr091 first published online June 9). Il tempo trascorso all'aria aperta si dimostrava associato a un ridotto rischio di cancro per quattro periodi della vita (> 21 vs ≤ 6 ore / settimana per età odds ratio aggiustato (OR) = 0,71, intervallo di confidenza al 95% (IC): 0,60, 0,85 nell’età adolescenziale; OR = 0,64, 95% CI: 0,53, 0,76 negli anni '20-'30; OR = 0,74, 95% CI: 0,61, 0,88 negli anni '40-'50, e OR = 0.50, 95% CI: 0,37, 0,66 negli anni '60-‘74). Le pratiche di protezione solare e i raggi ultravioletti non risultavano associati al rischio di cancro al seno. Un punteggio combinato di vitamina “D” solare, incluse tutte le variabili riguardanti la produzione di vitamina, era significativamente associato a un minor rischio di cancro al seno. Tutte le correlazioni non erano suscettibili ai fattori confondenti o modificati dallo stato menopausale, dietetico di vitamina “D” o dall'esercizio fisico.


La Vit. “D”può proteggere contro le ricorrenze del cancro al seno? 

Elizabeth T. Jacobs e collaboratori dell’Arizona Cancer Center in Tucson, sulla base della scarsità delle ricerche concernenti la vitamina “D” in correlazione alle recidive dopo trattamento del cancro al seno, hanno voluto valutare quest’associazione nello studio WHEL (Women's Healthy Eating and Living) di 3.085 partecipanti. I ricercatori hanno utilizzato 512 coppie di caso-controllo, stimando la relazione tra dieta, integratori e assunzione totale di vitamina “D” con le ricorrenze del cancro. Non si osservava nessuna relazione e, rispetto alle donne con le concentrazioni sieriche di 25 (OH) D ≥ 30 ng / mL, gli odds ratio (95% CI), rettificati per la ricorrenza del cancro della mammella, erano 1.14 (0.57, 2.31) per le concentrazioni <10 ng / ml, 1,00 (0,68 -1,48) per quelle ≥ 10 e <20 ng / mL e 1,05 (0,76, 1,47) per quelle ≥ 20 e <30 ng / mL. Nessuna associazione significativa si dimostrava sulle analisi stratificate in base allo stato della pre e post-menopausa o per la recidiva locale, regionale o lontana o la morte.In definitiva, la vitamina non era correlata alla recidiva del tumore al seno, anche se tra le donne in premenopausa si segnava una significativa associazione inversa tra l’assunzione della sostanza nella dieta e la ricorrenza della temibile malattia (p per trend = 0,02).