notiziario Novembre 2013 N.10 PASSAPORTO SALUTE CARDIOVASCOLARE: aggiornamento sulla prevenzione cardiovascolare

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NOTIZIARIO Novembre 2013 N°10

 

PASSAPORTO SALUTE CARDIOVASCOLARE:

aggiornamento sulla prevenzione cardiovascolare

 

 

 

 

 

 

A cura di:
Giuseppe Di Lascio §

 

Con la collaborazione di:

Doriana Bauzulli *, Alessandro Di Lascio**
Andrea Levi Della Vida §, Simonetta Melilli §
Claudio Stazzi §, Elena Zimmatore §
 
§ Medico specialista in Medicina Interna
* Coordinatrice degli Infermieri, ** Fisioterapista

La recente proposta di valutazione del rischio cardiovascolare

Gli obiettivi delle istituzioni sanitarie e delle organizzazioni scientifiche sono sempre più rivolti alla prevenzione cardiovascolare e a definire, attraverso la formazione professionale e la ricerca, le strategie migliori per migliorare la salute dei malati. A tale scopo, si sono sviluppate e sono in continuo aggiornamento le linee guida e le promozioni per le cure ottimali. Peraltro, è sempre stata più volte sottolineata l'importanza della nutrizione e storicamente è stato sempre di crescente e predominante interesse e al centro della ricerca scientifica il ruolo dei componenti della dieta. In particolare, nel corso degli ultimi anni sono stati valutati con studi randomizzati i diversi modelli alimentari e il loro rapporto con i risultati sulla salute. In tale ambito, la dieta mediterranea ha permesso di verificare diversi vantaggi sul rischio cardiovascolare e ha portato a implementare il consumo dei suoi costituenti principali quali: la frutta, particolarmente fresca, le verdure, i cereali integrali, il pesce ricco degli acidi grassi omega – 3, i latticini poveri dei grassi, l’olio di oliva o di canola, la frutta secca, come noci, mandorle, nocciole. Per altro verso, la dieta mediterranea ha proposto bassi contenuti della carne rossa. In definitiva, essa ha teso a far consumare una quantità moderata dei grassi totali, corrispondente al 32 - 35% delle calorie totali, con un relativamente basso contenuto dei grassi saturi, corrispondenti al 9 - 10% delle calorie totali, un alto contenuto di fibre in circa 27-37 gr / die e una quota elevata di acidi grassi polinsaturi, in specie omega-3.

Bisogna, però, segnalare i preoccupanti ultimi dati disponibili ISTAT del 2009 che indicano le malattie cardiovascolari, anche in Italia, come prima causa di morte con 224.830 decessi, il 38,2% del totale. In particolare, le donne sono interessate con 127.060 decessi, pari al 42,1%, mentre gli uomini sono al secondo posto dei totali dopo i tumori con 97.770, il 34,1%.

Tutto quanto riportato è ampiamente considerato nelle nuove raccomandazioni sulla gestione degli adulti a rischio per le malattie cardiovascolari, sviluppate in collaborazione tra l'ACC (American College of Cardiology) e l’AHA (American Heart Association).

Per quanto riguarda la valutazione del rischio, inserita nello sviluppo di queste linee guida, gli studiosi hanno tentato di definire le pratiche che potessero soddisfare le esigenze dei pazienti in più circostanze, senza sostituirsi, però, al giudizio clinico. Si è affermato, infatti, che, alla luce delle particolari contingenze differenziali, la decisione ultima su una particolare cura deve essere presa dal medico curante e dal paziente. David Goff dell’University of Colorado, Denver e collaboratori, nell’ambito della valutazione del rischio cardiovascolare, hanno cercato di sviluppare e raccomandare, come possibile guida nella cura dei malati, un nuovo approccio per una sua valutazione quantitativa (Circulation. November 12, 2013). In particolare, partendo dal precedente FRS (Framingham Risk Score), il nuovo algoritmo ha incluso il rischio di afro-americani e bianchi di 40-79 anni di età, non ispanici di ambo i sessi, per l‘ictus e le malattie cardiovascolari a dieci anni. Esso è stato definito come quella condizione di sviluppare un primo evento, come l’infarto del miocardio non fatale o la morte coronarica o l’ictus fatale e non, per un periodo di dieci anni, e, quindi, a breve termine in persone libere da un’iniziale cardiopatia o cardiovasculapatia. Peraltro, i marcatori del rischio, che emergono dalle coorti come predittivi più forti del rischio a dieci anni, sono stati considerati: il sesso, la razza, il colesterolo totale, le lipoproteine ad alta densità, la pressione sanguigna, la condizione di trattamento della pressione arteriosa, il diabete, il fumo corrente.

Per la prevenzione primaria si è ritenuto ragionevole raccomandare ogni 4-6 anni la valutazione del rischio già dall’età dei venti sino ai settantanove. In tal modo, in via secondaria, ma non meno importante, è stato definito il rischio a lunga distanza, cioè per l’intera vita, calcolato per gli adulti con meno di cinquantanove anni, senza rischi a breve termine. Tutto ciò è stato mosso dalla preoccupazione di combattere la malattia cardiovascolare aterosclerotica, che rimane la prima causa di morte e una delle principali cause di disabilità e gravità di costi per l’assistenza sanitaria. La prevenzione rimane, quindi, la strategia di lotta migliore da sviluppare con un metodo di elevata qualità, tenendo conto dell’età, del fumo, del diabete, dei valori del colesterolo, della pressione arteriosa e di tutti gli altri fattori di rischio che possono facilmente essere raccolti nel corso dell’assistenza di base. Obiettivo importante è quello di ricavare, nell’intento di ottenere i più validi orientamenti d’impostazione del trattamento, un punteggio globale del rischio che stratifichi i pazienti per sua intensità.

Alcuni quesiti, anche comuni nei professionisti, hanno contribuito a stimolare nelle linee guida delle risposte pratiche.

Gli Autori, in effetti, si sono domandati:

Ne sono, quindi, derivate le seguenti raccomandazioni:

Inoltre, come punti non trascurabili per la definizione del rischio intermedio, è stata introdotta la storia familiare nei parenti di primo grado di sesso maschile con meno di cinquantacinque anni o di sesso femminile con meno di sessantacinque. I limiti della CRP sono stati portati a 2 mg / L, quelli del punteggio del calcio a 300 unità Agatston e dell'ABI (Ankle -Brachial Index) a 0.9.

Peraltro, sulla base delle nuove linee guida sul colesterolo, pubblicate quasi in contemporanea, i soggetti senza evidenza di malattia cardiovascolare o diabete, ma con livelli del colesterolo LDL tra 70 e 189 mg / dL e con un rischio a dieci anni di malattia aterosclerotica cardiovascolare > 7,5%, sono stati indicati candidati per la terapia con le statine. Pur tuttavia, alcuni studiosi, a proposito di quanto sopra, hanno già ritenuto che questo nuovo calcolatore sovrastimi il rischio e amplifichi la coorte di persone che deve far uso delle statine. Di fatto, il calcolatore sopravvaluterebbe, secondo l’area geografica, il rischio dal 75 al 150% così che con la sua applicazione si dovrebbero prescrivere le statine anche a molte persone che hanno più da perdere che da guadagnare. Certo, l’intenzione degli studiosi, incaricati a sviluppare una piattaforma di valutazione dei rischi, era di aiutare a identificare gli individui a rischio abbastanza alto da meritare la terapia intensiva per un reale beneficio, ma con il minimo danno.

            In conclusione, rispetto ai principi di valutazione del rischio delle precedenti linee guida, il nuovo documento si differenzia per aver:

Le nuove linee guida, di fatto, sono una svolta radicale rispetto alle precedenti, soprattutto nei riguardi del valore dei livelli specifici del colesterolo per la definizione del trattamento.


Densità del calcio delle coronarie e rischio cardiovascolare

Le attuali indicazioni nella prevenzione primaria della malattia cardiovascolare (CVD) pongono l’accento sulla necessità di trattare gli individui in base al loro rischio cardiovascolare globale. Di conseguenza, le linee guida raccomandano strategie di approccio personalizzate per il paziente, che vanno distinti in soggetti ad alto, medio o basso rischio con il punteggio di Framingham (FRS) o altra analogo modello di previsione di CVD. Tuttavia, vi è un crescente riconoscimento dell’imprecisione di queste classificazioni, per cui il gruppo a rischio intermedio, in realtà, rappresenta un insieme d’individui anche ad alto rischio cui sarebbe indicata una terapia più aggressiva. Lo stesso gruppo, però, può contenere anche soggetti a basso rischio in cui la CVD può essere gestita con i soli e semplici cambiamenti dello stile di vita. Questo insieme di condizioni impone la necessità d’identificare i marcatori in grado di offrire la maggiore differenziazione dei pazienti a rischio, soprattutto all'interno del gruppo intermedio.

Studi osservazionali prospettici hanno recentemente condotto un'analisi comparativa dei fattori aggiuntivi di rischio, che potrebbero migliorare la previsione del rischio stesso. Sono stati, così, considerati la proteina C reattiva, l’omocisteina, i punteggi del rischio genetico, la FMD (brachial flow–mediated  dilation), l’ABI (ankle-brachial index), la CIMT (intima–media thickness) e molti altri.  

Il più convincente negli studi comparativi è apparso il punteggio CAC (coronary artery calcium) dell’arteria coronarica.

Il CAC, misurato mediante CT (computed tomography), ha dimostrato un forte valore predittivo per l’incidenza degli eventi di CVD (cardiovascular disease). Il punteggio CAC è lo standard Agatston con tutto ciò che è ponderato verso l'alto per una maggiore densità del calcio. Tuttavia, alcuni dati suggeriscono che la maggiore densità del calcio nella placca aterosclerotica possa avere un effetto protettivo per la CVD. Diversi studi, infatti, confrontando la malattia coronarica acuta con quella stabile CHD (coronary heart disease), hanno anche mostrato la stabilità della placca calcificata densa nella stessa CHD. Inoltre, un recente studio di CT ha dimostrato che la maggioranza delle persone con CAC aveva placche calcificate con rischio di CHD nettamente inferiore, rispetto ai pazienti con alcune o tutte le placche non calcificate. Peraltro, studi randomizzati di terapia con le statine hanno evidenziato la tendenza nei gruppi trattati di una maggiore progressione del CAC (coronary artery calcium), compatibile con la stabilizzazione della placca.

La metodologia standard per classificare la quantità della CAC dalle scansioni della CT è il metodo Agatston e il software che applica questo sistema semiautomatico di punteggio è ampiamente utilizzato. Il punteggio Agatston è il prodotto dell'area all'interno della sezione della CAC della placca e un fattore di densità specifica della stessa di 1, 2, 3, o 4, sommati per tutte le sezioni cardiache della CT. Il fattore di densità riflette le crescenti categorie di unità Hounsfield (HU). Il punteggio Agatston è ponderato, quindi, verso l'alto per la densità maggiore della CAC.

Nonostante il forte valore predittivo della CAC per la CVD, vi è stato solo uno scarso confronto rigoroso, sia per la sua specifica misura predittiva e sia per un punteggio della CAC sopra dosato che possa essere appropriato per una maggiore densità. Pur tuttavia, l’aggiunta dello studio della CAC torna, di certo, utile per il processo decisionale clinico, per la contrapposizione tra i pazienti a basso e alto rischio. Difatti, un punteggio normale della CAC tipo A, cioè zero, in un paziente potrebbe essere sufficientemente rassicurante per evitargli i trattamenti farmacologici. Questo risultato rivela chiaramente sviluppi postivi individuali, ma anche sociosanitari nelle valutazioni dell’analisi costo-efficacia.

Joseph Yeboah della Wake Forest University School of Medicine, Winston-Salem, North Carolina e collaboratori hanno voluto esaminare il miglioramento oggettivo della previsione degli incidenti CHD / malattia cardiovascolare (CVD) tra i marker del rischio tra i partecipanti a rischio intermedio (FRS > 5 % - < 20%) dello studio MESA (Multi-Ethnic Study of Atherosclerosis).

Hanno, quindi, arruolato 6.814 partecipanti del MESA dal luglio 2000 al settembre 2002 con follow-up fino al maggio 2011, provenienti da sei centri degli Stati Uniti, di cui 1.330 a rischio intermedio, senza diabete mellito e con dati completi su tutti i sei marcatori: CAC, FMD, ABI, CRP, CIMT, storia familiare di malattia cardiaca. Per stimare le hazard ratio (HR), gli Autori hanno utilizzato i modelli di rischio proporzionale di probabilità, ponderate di Cox.

L’incidente di CHD era definito dall’infarto miocardico, dall’angina seguita dalla rivascolarizzazione, dalla resuscitazione dall’arresto cardiaco, o dalla morte per malattia coronarica. L’incidente di CVD, inoltre, includeva l’ictus o la morte cardiovascolare.

Dopo un follow-up medio di 7,6 anni (IQR di 7,3-7,8), accadevano novantaquattro CHD e centoventitré eventi cardiovascolari. Nell’analisi multivariata il calcio dell’arteria coronarica, l’indice caviglia - braccio, la PCR ad alta sensibilità e la storia familiare risultavano indipendentemente associati con la malattia coronarica (HR di 2.60 [IC 95% di 1,94-3,50], HR di 0.79 [IC 95% di 0.66 - 0,95], HR di 1.28 [IC 95% di 1,00-1,64] e HR di 2.18 [IC 95% di 1,38-3,42] rispettivamente).

Nell’analisi multivariata lo spessore intima-media della carotide e la dilatazione flusso-mediata brachiale non erano, invece, associati con la malattia coronarica (HR di 1.17 [IC 95% di 0,95-1,45] e HR di 0.95 [IC 95% di 0,78-1,14]). Sebbene l’aggiunta autonoma dei marcatori agli FRS più la razza / etnia migliorasse l’AUC, il calcio coronarico offriva l'incremento più alto (0,623 vs 0,784), mentre la dilatazione flusso-mediata brachiale aveva la minima indicazione (0,623 vs 0,639). Per l’incidente di CHD, il netto miglioramento della riclassificazione per la coronaropatia era il calcio con 0,659, mentre la dilatazione flusso-mediata brachiale era 0024, l'indice caviglia - braccio 0036, lo spessore intima-media carotidea 0.102, la storia familiare 0.160 e la PCR ad alta sensibilità 0079. Risultati simili si ottenevano per l’incidente di CVD.

In conclusione, nei soggetti a rischio intermedio il calcio coronarico, l’indice caviglia-braccio, la PCR ad alta sensibilità e la storia familiare erano predittivi indipendenti d’incidente di CHD / CVD. Il calcio coronarico forniva, inoltre, la discriminazione maggiore e la migliore riclassificazione del rischio, rispetto agli altri marcatori (JAMA. 2012;308(8):788-795).

Per loro conto, Michael H. Criqui dell’University of California, San Diego, La Jolla e collaboratori, per verificare il ruolo della densità CAC nella previsione del rischio di CVD, hanno utilizzato i dati dello studio MESA (Multi-Ethnic Study of Atherosclerosis), stabilendo, con l’uso del punteggio Agatston e i punteggi individuali, una formula che assegnasse a ogni partecipante un volume di densità CAC (JAMA. 2013 Nov 18. doi: 10.1001/jama.2013.282535). Di poi, gli Autori hanno valutato le associazioni indipendenti dei punteggi del volume e della densità con il rischio degli eventi cardiovascolari. Hanno, quindi, ipotizzato che a qualsiasi dato di carico di volume di CAC della placca la densità maggiore fosse inversamente proporzionale agli incidenti degli eventi cardiovascolari. Il MESA era condotto presso sei centri USA su 3.398 uomini e donne provenienti da quattro gruppi di razza / etnia: bianchi non ispanici, afro-americani, ispanici e cinesi. I partecipanti, seguiti fino all’ottobre 2010, di età compresa tra i quarantacinque e gli ottantaquattro anni, senza nessuna iniziale malattia cardiovascolare nota, avevano CAC maggiore di zero alla valutazione CT basale. Durante una media di follow – up di 7,6 anni si valutavano tutti gli episodi di CHD e di CVD. Si registravano, quindi, centosettantacinque eventi coronarici e altri novanta cardiovascolari per un totale di duecentosessantacinque. Sia con i punteggi del volume lnCAC sia della densità CAC nello stesso modello multivariato, il volume lnCAC mostrava un'associazione indipendente con l’incidente di CHD con un hazard ratio (HR) di 1.81 (IC 95% di 1,47-2,23) per l’aumento della deviazione standard (SD = 1.6) e per il rischio assoluto di 6,1 per 1.000 anni-persona. Per la CVD mostrava anche un’associazione indipendente con un HR di 1,68 (IC 95% = 1,42-1,98) per l'aumento della SD e del rischio assoluto di 7,9 per 1.000 anni-persona. Al contrario, il punteggio della densità CAC mostrava un'associazione inversa indipendente con lo HR di 0,73 (IC 95% = 0,58-0,91) per l’aumento della SD (SD = 0.7) della CHD, rischio assoluto diminuito di 5,5 per 1.000 anni-persona e un HR di 0,71 (IC 95% <0 0,60-0,85) per CVD per un aumento della SD, diminuzione del rischio assoluto di 8,2 per 1.000 anni-persona. Nel gruppo intermedio del rischio cardiovascolare l'area sotto la curva per la CVD aumentava da 0,53 (IC 95 = 48-, 59) a 0,59 (IC 95% = 0,54-, 64), P = .02.

In conclusione, secondo gli Autori il volume CAC si associava positivamente e indipendentemente con la malattia coronarica e il rischio cardiovascolare. A qualsiasi livello di volume della CAC, la densità CAC era inversamente e significativamente associata con la malattia coronarica e il rischio cardiovascolare. Pertanto, gli Autori suggerivano la misura della densità CAC nella valutazione attuale dei sistemi di punteggio.


Le recenti linee guida sullo stile di vita per la prevenzione cardiovascolare

L'ACC (American College of Cardiology) in collaborazione con l’AHA (American Heart Association) ha anche emanato le nuove raccomandazioni sulla gestione dello stile di vita per ridurre il rischio cardiovascolare degli adulti a rischio per le malattie cardiovascolari.   

In particolare, Robert Eckel dell’University of Colorado e collaboratori si sono posti l’obiettivo di rivalutare e aggiornare il concetto dello stile di vita sano, soprattutto in rapporto  alla prevenzione della progressione della malattia cardiovascolare nei pazienti a rischio (Circulation. 2013 Nov 12). Le raccomandazioni riguardano gli elementi che si riferiscono alle abitudini alimentari, all’assunzione dei nutrienti e ai livelli e ai tipi di attività fisica che si devono svolgere. Tutto ciò costituisce un importante fattore per la prevenzione delle malattie cardiovascolari, poiché si colpiscono alle basi i fattori modificabili del rischio, come il colesterolo LDL e l’ipertensione. Le linee guida pongono l’accento sull’importanza del mangiare sano, adattandosi a un modello di dieta ricca di frutta, verdura, cereali integrali, pesce, latticini a basso contenuto di grassi, pollame magro, noci, verdura e oli vegetali. Questi alimenti, in effetti, costituiscono la base della dieta Mediterranea o DASH. Si suggerisce anche la limitazione del consumo dei grassi saturi, grassi trans, dolci e bevande zuccherate.

L’aderenza a una simile dieta ha dimostrato, in effetti, di ridurre del 35% il rischio relativo di morte cardiovascolare, del 14% quella dell’infarto miocardico, del 19% quella dell’ictus e del 28% quella dell’insufficienza cardiaca congestizia, rispetto al consumo di una dieta più povera.

Questi sono, difatti, i risultati di Mahsid Dehghan della McMaster University, Hamilton, ON e collaboratori, applicati a livello globale in quaranta paesi, che evidenziano la vantaggiosa sinergia della nutrizione con gli effetti protettivi del farmaco (Circulation. 2012; 126: 2705-2712). A tale proposito, vien spesso da notare che chi ha una storia di malattia cardiovascolare e assume farmaci ritiene di fare abbastanza ai fini della lotta contro la malattia. S’ignora, invece, che aderendo a una dieta sana si possono ottenere risultati ancora migliori. Nella loro analisi nutrizionale gli Autori hanno utilizzato su un totale di 31.546 uomini e donne di età media di sessantasette anni, arruolati in due paralleli studi clinici in doppio cieco, randomizzati, multinazionali un FFQ (food frequency questionnaire) con venti domande sulle abitudini alimentari degli ultimi dodici mesi.

Lo scopo era di valutare gli effetti degli agenti antipertensivi telmisartan e ramipril o la loro combinazione (ONTARGET) o il telmisartan vs il placebo (TRANSCEND) in 733 centri di quaranta paesi a medio e alto reddito. La dieta sana era definita dall’elevato apporto di frutta, verdura, cereali integrali, noci e pesce, rispetto alla carne e alle uova. Di poi, in base ai FFQ si sono usati due indici di qualità alimentare per la valutazione del DRS (Diet Risk Score) e dell’AHEI (Alternative Healthy Eating Index) modificato.

L'associazione tra la qualità alimentare e l'esito primario composito di morte cardiovascolare, d’infarto miocardico, d’ictus o di CHF (congestive heart failure) era valutata utilizzando il modello di Cox dei rischi proporzionali, aggiustata per l'età, il sesso, l'allocazione d’iscrizione al trial, l’area geografica e altri noti fattori confondenti. I pazienti nei più sani quintili dell’AHEI modificato presentavano un rischio significativamente più basso di malattia cardiovascolare con un hazard ratio di 0,78 tra il più alto vs il più basso quintile. L’associazione protettiva rimaneva consistente, indipendentemente dal fatto che i pazienti ricevessero farmaci.

In conclusione, i dati suggerivano che almeno il 20% delle recidive delle malattie cardiovascolari sarebbe stato evitato seguendo una dieta sana, dando buon credito al valore della tipica dieta mediterranea.


Importanza del sale nella dieta

Insomma, una dieta sana per il cuore, ricca di frutta, verdura, noci, cereali integrali e pesce, riduce significativamente la possibilità di un secondo attacco cardiaco o d’ictus o di morte e si propone come fattore di protezione più consistente dei farmaci. I medici dovrebbero, quindi, incoraggiare insistentemente i loro pazienti ad alto rischio a migliorare i termini della loro dieta, tenendo in buon conto il gran valore di persuasione che è in loro possesso.

Ritornando alle linee guida redatte sullo stile di vita sano da Robert Eckel e collaboratori, si fa menzione che le vitamine e i minerali devono essere comunemente consumati con gli alimenti. Nello stesso tempo per determinati risultati di salute s’invita a valutare l'effetto delle singole sostanze. In particolare e in rapporto al rischio cardiovascolare, si considera giustificata una revisione sistematica sugli effetti individuali del sodio e del potassio. In effetti, gli altri minerali, pur considerati, come il calcio e il magnesio, non vengono inclusi nella revisione sistematica per il loro consumo limitato e per la loro presenza scarsa e peraltro ristretta a pochi cibi specifici o a gruppi di alimenti. Il sodio, invece, che si trova in genere negli alimenti naturali in piccole quantità, viene principalmente aggiunto in corso di preparazione, conservazione e / o al momento del consumo degli alimenti. Pertanto, è molto più possibile alterare artificialmente l'apporto alimentare di questo minerale. L'aggiunta del potassio è valutata come una singola sostanza nutritiva in quanto, indipendentemente da altri nutrienti o alimenti, la sua assunzione può ridurre la pressione arteriosa. Inoltre, l’assunzione del potassio, concomitante a quella del sodio, può ancor più modulare l'effetto di quest’ultimo sulla pressione.

Si ripete che il sodio non dovrebbe superare i 2.400 milligrammi giornalieri, ma, soprattutto negli ipertesi, dovrebbe, a più ragione, essere ridotto a non più di 1.500 mg/die.

Le linee guida precisano, in definitiva, che:

Le linee guida riportano, inoltre, che, seguendo il consiglio di un modello di dieta mediterranea, gli adulti di mezza età o più anziani con diabete mellito tipo 2 o almeno tre fattori di rischio cardiovascolare hanno dimostrato negli studi una riduzione della pressione sanguigna di 6-7/2-3 mm di Hg, rispetto a chi seguiva un regime a basso contenuto di grassi in una forma di vita libera. Invece, in uno studio osservazionale di adulti sani più giovani l'adesione a un modello mediterraneo si è associata con un minor abbassamento della pressione, corrispondente a 2-3/1-2 mm Hg.

D’altro canto, in persone anziane o di mezza età con o senza malattia cardiovascolare o anche ad alto rischio di malattia cardiovascolare l’aderenza a un modello di dieta mediterranea, rispetto a una forma di vita libera, non ha dimostrato alcun effetto consistente sui valori plasmatici delle HDL–C (high-density lipoprotein cholesterol), LDL–C (low-density lipoprotein cholesterol) e TG (triglycerides).

Per altro verso, le linee guida suggeriscono un impegno di attività fisica aerobica della durata di quaranta minuti per sessione per 3-4 volte la settimana, d’intensità da moderata a vigorosa. In effetti, le evidenze epidemiologiche hanno rilevato sostanziali legami tra i più elevati livelli di attività fisica aerobica e i minori tassi delle malattie cardiovascolari e di altre patologie croniche, come il diabete mellito tipo 2. Sono state anche dimostrate le connessioni con la maggiore longevità. Gli studi hanno indicato la presenza di questo legame in forma dose dipendente. Esiste, infatti, un rapporto inverso, in modo curvilineo, di dose-risposta dei livelli più elevati di attività crescente con i tassi proporzionalmente più bassi della malattia cardiovascolare. Le linee guida ripropongono i risultati di una recente stima del 6% di abbattimento mondiale delle malattie cardiovascolari, solo eliminando l’inattività fisica.

Consequenzialmente, la speranza di vita nel mondo potrebbe aumentare di 0,68 anni. I meccanismi proposti al riguardo vengono riferiti agli effetti benefici sui lipidi, sulle lipoproteine, sulla pressione arteriosa e sul diabete mellito di tipo 2. In tale contesto, la perdita e il mantenimento del peso ottimale sono fondamentali per la prevenzione e il controllo dei fattori del rischio cardiovascolare. In particolare secondo uno studio, gli effetti dell'attività fisica sulla pressione arteriosa avrebbero condotto alla riduzione di circa il 27% delle malattie cardiovascolari. Per altro verso, gli effetti benefici dell’attività fisica sui lipidi tradizionali avrebbero potuto ridurne i tassi del 19% e nello stesso modo, per quanto riguarda i nuovi lipidi, del 16%.

Si susseguono, quindi nel documento tavole riassuntive e descrittive dei rapporti tra l’esercizio aerobico e quello di resistenza con la pressione arteriosa, le LDL-C, le HDL-C e i TG.


Consumo del sale nelle regioni europee

Il WHO Regional Office for Europe ha redatto di recente il rapporto “Mapping salt reduction initiatives in the WHO European Region” al fine di implementare gli sforzi nella lotta contro le malattie cardiovascolari, inducendo le popolazioni a ridurre l'assunzione di sale con un’azione strategica di costo-efficacia (ISBN 978 92 890 0017 8). Le malattie non trasmissibili (MNT) sono, in effetti, le principali cause di mortalità a livello mondiale e colpiscono sempre più duramente le popolazioni a basso e medio reddito con quasi l'80 % dei decessi. Le evidenze scientifiche hanno chiarito l'impatto sulla salute del consumo del sale per cui una diminuzione del suo consumo comporta, tra gli altri benefici, una corrispondente riduzione della pressione sanguigna. Di conseguenza per la prevenzione delle malattie cardiovascolari l'OMS raccomanda ormai un livello della sua assunzione inferiore ai 5 g il giorno per persona. Da notare, a tal proposito, che il termine sale è comunemente usato per riferirsi al cloruro di sodio ma che è bene considerare che 5 g di esso corrispondono a 2 g di sodio. Purtroppo, l'assunzione del sale nella maggior parte dei paesi dell'OMS, relativamente alla Regione Europea, si è dimostrata di gran lunga superiore all'importo suggerito. Lo scopo della citata relazione è stato, quindi, quello di presentare una visione attuale delle iniziative vigenti per la riduzione del sale negli Stati membri dell'Unione europea.

Si riporta nel comunicato che le malattie cardiovascolari, settori prioritari della politica sanitaria europea per l’Health 2.020, costituiscono le principali cause di morbilità, disabilità, mortalità e onere di costi complessivi nella Regione Europea dell'OMS. A loro riguardo è di particolare interesse l'associazione tra l’assunzione del sale e l'ipertensione, fattore di rischio noto per l’ictus e le altre malattie cardiovascolari. Pertanto, la riduzione dell'assunzione del sale rappresenta uno dei modi più semplici per combattere l’ipertensione e il rischio d’ictus e delle altre malattie cardiovascolari e renali. Riducendo, in effetti, l'assunzione del sale a meno di 5 g il giorno si ottiene una riduzione del rischio dell’ictus del 23% e delle altre malattie generali cardiovascolari del 17%. Purtroppo, come già accennato, l’assunzione giornaliera della sostanza nella maggior parte degli europei è di circa 8-11 g, quota che supera di gran lunga quella raccomandata dall'OMS.

La pressione sanguigna elevata provoca, di fatto, 7,5 milioni di morti l'anno, l'equivalente di circa il 12,8% di tutte le morti nel mondo. È il fattore di rischio maggiore per le CVD (Cardiovascular Disease) e, di per sé, già principale causa di morte a livello mondiale. Pertanto, l'eccessiva assunzione del sale è legata strettamente alle CVD e negli ultimi decenni essa ha mostrato un crescente aumento, anche in relazione al consumo degli alimenti trasformati. Il processo di transizione storica della nutrizione in Europa è stato, peraltro, definito, come in altri paesi del mondo, dai cambiamenti a livello di popolazione dei consumi alimentari verso una dieta ricca di grassi saturi, zuccheri e alimenti raffinati a basso contenuto di fibre. Tutto quanto con la verifica di un aumento crescente dell’obesità, del diabete, della CVD e del cancro. Questi mutamenti si sono accentuati, inoltre, con il dilagare della così detta modernizzazione dei popoli e della globalizzazione, attraverso lo sviluppo socio-economico, l'urbanizzazione e l’acculturazione. Negli ultimi tre secoli il ritmo dei cambiamenti della dieta e l'attività fisica hanno subito un’accelerazione, anche se in misura diversa nelle varie regioni del mondo, con risvolti decisi sullo stato di salute.

La relazione dell’OMS e dell’United Nations Food and Agriculture Organization del 2003 raccomandava, in effetti, la riduzione del consumo del sale a non più di 5 g / giorno, disponendo anche di garantirne l'adeguata iodizzazione. Ulteriori raccomandazioni dell’OMS sono state aggiunte nel 2006. Nel 2013 si è proceduto al nuovo aggiornamento, confermando un'assunzione di 5 g / giorno per la popolazione adulta e una dose giornaliera massima probabile per i bambini, inferiore ai 2 g / die.  L’Health 2020, per rispondere alle particolari esigenze e alle esperienze della Regione Europea, proponeva, poi, delle aree prioritarie per l'azione politica globale negli Stati membri.

I quattro settori prioritari individuati continuano a essere:

A proposito del quarto punto, l’Unione Europea ha affrontato la problematica del sale negli alimenti per ridurne l'assunzione. Ha identificato, quindi, dodici categorie di prodotti alimentari su cui agire con piani e strategie d'azione nazionali di nutrizione.

Esse sono:

La priorità è stata data alle categorie dei prodotti che di solito rappresentano le più importanti fonti del sale nella dieta media.

In Italia nell'anno 2007 nasceva il GIRCSI (gruppo di lavoro intersocietario per la riduzione del sale con l'impegno e il coinvolgimento attivo di otto partner di società scientifiche italiane. Questa iniziativa del governo, guidata dal Ministero della Salute, si basa su alleanze istituzionali con le regioni e i comuni insieme a collaborazioni con le industrie alimentari, le reti di distribuzione e le associazioni dei consumatori. Il gruppo di lavoro è guidato da professionisti della salute, dalle associazioni dei panettieri, da epidemiologi e da funzionari medici del Ministero della Salute. Esso ha definito gli obiettivi mirati, compresa l'impostazione dei parametri come raccomandato dall’OMS, siglando accordi con le associazioni dei panettieri per gli obiettivi del sale e la riduzione dei contenuti del minerale nei prodotti noti per essere i veicoli più importanti di assunzione nella popolazione. Il gruppo ha anche il compito di provvedere a campagne d’informazione pubblica sulla nutrizione generale, evidenziando la necessità della riduzione del sale attraverso il programma nazionale " Guadagnare salute: rendere facili le scelte salutari ". Nel 2009 si è istituito il programma ministeriale MINISAL- GIRCSI con l'obiettivo primario di valutazione di base e di monitoraggio successivo dell’abituale assunzione del sale nell'adulto, nella popolazione pediatrica e negli ipertesi.

I risultati preliminari di base delle analisi dei dati dei dodici diversi campioni casuali raccolti nel MINISAL-GIRCSI Health Examination Survey, iniziata nel 2008, hanno indicato che la popolazione adulta consuma il sale a livelli più del doppio di quanto consigliato dall’OMS. L’apporto medio di cloruro di sodio giornaliero è stato stimato in 11 g negli uomini e 8 g nelle donne, con un intervallo di 1-27 g e 2-27 g rispettivamente. Lo studio ha riscontrato anche che il 72% delle persone mangia tre fette di pane il giorno e il 22% formaggi e carni lavorate più di quattro volte la settimana.

Il GIRCSI ha teso anche a promuovere accordi con l'industria alimentare per migliorare l'etichettatura dei prodotti, rendendola sempre più comprensibile per il grande pubblico e incoraggiando le aziende ad adeguarsi ai requisiti stabiliti.

 Nel 2009, si ufficializzava un accordo tra il Ministro della salute e le associazioni di panetteria, in cui l'industria s’impegnava a ridurre il sale nel pane e nei prodotti affini del 10-15% nel giro di due anni. Ulteriori coinvolgimenti in queste riduzioni dovevano interessare la ristorazione e tutto il settore alimentare, come ristoranti, pub, bar e catene di fast food.

Per la valutazione e il monitoraggio dei risultati, si redigeva un programma di selezione di un campione rappresentativo della popolazione su base regionale, per sesso ed età, al fine di ottenere una raccolta delle urine delle ventiquattro ore insieme a informazioni demografiche e antropometriche.


Eventi cardiovascolari e farmaci effervescenti contenenti sodio

Come già accennato, l'eccesso di sodio nella dieta costituisce un grave problema di salute pubblica in tutto il mondo. Come risposta a ciò, negli Stati Uniti è stato istituito dall'Istituto di Medicina lo NSRI (National Salt Reduction Initiative), rapporto del 2010 con l'obiettivo di ridurre nel Paese del 20% in cinque anni il consumo del minerale negli alimenti. Si è calcolato che con una riduzione dell'apporto di sodio al valore raccomandato di 2,3 g / die, equivalenti a 100 mmol / L o a un cucchiaino da tè, potrebbero prevenire undici milioni di casi d’ipertensione, risparmiare 18 miliardi di dollari di assistenza sanitaria e guadagnare 312.000 QALY (quality adjusted life years) del valore annuale di 32 miliardi di dollari. Nel Regno Unito la Food Standards Agency ha anche lanciato nel 2002 una campagna per ridurre l'assunzione del sale nei ventisei milioni di persone stimate nel Paese di consumare un elevato apporto di sodio nella dieta. Si è considerato che con una riduzione di 3 g / die di sale, corrispondenti a una di 1,2 g / die di sodio, si potrebbero prevenire oltre 30.000 eventi cardiovascolari e far risparmiare almeno 40 m di sterline /anno allo NHS (National Health Service).

L'eccesso di sodio nei soggetti sani compromette la funzione endoteliale, il rilasciamento ventricolare sinistro e la ripolarizzazione cardiaca. Alcuni di questi effetti potrebbero essere indipendenti dalla pressione sanguigna nei pazienti ipertesi. Pur tuttavia, mentre in generale si sono prodotti notevoli sforzi per ridurre l'assunzione di sale nella popolazione, non ci si è preoccupati abbastanza dell’elevato carico del sodio che può essere ingerito attraverso alcune formulazioni di farmaci, come quelli effervescenti e solubili disperdibili. Ad esempio, in confronto con l’assunzione di sodio raccomandata per un adulto di 2,4 g / giorno, pari a 104 mmol / giorno, le formulazioni effervescenti di paracetamolo 500 mg possono contenere 18.6 mmol e 16,9 mmol di sodio in ogni compressa. Pertanto, la dose giornaliera massima di otto compresse / giorno può portare all’ingestione di 148,8 e 135,2 mmol di sodio. Questo quantitativo supera il totale della raccomandata razione giornaliera del sodio, così che in una tipica dieta occidentale l’aggiunta dei farmaci potrebbe causare un elevato apporto del minerale. Curiosamente, poi, a differenza degli alimenti, le case farmaceutiche, per quanto riguarda l’etichettatura del contento del sodio, non sono vincolate a restrizioni o obblighi.

Jacob George della Ninewells Hospital and Medical School, Dundee- UK e collaboratori hanno ipotizzato che le formulazioni del sodio contenute nei farmaci potesse aumentare gli incidenti cardiovascolari (BMJ 2013;347: f6954). Utilizzando l’ATC (Antithrombotic Trialists’ Collaboration), hanno, quindi, confrontato il rischio degli eventi cardiovascolari nei pazienti con prescrizione delle formulazioni contenenti sodio con quello del trattamento con compresse, standard o prescritte in forme capsulari, degli stessi farmaci antitrombotici. L’endpoint composito era un grave evento vascolare, come l’infarto miocardico non-fatale, l’ictus non-fatale, o la morte vascolare.

Tutti i pazienti, nel numero di 1.292.337, avevano un’età di diciotto anni o oltre e una prescrizione tra il gennaio 1987 e il dicembre 2010 di almeno due formulazioni di sodio.

Il tempo di follow- up medio era di 7,23 anni. Un totale di 61.072 pazienti con un incidente cardiovascolare era abbinato con i controlli. Per l'endpoint primario d’incidente non fatale d’infarto miocardico e d’ictus, o morte vascolare l'odds ratio aggiustato per l'esposizione ai farmaci contenenti il sodio era 1.16 con IC 95% di 1,12-1,21. Gli odds ratio aggiustati per gli endpoint secondari erano 1,22 (1,16-1,29) per l'incidente d’ictus non - fatale, 1,28 (1,23-1,33) per la mortalità per tutte le cause, 7,18 (6,74-7,65) per l'ipertensione, 0,98 (0,93-1,04) per lo scompenso di cuore, 0,94 (0,88-1,00) per l’incidente non fatale d’infarto miocardico e 0,70 (0,31-1,59) per la morte vascolare. Il tempo medio dalla data della prima prescrizione, cioè la data di entrata nella coorte, alla prima manifestazione dell'evento era 3,92 anni.

In conclusione, l'esposizione alle formulazioni dei medicinali effervescenti contenenti sodio, sia in dispersione sia solubile, era significativamente associata con la maggiore probabilità degli eventi cardiovascolari avversi, rispetto alle formulazioni standard di quegli stessi farmaci. Pertanto, ne derivava, secondo gli Autori, il suggerimento di prescrivere questi farmaci con cautela, valutando bene il bilancio dei benefici contro i rischi.


Le recenti linee guida per il controllo del colesterolo

Al controllo del colesterolo si riferiscono anche le ultime linee guida dell’ACC (American College of Cardiology) e dell’AHA (American Heart Association), sviluppate in collaborazione con il NHLBI (National Heart, Lung, and Blood Institute).

Bruce M. Psaty dell’University of Washington, Seattle e collaboratori hanno ripercorso, a tale riguardo, le tappe più importanti toccate nella progressione della terapia anticolesterolica (JAMA. 2013; doi:10.1001/jama.2013.284203).

Nel 1984, il trial del Lipid Research Clinics Program forniva una modesta, anche se controversa evidenza che in prevenzione primaria la colestiramina si associava negli uomini a una riduzione del rischio di malattia coronarica (CHD). Di poi, gli studi epidemiologici, sperimentali su animali e d’intere famiglie hanno provvisto altre prove sull’emergenza di un nuovo fattore di rischio curabile. Il NHLBI (National Heart, Lung, and Blood Institute), convocava, quindi, il NCEP (National Cholesterol Education Program) per sviluppare raccomandazioni circa l'individuazione, la valutazione e il trattamento del colesterolo negli adulti. Il primo ATP (Adult Treatment Panel) utilizzava, quindi, i livelli delle LDL (low density lipoprotein) per definire le soglie, sia dell’avvio del trattamento sia dei suoi obiettivi.   

Poiché i livelli delle LDL erano linearmente correlati al rischio della CHD, la definizione della loro soglia per iniziare il trattamento ipolipemizzante fu oggetto di grande interesse e attenzione. Nel 1988 il livello delle LDL di 160 mg / dL fu stabilito come anormale perché nei valori più alti comportava un rischio rapidamente superiore della CHD e anche perché corrispondeva approssimativamente al 75° percentile per la popolazione statunitense adulta. Al tempo, in effetti, erano disponibili poche terapie sicure ed efficaci e doveva ancora emergere la logica delle soglie per gli altri interventi dietetici e dei farmaci con i dovuti suggerimenti di combattere efficacemente i fattori di rischio curabili.  

Nel corso degli anni, si andava, intanto, allargando e ampliando la cerchia, comprendente professionisti della ricerca, della sanità, dell’industria, delle agenzie di finanziamento, delle associazioni professionali e della stampa, per la discussione comune della prevenzione dell’aterosclerosi e della malattia coronarica. Così che, a volte l’entusiasmo terapeutico per la riduzione dei livelli del colesterolo LDL ha portato a raccomandazioni sui trattamenti farmacologici specifici, quali nel 1993 quello degli estrogeni per le donne in postmenopausa, successivamente rivelatisi di poco o nessun beneficio clinico. Sebbene il primo rapporto ATP specificasse quando ogni trattamento farmacologico fosse indicato per la riduzione degli eventi clinici, quest’approccio è stato successivamente abbandonato. Nel 2001, l'ATP III consigliava tutte le principali classi dei farmaci ipolipemizzanti e nel testo identificava le statine semplicemente come farmaci usuali per avviare la terapia.

Pur considerando gli Autori della revisione del 2004 dell’ATP III cinque grandi studi sulle statine, si evitò, però, di esprimere una preferenza per la scelta del farmaco. Essi interpretarono i risultati dello studio solo nei termini dell’ipotesi del colesterolo, limitandosi a rilevare l'importanza di avviare un farmaco che abbassasse le LDL. In altre parole, le lezioni degli studi sulle statine, eseguiti negli anni prima della relazione del 2004, furono interpretate nei termini dei livelli delle LDL, incoraggiando forse inconsapevolmente l’estrapolazione di altri trattamenti farmacologici. L'inferenza fu sostanzialmente entro gli attesi vantaggi per la salute, derivati dalla riduzione dei lipidi in generale, piuttosto che strettamente in merito al profilo del rischio-beneficio delle particolari statine valutate nei principali trial. Come conseguenza più ampia, sull’onda di tale interpretazione biologica di abbassare i lipidi, le case farmaceutiche furono abili a introdurre sul mercato nuovi farmaci che anche non avevano dimostrato benefici per la salute.

Tutte le relazioni ATP hanno, quindi, usato una combinazione dei livelli delle LDL e dei fattori clinici per definire le soglie e gli obiettivi, approccio che è diventato sempre più complesso nel corso del tempo. Nel primo rapporto ATP c'erano solo due gruppi di trattamento. Con la revisione 2004 il numero delle categorie del rischio era aumentato da due a quattro. Per il gruppo ad alto rischio c'era un obiettivo opzionale e per tre dei quattro gruppi c’erano anche soglie opzionali per avviare l’inizio farmacologico delle cure.

I lavori per le nuove linee guida sul trattamento del colesterolo iniziava, quindi, nel 2008 e nel giugno 2013 lo NHLBI (National Heart, Lung, and Blood Institute) annunciava la pianificazione del loro sviluppo all'ACC (American College of Cardiology) e all’AHA (American Heart Association). Le linee guida 2013 ACC / AHA si realizzavano in una nuova era, condite di recensioni sistematiche per la formalizzazione della loro raccolta, valutazione e assemblaggio di evidenze.

Nel complesso, le nuove linee guida 2.013 ACC / AHA rivelano un forte legame con l'evidenza della sperimentazione clinica. Le soglie del trattamento rispecchiano i criteri di ammissibilità dei trial. Le statine sono chiaramente riconosciute come terapia di prima linea e gli obiettivi target del trattamento sono abbandonati. In assenza del controllo del colesterolo LDL, definito dai loro livelli, questi suggerimenti aboliscono anche un genere tradizionale di articolo di ricerca, ossia le relazioni periodiche alla popolazione circa la consapevolezza, il trattamento e il controllo del colesterolo alto. In luogo del controllo indirizzato su di un livello di colesterolo, gli studiosi hanno bisogno di ridefinirlo nei termini di uso della raccomandata terapia di prima linea nella dose appropriata. L'uso di altre terapie farmacologiche in un paziente senza controindicazioni alle statine sarebbe diventato una nuova forma d’ipercolesterolemia non controllata. L'obiettivo della terapia non è, inoltre, il raggiungimento di un livello target del colesterolo LDL, approccio che in precedenza avrebbe portato anche all’uso di più farmaci. L'obiettivo principale della terapia farmacologica, insomma, è l'adozione di un farmaco di prima linea tra quelli che possono offrire beneficio, condizione rivolta a migliorare la salute dei cittadini.

In particolare, Stone NJ della Northwestern University Feinberg School of Medicine, Chicago, IL e collaboratori hanno definito alcuni cambiamenti sostanziali all’ATP 3 (Circulation nov 2013). In via preliminare, gli Autori hanno riproposto il valore sostanziale dello stile di vita, come cardine della prevenzione delle malattie cardiovascolari. In effetti, aderendo a una dieta sana e a un regolare esercizio fisico, evitando il tabacco e mantenendo un peso ottimale, si risponde con priorità, già prima che con i farmaci, alla lotta contro le malattie croniche. Come novità, in queste linee guida vengono abbandonati i raccomandati target delle LDL e gli obiettivi del non-HDL-colesterolo, ai quali specificamente i medici si affidavano per la cura dei pazienti con malattia cardiovascolare con i valori a meno di 100 mg / dL o con l'obiettivo opzionale inferiore ai 70 mg / dL. Semplicemente, il gruppo di esperti non ha riscontrato dagli studi clinici randomizzati, controllati l’evidenza per sostenere il trattamento per un target specifico. Pertanto, le nuove linee guida per la prevenzione primaria e secondaria della malattia cardiovascolare aterosclerotica non indicano raccomandazioni per i target specifici del colesterolo LDL e non HDL. Invece, individuano quattro gruppi di pazienti per la prevenzione primaria e secondaria sui quali i medici devono concentrare la loro attenzione e i loro sforzi per ridurre gli eventi cardiovascolari. Pertanto, nell’impossibilità di trovare una soglia di un indice ematochimico particolare per valutare il rischio di un singolo paziente, le linee guida focalizzano l’attenzione su questi quattro gruppi di pazienti per le relative raccomandazioni appropriate dell’intensità della terapia con le statine e per ottenere consequenzialmente le riduzioni ottimali del colesterolo LDL. In effetti, nel campo dei lipidi ci sono stati numerosi studi sulle statine sin dal 2001, quali lo HPS, il PROVE-IT, l’ASCOT, il Prosper, l’ALLHAT, il TNT, l’IDEAL, ma si sono susseguiti anche diversi trial senza statine. Due ampi studi hanno interessato la niacina e altri due i fibrati. Si è, peraltro, ancora in attesa del trial IMPROVE-IT sull’ezetimibe. In tal modo, gli Autori delle nuove linee guida hanno avuto modo di una consultazione abbastanza ampia per le migliori decisioni. Peraltro, si è ravvisata l’esigenza di superare la problematicità dell’ATP-3 nell’uso del punteggio del rischio Framingham, che lo sottovalutava nelle donne e per i giovani pazienti. Inoltre, per la più opportuna valutazione dei pazienti a rischio intermedio, si è voluto dare significato al valore di utilizzo dei marcatori infiammatori, in particolare della proteina C - reattiva.

Gli Autori hanno promosso un nuovo concetto di terapia progressiva con le statine da debole a moderata e ad alta intensità. Hanno, così, definito, sulla base degli studi clinici randomizzati, controllati, i quattro gruppi di prevenzione primaria e secondaria dei pazienti da trattare efficacemente con le statine, superando il rischio degli eventi avversi. In particolare, la definizione di elevata intensità coincide alla dose giornaliera dei due farmaci più potenti, l'atorvastatina e la rosuvastatina, capaci di abbassare le LDL-C del 50% e oltre. La moderata intensità corrisponde quasi a tutte le altre statine, eccetto i composti più antichi alla loro minima dose giornaliera. Sono considerate, quindi, moderate l’atorvastatina da 10 o 20 mg, la rosuvastatina da cinque o dieci, la simvastatina da 20-40, la pravastatina da 40-80 e la lovastatina da quaranta.

Tutto quanto in ragione del fatto che il gruppo degli esperti ha trovato ampie e coerenti evidenze per sostenere l'uso delle statine in prevenzione primaria e secondaria negli individui ad alto rischio con ASCVD (Atherosclerotic Cardiovascular Disease), senza insufficienza cardiaca in classe NYHA (New York Heart Association) II-IV, non in cura emodialitica. L’ASCVD clinica è definita dai criteri d’inclusione per gli RCT di prevenzione secondaria con statine, ossia la sindrome coronarica acuta, o la storia d’infarto miocardico, o di angina instabile o stabile, o di altro tipo di rivascolarizzazione, o d’ictus, o di TIA, o di arteriopatia periferica di presumibile natura aterosclerotica. I quattro gruppi di soggetti sono:

  1. Quelli con malattia cardiovascolare aterosclerotica clinica.
  2. Quelli con i livelli di colesterolo LDL > 190 mg / dL o con ipercolesterolemia familiare,
  3. I diabetici d’età dai quaranta ai settantacinque anni con i livelli di colesterolo LDL tra i 70 e i 189 mg / dL e senza evidenza di malattia cardiovascolare aterosclerotica.
  4. Quelli senza evidenza di malattia cardiovascolare o diabete, ma che hanno livelli di colesterolo LDL tra i 70 e i 189 mg / dL e un rischio a dieci anni di malattia cardiovascolare aterosclerotica > 7,5%, calcolato secondo i suggerimenti dell’apposita linea guida.

In definitiva, il primo gruppo è costituito da persone che hanno già passato un evento e malattie cardiovascolari, vuoi un infarto del miocardio, o un’angina instabile, o un ictus o una malattia vascolare periferica. Questi pazienti rientrano nella prevenzione secondaria e sono a più alto rischio e in sostanza per loro non c’è il bisogno di conoscere i valori dei lipidi. Essi devono, comunque, essere inseriti nel gruppo di trattamento con la dose massima e intensiva delle statine per ridurre il rischio di un altro evento. Sono, difatti, i pazienti più gravi e a più alto rischio.

Nel secondo gruppo sono, invece, necessari i livelli delle lipoproteine a bassa densità (LDL) con riferimento ai valori uguali o maggiori di 190 mg / dL. Questi pazienti devono anch’essi essere considerati a rischio molto elevato e devono essere trattati con la terapia intensiva delle statine.

Gli individui del terzo gruppo con diabete sia di tipo 1 sia 2 sono considerati ad alto rischio. Più particolarmente secondo il loro rischio a dieci anni per un evento, anche se non maggiore o uguale al 7,5%, sono inseriti in entrambi i casi in un regime di trattamento con le statine a intensità moderata o alta. Pur tuttavia, se essi sono di età compresa tra i quaranta e i settantacinque anni sono tutti compresi nel trattamento con le statine.

Infine, nella quarta categoria rientrano tutti le altre persone con età dai quaranta ai settantacinque anni. Per essi è importante valutare il rischio a dieci anni per un evento di malattia cardiovascolare che, se maggiore o uguale al 7,5%, divengono candidati per il trattamento con una statina.

Più precisamente, nelle persone con malattia cardiovascolare aterosclerotica, pazienti, quindi, suscettibili della prevenzione secondaria per una storia di malattia cardiaca o ictus, per ottenere una riduzione almeno del 50% del colesterolo LDL, si devono utilizzare le statine ad alta intensità, come la rosuvastatina da 20 o 40 mg o l’atorvastatina da ottanta, salvo controindicazioni o alla presenza di eventi avversi. In tal caso, bisogna usare una statina a intensità moderata.

Allo stesso modo, per le persone con i livelli di colesterolo LDL > 190 mg / dL bisogna usare una statina ad alta intensità con l'obiettivo di raggiungerne una riduzione perlomeno del 50%. Tutto questo poiché non vi sono le evidenze del trattamento sulla base dei valori delle costanti lipidiche che, però, devono essere costantemente e ripetutamente misurate.

Nei diabetici dai quaranta ai settantacinque anni di età, si deve utilizzare una statina a moderata intensità per ridurre il colesterolo LDL dal 30 al 49%. Pur tuttavia, in caso di rischio a dieci anni di malattia cardiovascolare aterosclerotica pari o superiore al 7,5%, la scelta più ragionevole è quella del farmaco ad alta intensità.

Nelle persone di età compresa tra i quaranta e i settantacinque anni, senza malattia cardiovascolare o diabete, nel caso di rischio maggiore del 7,5% a dieci anni di eventi clinici e in ogni caso con un livello di LDL - Colesterolo di 70-189 mg / dL, il comitato raccomanda un trattamento con la statina a moderata o alta intensità.

Nelle decisioni di terapia per la prevenzione primaria s’insiste, comunque, sul fatto che il paziente e il medico devono discutere insieme per definire i benefici e i rischi specifici personali della terapia, in modo da adeguarla alle caratteristiche e alle preferenze del paziente stesso. Questo per alcuni studiosi è importante per quei casi che, pur rientrando nello schema della terapia con le statine, non presentano nel complesso clinico le indicazioni dirette e obbligate della terapia. Per la valutazione del livello del rischio del paziente, il gruppo degli esperti ha anche sviluppato un nuovo strumento globale di valutazione del rischio. Il nuovo punteggio è stato progettato per la valutazione del rischio di un evento cardiovascolare iniziale e comprende partecipanti provenienti da coorti geograficamente e razzialmente diverse.

Pur tuttavia, secondo queste nuove linee guida, se un individuo non dovesse rientrare in uno dei quattro gruppi per la terapia con le statine, si potrebbero considerare ulteriori fattori per fugare ogni dubbio. Essi comprendono la storia familiare di malattia cardiovascolare prematura aterosclerotica in un parente di primo grado, la PCR ad alta sensibilità > 2 mg / L, la presenza di calcificazione coronarica > 300 unità Agatston e un indice caviglia-brachiale <0.9.

Per il monitoraggio della terapia con le statine, le linee guida hanno derivato le indicazioni da un elevato carico di evidenze che ne hanno supportata la stesura. Si consiglia in via iniziale l’utilizzo di un profilo lipidico a digiuno con il rilievo dei livelli basali di: colesterolo totale, trigliceridi, HDL - C, LDL – C. Il controllo di questi parametri deve essere seguito da un secondo pannello lipidico da quattro a dodici settimane per verificare l’efficacia della terapia con le statine e per accertare l'aderenza del paziente a essa. In seguito, le valutazioni devono essere eseguite ogni 3-12 mesi. Nei casi di risposta terapeutica non corrispondente alle attese, si deve rafforzare l'aderenza alla cura e allo stile di vita, ma bisogna anche escludere le possibili cause secondarie d’iperlipidemia. L'aderenza ai farmaci e allo stile di vita, in ogni caso, costituiscono entrambe le condizioni necessarie per la riduzione del rischio della malattia cardiovascolare. Pur tuttavia, dopo l’avvio della terapia con le statine, si rilevano in alcuni casi effetti negativi inaccettabili, soprattutto nelle formule di dosaggio ad alta intensità. Una volta, quindi, che si riconosca la responsabilità e la gravità degli effetti avversi con la terapia, risolto il problema, si possono usare dosi più basse dello stesso farmaco o un altro in alternativa sino a non registrare più quegli effetti negativi. Da notare, però, che la percentuale di riduzione delle LDL-C può indicare non solo l'adesione alla terapia, ma anche riflettere la variabilità biologica alla risposta al farmaco.  

In caso di mancata risposta terapeutica alle attese, può essere d’aiuto monitorare la presenza o meno della riduzione media delle LDL- C a ≥ 50% nell’uso della dose di massima intensità e del 30 sino a meno del 50% nell’uso della moderata intensità, rispetto alla linea di partenza della cura. I livelli del colesterolo LDL e la riduzione percentuale devono, comunque, essere utilizzati solo per la valutazione della risposta alla terapia e all’aderenza a essa e non come standard della prestazione.

Le linee guida riportano, peraltro, che, in caso di trattamento con le statine con valori di C-LDL sconosciuto di base, nella maggior parte dei soggetti dei trial clinici randomizzati trattati con le statine ad alta intensità, erano osservati valori inferiori ai 100 mg / dl.

In definitiva, gli aggiornamenti significativi di tutto il set delle linee guida comprendono l'abbandono dei target delle LDL e degli obiettivi del non-HDL-colesterolo, l'aggiunta dell’ictus per la valutazione del rischio cardiovascolare, l'aumento di valutazione della dieta mediterranea e i cambiamenti dei cut-off della BMI (Body mass index) per definire l'inizio della terapia dell'obesità. In particolare, poi, il cambiamento riguarda le raccomandazioni sulla prevenzione secondaria con la terapia con statine ad alta intensità per un C-LDL superiore a 190 mg / dL, salvo che il paziente non sia oltre i settantacinque anni per cui si propone la moderata intensità. Inoltre, il diabete proietta il paziente direttamente in prevenzione secondaria e richiede un calcolo del rischio cardiovascolare per valutare se supera il 7,5% per doverlo trattare con le statine ad alta intensità. In caso contrario, si usano statine a moderata intensità. Ancora, nella prevenzione primaria dei pazienti di età dai quaranta ai settantacinque anni con calcolo del rischio cardiovascolare superiore al 7,5% si devono usare le statine a moderata o ad alta intensità. Non sono riportate raccomandazioni in presenza delle comorbidità, come l’insufficienza renale cronica o lo scompenso cardiaco in cui non si dovrebbero usare le statine per mancanza di evidenze sulla loro efficacia.


Le statine per la prevenzione primaria degli eventi cardiovascolari nelle donne

In appendice a quanto riportato, è interessante quanto commentato all’American Heart Association 2013 Scientific Sessions da Noel Bairey Merz del Cedars Sinai Medical Center, Los Angeles, CA sulle indicazioni della terapia con le statine nella prevenzione primaria delle donne, secondo le nuove raccomandazioni di abbandonare gli obiettivi del colesterolo e di concentrarsi, invece, sui quattro gruppi dei pazienti, compresi quelli senza malattia cardiovascolare esistente, ma con rischio a dieci anni > 7,5%. In effetti, se il beneficio delle statine in prevenzione secondaria è fermamente stabilito, sia negli uomini sia nelle donne con riduzione di circa il 30% l'anno del rischio di eventi cardiovascolari con il trattamento, lo stesso non può asserirsi in caso di prevenzione primaria, in cui il dato rimane controverso. A tale proposito, però, è bene ricordare che Samia Mora del Brigham and Women Hospital, Boston - MA e collaboratori, proprio per chiarire la controversia sulla terapia con le statine nelle donne senza malattia cardiovascolare, hanno analizzato i risultati specifici per sesso per giustificarne l'uso nello studio JUPITER (Justification for the Use of Statins in Prevention: An Intervention Trial Evaluating Rosuvastatin). I partecipanti allo JUPITER includevano 6.801 donne e 11.001 uomini di età > 60 e > 50 anni rispettivamente, con PCR ad alta sensibilità > 2 mg / L e colesterolo delle lipoproteine a bassa densità < 130 mg / dL, randomizzati a rosuvastatina 20 mg, rispetto al placebo. Gli studi della metanalisi erano eseguiti con le statine contro il placebo, randomizzati prevalentemente o esclusivamente in prevenzione primaria nelle donne e con risultati sesso-specifici (20.147 donne, eventi CVD > 276, età media 63-69 anni). Nello JUPITER i tassi assoluti della malattia cardiovascolare per 100 donne-anno per la rosuvastatina e il placebo, corrispondenti a 0,57 e 1,04 rispettivamente, erano inferiori a quelli degli uomini pari a 0,88 e 1,54 con analoga riduzione del rischio relativo nelle donne con un hazard ratio di 0.54; intervallo di confidenza 95% di 0,37-0,80, p = 0,002 e negli uomini hazard ratio di 0,58, intervallo di confidenza 95% di 0,45-0,73, p <0,001. Nelle donne, si registravano anche una significativa riduzione della rivascolarizzazione / angina instabile e una non significativa riduzione delle altre componenti degli endpoint primari. La meta-analisi delle 13.154 donne con 240 eventi cardiovascolari e 216 decessi totali, provenienti da esclusivi studi di prevenzione primaria, rilevava con le statine una significativa riduzione di un terzo degli eventi cardiovascolari primari con rischio relativo di 0,63, intervallo di confidenza 95% di 0,49-0,82, P <0.001, P per eterogeneità = 0,56, con un effetto non significativo minore sulla mortalità totale con RR di 0,78, IC 95% di 0,53-1,15, p = 0.21, P = 0.20 per eterogeneità. Risultati simili si erano ottenuti per i processi che erano stati prevalentemente, ma non esclusivamente, di prevenzione primaria (Circulation. 2010; 121: 1069-1077).

In conclusione, lo studio JUPITER dimostrava che la rosuvastatina in prevenzione primaria riduceva gli eventi cardiovascolari nelle donne con una riduzione del rischio relativo simile a quella degli uomini, risultato già sostenuto da meta-analisi di studi clinici di prevenzione primaria con le statine.  In particolare, il rischio relativo degli endpoint primari, un composito d’infarto miocardico, ictus, rivascolarizzazione, ospedalizzazione per angina instabile e morte per cause cardiovascolari, si riduceva significativamente del 46% e del 76% nella necessità della rivascolarizzazione.

Pur tuttavia, gli studiosi si sono sempre posti il problema di dimostrare la riduzione dei tassi degli eventi cardiovascolari con l’utilizzo delle statine in prevenzione primaria. In effetti, negli Stati Uniti, ad esempio, l'uso di questi farmaci è aumentato dai sedici milioni di americani del 2000 ai trenta milioni del 2005. Nello stesso periodo, la spesa ambulatoriale di questi farmaci è aumentata dai 7.700 ai 19.700 miliardi dollari. In Inghilterra, paese europeo, il numero delle prescrizioni è aumentato di cinque volte dal 2001 al 2011, sino ai sessantuno milioni l'anno con un costo di 544.000.000 sterline, equivalenti a 870.000.000 dollari statunitensi. Tale ampio uso e l’aumento dei costi richiedono, quindi, una revisione significativa dei benefici e dei rischi del prodotto per la prevenzione primaria e, in particolare, nelle persone a basso rischio di un evento cardiovascolare.

Fiona C. Taylor della London School of Hygiene and Tropical Medicine, London, United Kingdom e collaboratori hanno prodotto una metanalisi, aggiornata sulle evidenze dell'uso delle statine in prevenzione primaria, includendo diciotto studi condotti tra il 1994 e il 2008 con 56.934 pazienti di età media di cinquantasette anni, con range dai ventotto ai novantasette, nel 60.3% uomini e nel 39,7% donne, bianchi nello 85.9% (JAMA 2013; DOI:10.1001/jama.2013.281348).

I paesi interessati erano il Giappone, gli Stati Uniti, l’Europa, l’America del Sud, Israele, l'Africa meridionale e la Russia. Gli esiti primari erano la mortalità per tutte le cause, la malattia coronarica fatale e non, le patologie cardiovascolari e gli eventi d’ictus. Gli outcome secondari erano la variazione della concentrazione del colesterolo totale, di quello LDL, la rivascolarizzazione coronarica, gli eventi avversi, la qualità della vita e i costi. Dai due ai cinque anni la pravastatina era il composto più comunemente utilizzato negli studi. La qualità complessiva dei trial era alta e tutti erano stati finanziati da una società farmaceutica. Tre studi, con popolazione dei partecipanti pari al 47% della totale, erano stati interrotti prematuramente a causa di una significativa riduzione del risultato primario. Rispetto al controllo del placebo, le statine riducevano i livelli delle lipoproteine a bassa densità (LDL) di 39 mg / dL (per la conversione in millimoli per litro moltiplicare per 0,0259). Erano associate a tassi più bassi di tutte le cause di mortalità con rischio relativo [RR] pari a 0.86 e IC 95% a 0,79-0,94, con NNT5 [number needed to treat for 5 years] a 138. Le statine correlavano anche con inferiori casi di malattia cardiovascolare combinata fatale e non con RR di 0.75, IC 95% di 0,70-0,81, NNT5 di quarantanove. Più basse risultavano anche la malattia coronarica combinata fatale e non con RR di 0.73, IC 95% di 0,67-0,80, NNT5 di ottantotto e anche l’ictus combinato fatale e non con RR di 0.78, IC 95% di 0,68-0,89, NNT5 di 155. Le statine erano associate anche con i minimi tassi di rivascolarizzazione coronarica percutanea (intervento coronarico e chirurgia di bypass) con RR di 0.62, IC 95 % di 0,54-0,72, NNT5 di novantasei. In questi studi il tasso di eventi cardiovascolari del gruppo di controllo medio era del 15% in dieci anni. Il NNT5 al livello più basso di rischio di malattia cardiovascolare del 10% oltre i dieci anni era settantacinque e a un livello superiore del 30%, venticinque.

L'incidenza di tumori, mialgia, rabdomiolisi, elevazione degli enzimi epatici, disfunzione renale, artrite non differiva tra il gruppo in terapia attiva e i controlli, sebbene non tutti gli studi avessero riportato dati completi nei meriti. I tassi degli eventi avversi, pari al 17%, e d’interruzione del trattamento, pari al 12%, erano simili tra il gruppo delle statine e quello del placebo. Un aumentato rischio di diabete era rilevato in uno dei due studi di reporting di questo risultato con RR di 1.18 IC 95% di 1,01-1,39, NNT5 di 198.

In sintesi, questa recente metanalisi sulle statine forniva l’evidenza che smentiva gran parte delle maggiori critiche nei confronti dell’uso delle statine per la prevenzione primaria. Esse, difatti, sono risultate ben tollerate in individui correttamente selezionati. Riducevano, in effetti, la mortalità totale così come gli eventi cardiovascolari aterosclerotici nei soggetti a basso rischio. Le preoccupazioni, per altro verso, potevano rivolgersi circa i costi del loro impiego. Pur tuttavia, recenti analisi avrebbero rilevato alti indici di costo-efficacia e, quindi, di risparmio anche negli individui a basso rischio. Sarebbero, pertanto, in grado di fornire un ampio beneficio sociale alla collettività. Sotto tali aspetti bisognerebbe, quindi, riconsiderare la loro posizione nei riguardi della terapia in prevenzione primaria. Purtroppo, nonostante decenni di esortazione per il miglioramento della vita e delle abitudini comportamentali si registrano ancora alti livelli dei fattori di rischio cardiovascolare con alta incidenza delle malattie a essi connesse e, soprattutto, dell’infarto miocardico e dell’ictus che rimangono le principali cause di morte. Sotto tale aspetto, comprensibilmente molti più adulti potrebbero beneficiare dell'uso diretto delle statine per la prevenzione primaria.