notiziario Febbraio 2014 N.2 PER UN APPROCCIO EFFICACE DI PREVENZIONE E CURA DELL’OBESITÀ

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NOTIZIARIO Febbraio 2014 N°2

 

PER UN APPROCCIO EFFICACE DI PREVENZIONE E CURA DELL’OBESITÀ

 

 

A cura di:
Giuseppe Di Lascio §
Susanna Di Lascio #

 

Con la collaborazione di:

Doriana Bauzulli *, Alessandro Di Lascio**
Andrea Levi Della Vida §, Simonetta Melilli §
Claudio Stazzi §, Elena Zimmatore §
 
§ Medico specialista in Medicina Interna
* Coordinatrice degli Infermieri, ** Fisioterapista
# Psicologa

I guadagni in salute e aspettativa della vita alla nascita nell’Europa dei 27

L'obesità è una patologia multifattoriale in cui fattori genetici, comportamentali, psicologici, ambientali intervengono nell’influenzare la persona a rischio di svilupparla. La malattia è in continuo aumento in tutto il mondo tanto da assumere un aspetto epidemico preoccupante. Non a torto, quindi, gli studiosi da qualche tempo cercano di individuare e di chiarire tutti i fattori coinvolti in tale processo, in modo da riconoscere e definire i diversi fenotipi della malattia. Per quanto riguarda l’Europa, bisogna segnalare l’attenzione e gli sforzi rivolti a combattere le malattie croniche e tra esse l’obesità. Proprio sulla scia di questo impegno la popolazione dei paesi europei negli ultimi decenni ha segnato importanti guadagni in salute.

La speranza di vita alla nascita è, difatti, aumentata di sei anni dal 1980, fino a raggiungere nel 2010 i settantanove, mentre la mortalità prematura si è ridotta drasticamente. Peraltro, più dei tre quarti della vita oggi giorno sono in genere vissuti senza limitazione di attività. Tutto ciò può, invero, essere attribuito ai miglioramenti del tipo di vita e delle condizioni del lavoro, ma anche di alcuni comportamenti correlati con la salute. Queste condizioni hanno contribuito notevolmente al raggiungimento di questi guadagni nella longevità e nella qualità della vita, insieme al migliore accesso alle cure. Peraltro, anche i progressi nelle cure mediche, che hanno permesso una sempre migliore qualità del trattamento delle malattie, meritano molto credito in questo campo. Purtroppo, come risvolto preoccupante, sono risultati progressivamente crescenti di dimensione e di complessità i sistemi di tutela della salute.  In via parallela e consequenziale, in effetti, fino al 2009 la spesa dei paesi europei per la salute è cresciuta a un ritmo più veloce rispetto al resto dell'economia, per cui il settore sanitario ha assorbito una quota crescente del prodotto interno lordo. A seguito della crisi finanziaria ed economica nel 2008, molti paesi europei hanno, quindi, dovuto ridurre la spesa sanitaria nell’ambito del piano più ampio di governare i grandi disavanzi di bilancio e il crescente debito pubblico. In tale contesto, quindi, si è imposto un monitoraggio continuo dei dati e degli indicatori sui sistemi sanitari per fornire le informazioni del potenziale impatto a breve e a lungo termine sui cambiamenti economici per le politiche sanitarie, rivolte alle migliori ed efficaci formule di cura, di accesso, di esiti, di qualità e di benessere dei cittadini.


Gli allarmanti aspetti dell’epidemiologia dell’obesità

È soprattutto nei giovani che negli ultimi anni si è posta la maggiore attenzione al fenomeno dell’obesità. Tutto ciò anche in rapporto all’evidenza che il 60% dei bambini in sovrappeso prima della pubertà è destinato a esserlo nell’età adulta, oltre al rischio di presentare scarso rendimento a scuola e bassa autostima, malattie cardiovascolari, diabete di tipo 2, problemi ortopedici, disturbi mentali, come bassa immagine di sé, depressione, alcune forme di cancro, osteoartrite, ridotta qualità della vita, morte prematura.

 Peraltro, l'evidenza suggerisce che, i bambini obesi, anche se nell’infanzia perdono l'eccesso di peso, da adulti mantengono un aumentato rischio dei problemi cardiovascolari. Pur tuttavia, persiste sempre il rischio della ricaduta nell’eccesso di peso dopo i chili di troppo perduti con la dieta, che può anche determinare disturbi alimentari, sintomi di stress e alterazioni nello sviluppo fisico.


Italia a confronto con alcune nazioni europee per il sovrappeso e l’obesità

Negli stati membri dell'UE i ragazzi di quindici anni tendono a segnalare l'eccesso di peso più spesso rispetto alle ragazze e nel 2009-10 uno su sei, contro una su dieci, ha riferito di essere obeso o in sovrappeso. Peraltro, più del 15% degli adolescenti dell'Europa meridionale, come Grecia, Italia, Portogallo e Spagna, ma anche in Croazia, in Islanda, in Lussemburgo e in Slovenia riportava di essere in sovrappeso o obeso. Invece, meno del 10% dei bambini della Lettonia e della Lituania, come pure della Danimarca, della Francia e dei Paesi Bassi, segnalava il sovrappeso o l’obesità.
 

Comunque, la percezione dei ragazzi e delle ragazze di avere problemi di peso differiva spesso da quanto riferito. Il 40% delle ragazze e il 22% dei ragazzi di quindici anni degli Stati membri dell'UE pensavano, difatti, di essere troppo grassi. Inoltre, vi era anche una chiara associazione tra i problemi del peso e i comportamenti adottati per ridurlo. In effetti, il 22% delle ragazze e il 9% dei ragazzi riferivano di impegnarsi in comportamenti di controllo. Ciò corrispondeva a un tasso doppio nelle ragazze, rispetto ai ragazzi. Particolare interesse rivestiva, peraltro, il dato che i giovani, che riferivano di essere in sovrappeso, erano più inclini a saltare la colazione del mattino, a essere meno attivi fisicamente e a trascorrere più tempo a guardare la televisione. I tassi del peso in eccesso, in ogni modo, sono aumentati leggermente negli ultimi dieci anni nella maggior parte degli Stati membri dell'UE.

In effetti, i tassi medi rilevati di sovrappeso e obesità sono aumentati tra il 2001-02 e il 2009-10 dallo 11% al 13% tra i ragazzi di quindici anni. Il più grande aumento durante il periodo di otto anni con più del 5% è stato riscontrato nella Repubblica ceca, nell’Estonia, in Polonia, in Romania e in Slovenia. Solo la Danimarca e il Regno Unito, tra il 2001-02 e il 2009-10, hanno fatto segnalare eventuali riduzioni significative nella percentuale del sovrappeso o dell’obesità all'età di quindici anni, anche se con limitazioni della certezza dei dati.
Per l’appunto nei riguardi dei ragazzi dei Paesi europei, Candace Currie dell’University of St Andrews, United Kingdom (Scotland) con i risultati dell'indagine del loro rapporto 2009/2010 HBSC (Health Behaviour In School-Aged Children), che si concentravano sulle determinanti demografiche e sociali della salute dei giovani, hanno riportato le analisi statistiche delle differenze significative identificate nella prevalenza degli indicatori sanitari e sociali per genere, classe di età e livelli di benessere familiare (international report from the 2009/2010 survey. Copenhagen, WHO Regional Office for Europe, 2012 (Health Policy for Children and Adolescents, No. 6). L'obiettivo era di fornire una base statistica sistematica, rigorosa, che descrivesse i modelli transnazionali in termini di grandezza e di direzione delle differenze tra i sottogruppi.
Le evidenze, raccolte nel corso degli ultimi due decenni, mostravano che le circostanze sociali svantaggiate si associavano con un aumento dei rischi per la salute. Pur tuttavia, la commissione OMS sulle Determinanti Sociali della Salute affermava che la stragrande maggioranza delle disuguaglianze nella salute all'interno dei paesi europei poteva essere evitata. Si ribadiva, nello stesso tempo, che i giovani, come gruppo di popolazione nelle statistiche sulla salute, erano spesso trascurati, essendo aggregati con i bambini più piccoli o con i giovani adulti. Ne derivava la raccomandazione a una maggiore attenzione per un'azione preventiva che potesse trasformare questa età vulnerabile in un'epoca di opportunità. In generale, il rapporto precisava che i giovani dell’Europa godevano di una salute e di uno sviluppo migliori rispetto al passato, senza, però, riuscire a raggiungere il loro pieno potenziale. Tutto ciò condizionava risvolti di notevoli costi sociali, economici e umani e di ampie variazioni di benessere. Peraltro, secondo i rapporti di Candace Currie elaborati in diversi momenti, la percentuale dei giovani di quindici anni in sovrappeso era variata dal 14% del 2004 al 17% del 2008, per rimanere stabile a tale valore nel 2012.
A tale proposito e, quindi, al fine di comprendere l'andamento dell'epidemia in questo gruppo di popolazione e di consentire raffronti tra i vari paesi all'interno della Regione Europea, gli organismi sanitari preposti hanno mirato più recentemente a misurare routinariamente le tendenze in sovrappeso e in obesità dei bambini.
Sulla scia di quanto sopra riportato, T. M. A. Wijnhoven della World Health Organization Regional Office for Europe, Copenhagen Ø, Denmark e collaboratori, hanno voluto fornire un quadro unico sul sovrappeso e sull'obesità dei bambini dai sei ai nove anni di dodici paesi europei, in base ai pesi e alle altezze, misurati utilizzando una metodologia armonizzata di sorveglianza (Pediatric Obesity, 2013, 8 (2) s. 79-97).
Il metodo utilizzato dagli Autori consentiva di effettuare validi confronti multipli dei dati raccolti nel 2007/2008 dai dodici paesi presi in considerazione, compresa l’Italia, dimostrando ampie variazioni nelle stime di prevalenza del sovrappeso e dell’obesità tra i bambini della scuola primaria. Erano inclusi nelle analisi 168.832 bambini con tasso di partecipazione scolastica di oltre il 95%, ottenuto in otto dei dodici paesi. L’arresto della crescita, il sottopeso e la magrezza erano riscontrati raramente. I ragazzi erano in sovrappeso dal 19,3 al 49,0% e le ragazze dal 18,4 al 42,5%. La prevalenza dell’obesità variava dal 6,0 al 26,6% nei ragazzi e dal 4,6 al 17,3% nelle ragazze. I confronti multinazionali suggerivano la presenza di un gradiente nord-sud con il più alto livello del sovrappeso nell'Europa meridionale.
In conclusione, il sovrappeso nei bambini dai sei ai nove anni era un serio problema di salute pubblica e la sua variazione in tutta la Regione europea dipendeva molto dal paese di origine.

           
Per quanto riguarda gli adulti, la prevalenza mondiale dell’obesità è quasi raddoppiata tra il 1980 e il 2008.
L’OECD Health Data 2012 Eurostat Statistics Database, WHO Global Infobase, riportava che nelle ultime stime degli adulti dei Paesi dell'Unione Europea il sovrappeso colpiva dal 30 al 70% e l’obesità dal 10 al 30%.  Inoltre, in Europa, già nel 2008 oltre il 50% degli uomini e delle donne erano in sovrappeso ed erano obesi circa il 23% delle donne e il 20% degli uomini.
In Italia nel 2000 la prevalenza dell’obesità raggiungeva valori percentuali dello 8,6%, mentre nel 2010 arrivava a toccare il 10,3%.
Oramai, comunque, è ampiamente noto che l'obesità costituisce la porta d’ingresso per molte altre malattie non trasmissibili. In effetti, il peso corporeo in eccesso rappresenta un più alto rischio d’ipertensione, di dislipidemia, d’ictus, di apnea del sonno. Contribuisce anche a promuovere condizioni debilitanti, come l’artrosi, i disturbi respiratori, le malattie della colecisti, l’infertilità e i problemi psico-sociali con la conseguente riduzione della qualità della vita.

Nella maggior parte dei paesi europei il sovrappeso e l’obesità sono, difatti, riconosciuti responsabili negli adulti dell’80% circa dei casi di diabete di tipo 2, del 35% di quelli della cardiopatia ischemica e del 55% di quelli della malattia ipertensiva. È chiaramente doveroso e imperativo, quindi, che la lotta contro l'obesità sia condotta in forma immediata e prioritaria. Solo l’adozione di strategie opportunamente gestite per prevenirla potrà, di certo, bloccare la sua continua insidia alla salute.


Italiani adulti obesi nel 2012

Come riportato nel rapporto ISTAT “Noi Italia 2014” riguardo alla percentuale di persone obese, gli italiani adulti di diciotto anni e oltre presentavano con il 10,4% valori di prevalenza tra i più bassi in Europa insieme alla Svezia con lo 11,0%, ai Paesi Bassi con lo 11,4%, all’Austria con il 12,4% e alla Francia con il 12,9%.

All’opposto, le percentuali più alte si riscontravano in Ungheria con il 20,0%, nella Repubblica Ceca con il 17,4% e in Grecia con il 17,3%. I valori particolarmente elevati del Regno Unito con il 24,8% e del Lussemburgo con il 23,0% risentivano anche della diversa fonte utilizzata. L’indicatore, infatti, non si basava sulla dichiarazione di peso e altezza dell’intervistato, come negli altri paesi, ma sulla misurazione diretta delle due dimensioni considerate. È noto in letteratura, infatti, che il dato dichiarato per gli adulti comporta una sottostima del fenomeno.


Nel 2012 nel confronto per aree geografiche italiane le percentuali più elevate degli adulti obesi si registravano in Molise, Puglia, Basilicata e Abruzzo. Quelle con prevalenza più bassa risultavano, invece, la Liguria, Bolzano e Trento.  


Prevalenza dell’obesità negli Stati Uniti e sua correlazione con la funzione lavorativa

Anche negli Stati Uniti, come in Europa, la prevalenza dell'obesità è aumentata notevolmente negli ultimi decenni. Le stime recenti riportano che il 69% degli adulti è in sovrappeso e circa il 35% francamente obeso. In definitiva, nel 2009-2010 più di settantotto milioni di adulti statunitensi erano obesi. Questi dati del National Health and Nutrition Examination Surveys si riferiscono a entrambi i sessi, senza differire significativamente dalle stime del 2003-2008. Dimostrano, peraltro, che gli aumenti dei tassi di prevalenza dell’obesità tendono a rallentare o a stabilizzarsi. Pur tuttavia, il sovrappeso e l'obesità hanno dimostrato di essere molto diffusi, soprattutto in alcuni gruppi di minoranze razziali ed etniche e anche nelle persone meno istruite e con i redditi più bassi. A latere della gravità clinica, l’obeso, rispetto agli individui di peso normale, aumenta i costi della degenza ospedaliera del 46%, richiede un 27% in più di visite mediche e di costi ambulatoriali e aumenta la spesa per la prescrizione dei farmaci dello 80%.
Insomma, l’obesità si può oramai definire un'epidemia dei nostri tempi e, soprattutto, una minaccia seria per la salute pubblica. In particolare, poi, nei posti di lavoro contribuisce non solo ai costi associati al congedo per malattia e all’assenteismo, ma anche all’aumento del rischio di sviluppare il cancro, i disturbi muscolo-scheletrici, le malattie cardiovascolari e lo stress. Peraltro, con l'invecchiamento della forza lavoro degli Stati Uniti, queste malattie croniche e le associate spese sanitarie, previste nell’ordine dei 4.200 miliardi di dollari l'anno entro il 2023, dovrebbero costituire un onere enorme per i datori di lavoro e per il sistema sanitario.
È da notare che i lavoratori a tempo pieno consumano in media più di otto ore il giorno sul posto di lavoro, con un periodo trascorso da seduti da un terzo alla metà della giornata lavorativa. In tal modo, si tiene poco conto che l’attività fisica occupazionale, avendo un effetto protettivo sulla salute, è un fattore determinante per il dispendio energetico giornaliero. I lavoratori, peraltro, mangiano in genere almeno un pasto durante la giornata lavorativa. Tale dato di fatto rende, invero, il luogo di lavoro un ambiente logico e prezioso per la promozione di una sana alimentazione e per l'aumento dell'attività fisica. Alcuni studi, difatti, supportano l'efficacia degli interventi sul luogo di lavoro che mirano al miglioramento dei comportamenti per la salute dei lavoratori in relazione con l'obesità. A tal proposito, il Surgeon General’s Vision for a Healthy and Fit Nation comprende raccomandazioni per i datori di lavoro al fine di creare ambienti sani sul posto di lavoro attraverso la promozione dell’attività fisica e del mangiare sano. Peraltro, gli obiettivi dell’Healthy People 2020 puntualizzano di aumentare la percentuale degli ambienti che possano offrire un programma di promozione della salute dei dipendenti, di avere classi nutrizionali o di gestione del peso o di consulenza e di disporre d’impianti sportivi e di programmi di esercizio. Come componente importante della riforma sanitaria, il Fondo di Prevenzione e Sanità Pubblica dell’Affordable Care Act offre, a tale riguardo, 200 milioni di dollari per borse di studio sul piano di benessere per le piccole imprese. Eppure, nonostante questi forti sforzi di politica pubblica per aumentare la salute della popolazione attiva, esistono poche misure sistematiche della salute dei lavoratori nella loro occupazione abituale. Pur tuttavia, una stima della prevalenza dell’obesità in rapporto alle modalità lavorative può informare lo sviluppo e la valutazione dell'efficacia dei programmi di benessere basati sul lavoro.
In conformità a quanto riportato, David K. Bonauto della Safety and Health Assessment and Research for Prevention Program, Washington State Department of Labor and Industries e collaboratori hanno condotto un’analisi descrittiva e multivariata tra 37.626 lavoratori intervistati nello Stato di Washington, utilizzando il Factor Surveillance System Behavioral Risk in anni dispari dal 2003 al 2009 (Prev Chronic Dis 2014;11:130219). Gli Autori hanno stimato la prevalenza e i PRS (prevalence ratios) per i gruppi professionali con aggiustamento per i fattori demografici, per il livello di attività fisica occupazionale, per il fumo, il consumo di frutta e verdura e per la LPTA (leisure-time physical activity).
Nel complesso, la prevalenza dell'obesità era del 24,6%, con intervallo di confidenza 95% [IC], 24,0-25,1.). I lavoratori nei servizi di protezione avevano una probabilità maggiore di 2,46 (95 % IC, 1,72-3,50) volte di essere obesi, rispetto a quelli occupati nella diagnostica sanitaria. Rispetto alle loro controparti, quelli che consumavano adeguate quantità di frutta e verdura e avevano un’adeguata LTPA avevano una significativa minore probabilità di essere obesi (rispettivamente PR = 0,91, IC 95%= 0,86-0,97 e PR = 0,63, IC 95% = 0,60-0,67). Inoltre, i lavoratori con attività fisica occupazionale fisicamente impegnativa avevano un PR inferiore di obesità (PR = 0.83, IC 95% = 0,78-0,88), rispetto a chi non l’aveva. In particolare, la prevalenza più bassa dello 11,6% si riscontrava tra i medici, dentisti, veterinari, optometristi.
All'altro estremo vi erano, invece, i camionisti con una prevalenza del 38,6%. Seguivano altre occupazioni ad alta obesità, come i trasportatori di materiale in movimento con il 37,9%, quelli dei servizi di protezione con il 33,3% e dei servizi di lavanderia / costruzione con il 29,5%. Da notare a riguardo, che il tasso di obesità elevato tra i lavoratori dei servizi di protezione, come i vigili del fuoco e gli agenti di polizia, nonostante i loro alti livelli di attività, poteva dipendere, secondo gli autori, dalle limitazioni derivate dall’utilizzo della BMI come misura dell'obesità.
Utilizzando le professioni sanitarie come riferimento e regolazione per le variabili confondenti, i ricercatori riscontravano che i PR (prevalence ratios) per l'obesità erano 2,46 per i servizi di protezione e 2.45 per i camionisti. Al contrario, i rapporti di prevalenza per gli studiosi di scienze naturali e sociali, per gli insegnanti della scuola dopo la secondaria e gli avvocati, per i giudici non erano diversi da quelli delle professioni sanitarie.
Per quanto riguardava, poi, i comportamenti dei lavoratori, inclusi i livelli di attività fisica, il fumo e il consumo di frutta e verdura, i ricercatori rilevavano che chi aveva un’attività lavorativa fisicamente impegnativa presentava anche una minore probabilità di essere obeso, rispetto a quelli senza questa condizione di lavoro (PR = 0,83). Inoltre, i non fumatori avevano maggiore probabilità di essere obesi, rispetto ai fumatori (PR = 1.17), probabilmente a causa dell'effetto di soppressione esercitato dal fumo sull’appetito.
Peraltro, i lavoratori che consumavano adeguate quantità di frutta e verdura, come cinque o più porzioni il giorno, e mantenevano un’adeguata attività fisica di venti minuti o più il giorno per tre o più volte / settimana dimostravano una significativa minore probabilità di essere obesi, rispetto a quelli senza tali abitudini (PR = 0,91).
In conclusione, la prevalenza dell’obesità e i comportamenti a rischio per la salute variavano sostanzialmente in rapporto all'occupazione. Di conseguenza, gli Autori commentavano i loro dati affermando che i datori di lavoro, i responsabili politici e gli operatori di promozione della salute potevano e dovevano utilizzarli per indirizzare e dare la priorità ai programmi di promozione di prevenzione dell'obesità sul luogo di lavoro e dei comportamenti efficaci per la salute.


Anche i medici e le infermiere devono essere più accorti all’aumento del peso

Con il dilagare dell’epidemia dell’obesità è sorta la curiosità di condurre sondaggi epidemiologici anche tra gli operatori sanitari per valutare il fenomeno all’interno di questa categoria professionale che dovrebbe essere in prima linea nella lotta alla malattia.
A tale proposito, Ajani UA dell’Harvard Medical School, Boston, MA-USA e collaboratori hanno analizzato l'associazione tra l’indice di massa corporea (IMC) e tutte le cause di mortalità, in considerazione del livello d’istruzione e dello stato socio-economico, in 85.078 medici di età compresa tra i quaranta e gli ottantaquattro anni della coorte del Physicians' Health Study (Ann Epidemiol. 2004 Nov;14 (10):731-9).
Durante i cinque anni di follow - up, si documentavano 2.856 morti, di cui 1.212 per malattie cardiovascolari e 891 per cancro. Nelle analisi aggiustate per l'età, si osservava una relazione a U tra l’IMC e la mortalità per tutte le cause. Tra gli uomini che non avevano mai fumato, si rilevava una relazione lineare con nessun aumento della mortalità tra i più magri (P < 0.001). Nelle analisi multivariate, aggiustate per età, assunzione di alcol e attività fisica, sempre tra chi non aveva mai fumato, i rischi che si riferivano alla mortalità per tutte le cause aumentavano, invece, in modo graduale con l'aumento dell’IMC. Escludendo i primi due anni di follow-up, l'associazione si rafforzava ulteriormente (i relativi rischi multivariati da BMI <20> o = 30 kg/m2, erano 0.93, 1.00, 1.00, 1.16, 1.45 e 1.71 [P per trend <0.001]). In tutte gli strati d’età (dai quaranta ai cinquantaquattro, dai cinquantacinque ai sessantanove e dai settanta agli ottantaquattro anni) chi con BMI di trenta o superiore non aveva mai fumato, dimostrava un aumento del rischio di morte del 70% circa, rispetto al gruppo di riferimento (BMI 22,5-24,9). Inoltre, i livelli più elevati dell’IMC erano fortemente legati a un aumentato rischio di mortalità cardiovascolare, indipendentemente dal livello dell’attività fisica (P < 0,01).
In conclusione, tra gli uomini di mezza età e più anziani la mortalità per tutte le cause e quella cardiovascolare erano direttamente collegate all’IMC. L’età avanzata non attenuava, peraltro, l'aumento del rischio di morte associato all'obesità. I medici magri con IMC < 20 non avevano, però, eccesso di mortalità, indipendentemente dall'età. In particolare, il 44% dei medici con IMC di 25 kg/m2 o superiore era in sovrappeso, mentre il 6% era obeso con un IMC pari o superiore a trenta. Il 53% erano fumatori attuali o avevano smesso di fumare.
Da notare che dati analoghi mancano per i medici di sesso femminile.
In verità, Manson JE dell’Harvard Medical School di Boston, MA - USA e collaboratori hanno esaminato l'associazione tra l’indice di massa corporea e la mortalità complessiva e per cause specifiche in una coorte di 115.195 donne americane iscritte all’Health Study e potenziali Nurses (N Engl J Med. 1995 Sep 14;333(11):677-85.). Queste donne nel 1976 avevano 30-55 anni di età, erano senza malattia nota cardiovascolare e di cancro. Durante i sedici anni del follow-up, si documentavano 4.726 morti, di cui 881 erano cardiovascolari, 2.586 per cancro e 1.259 per altre cause.
Nelle analisi aggiustate solo per l'età, si osservava una relazione a forma di J tra l’indice di massa corporea e la mortalità complessiva. Nell’esame separato delle donne più magre che non avevano mai fumato, non si osservava nessun aumento del rischio, mentre emergeva una relazione più diretta tra il peso e la mortalità (P per trend < 0.001). All'analisi multivariata delle donne che non avevano mai fumato e avevano da poco un peso stabile, escludendo i primi quattro anni di follow-up, il rischio relativo di morte per tutte le cause era per l’IMC< 19.0 (categoria di riferimento) = 1.0; 19,0-21,9 = 1.2; 22,0-24,9 = 1.2; 25,0-26,9 = 1.3; 27,0-28,9 = 1.6; 29,0-31,9 = 2.1; > o = 32,0 = 2,2 (p per trend < 0.001). Tra le donne con un indice di massa corporea di 32,0 o superiore, che non avevano mai fumato, il rischio relativo di morte per malattie cardiovascolari era di 4,1 (intervallo di confidenza al 95%: 2,1-7,7). Quello di morte per cancro era 2,1 (1.4 - 3.2), rispetto al rischio delle donne con un indice di massa corporea sotto i 19.0. Un aumento del peso di 10 kg o più dall'età dei diciotto anni si associava, peraltro, a un aumento della mortalità in età media adulta.
In conclusione, in queste infermiere di mezza età il peso corporeo e la mortalità per tutte le cause erano direttamente correlati. Peraltro, le donne magre non avevano un eccesso di mortalità. Il suo tasso più basso si osservata in chi pesava almeno il 15 per cento in meno rispetto alla media degli Stati Uniti per le donne della stessa età e tra quelle il cui peso era rimasto stabile fin dalla prima età adulta.
Infine su tale argomento, vale riportare che Medscape in un sondaggio sul peso dei medici ha rilevato in chi aveva risposto lo 8% di obesità e il 34% di sovrappeso (medscape physician lifestyle report 2014).

I chirurghi generali e i medici di famiglia risultavano con il maggior eccesso ponderale, mentre gli oculisti e i dermatologi occupavano gli ultimi posti della classifica.


Le strategie pratiche professionali nella cura dell’obesità

In effetti, è ormai noto che anche se due pazienti possono presentare entrambi una BMI che li porta a essere classificati come obesi, condividendo anche alcune sovrapposizioni dei fattori che contribuiscono a dipingere il quadro della malattia, ognuno di loro ha gli unici, propri contributi al loro stato attuale. Proprio per tale premessa, prima di intraprendere un programma di cura per l’obesità e di prevenzione delle comorbidità per la riduzione del peso, bisogna studiare tutti i fattori che contribuiscono allo stato attuale di ogni persona malata. È necessaria, pertanto, una valutazione davvero completa del rischio per la salute con precisazione della storia familiare e personale, soprattutto delle malattie cardiometaboliche come quella coronarica e il diabete di tipo 2.
Non bisogna dimenticare, d’altra parte, di svolgere le indagini sull’ambiente di vita e su come vive il paziente, sul contesto socio-economico abituale, sull’esercizio fisico che pratica, su come e dove si alimenta, sul suo grado d’istruzione. Importante è poi stabilire l’adattamento e le possibilità di aderenza del paziente ai programmi di terapia e anche l’accessibilità personale ai servizi sanitari.  
L'obesità, come grave problema di salute in tutto il mondo, merita, in effetti, una particolare attenzione. Peraltro, anche se è certo che la dieta e l'attività fisica sono fondamentali nella sua gestione, il tasso di successo degli interventi a lungo termine è basso. Pur tuttavia, il trattamento è importante ma, come indicato da più parti, deve essere efficace, ben tollerato, sostenibile e soprattutto sicuro.
È bene ripetere che, pur con il riscontro del sovrappeso e dell’obesità anche in circa due terzi degli adulti delle società più progredite, i medici spesso si sentono impreparati a gestire questo importante problema, soprattutto in maniera ordinata e professionale.
Le strategie pratiche professionali devono, in effetti, poter includere pratiche ben definite come:

Inoltre, il paradigma della consulenza comportamentale, basato sul chiedere, consigliare, valutare, assistere, e organizzare, può essere utilizzato come base per l’approccio sistematico e pratico nella gestione della malattia che incorpora elementi di prova per il governo dei più comuni modi di agire, legati a essa.
L'obesità è, invero, una malattia complessa e gli approcci terapeutici, quindi, devono essere altrettanto complessi. Pur tuttavia, proprio per la sua eziologia multifattoriale, è spesso difficile discernere l'impatto di ogni intervento.
In ogni modo, il successo di una cura efficace è definito quando si raggiunge la perdita di almeno il 10% dell'iniziale peso corporeo, mantenuto per almeno un anno. Questa soglia è stata inizialmente suggerita dal miglioramento statisticamente significativo riscontrato nei confronti dei lipidi, del glucosio e del rischio di malattia di cuore.
Tuttavia, tale indice, alla presenza di altre comorbidità, come il diabete di tipo 2, non è sempre utilizzato dai ricercatori per definire il successo della perdita di peso. In ogni modo, il risultato efficace presuppone, di certo, l'adesione a lungo termine a un programma di dieta e di esercizio fisico, spesso possibile solo con i cambiamenti comportamentali. Per ottenerli e mantenerli si è dimostrato di grande efficacia, rispetto ad altri metodi d’interazione, il contatto personale, anche se breve e mensile, tra paziente e medico o tra paziente e educatore.

Il medico di fiducia, infatti, può aiutare i loro pazienti, rafforzando i valori della dieta sana e dell’esercizio fisico, invitandoli al regolare controllo del peso, dell’IMC (indice d massa corporea) e della circonferenza della vita. In casi selezionati può anche favorire un successivo sostegno, ricorrendo alla consulenza nutrizionale e alla terapia cognitivo-comportamentale.
D’altro canto, il supporto sociale e ancor meglio le strategie di coping e la capacità di gestire i fattori di stress della vita rappresentano i fattori associati di valore per il mantenimento della perdita di successo del peso.  Il paziente viene disinibito in tutti quei fattori che presentano il rischio del recupero del peso: l'impulso ad assumere cibo (binge eating), la fame più intensa, il mangiare in risposta alle emozioni negative e allo stress, alle reazioni passive ai problemi e all’assunzione di minore responsabilità nella vita.
In definitiva, la gestione efficace del paziente obeso deve comportare strategie di trattamento, la maggior parte delle quali focalizzate sulla modificazione dello stile di vita, come la dieta e l’attività fisica. Il cambiamento comportamentale dell’obeso, pur non costituendo un intervento in sé, è un metodo sistematico che conduce a modificare il modo e la quantità del mangiare, come pure dell’esercizio fisico o di altri comportamenti che possono contribuire a sostenere l’obesità. Le tecniche di modificazione del comportamento includono l’automonitoraggio, il controllo dello stimolo, la ristrutturazione cognitiva, la gestione dello stress, il sostegno sociale, il problem solving e la gestione delle contingenze.
L'obiettivo della terapia comportamentale è, invero, quello di aiutare i pazienti a fare cambiamenti a lungo termine nelle loro condotte alimentari, modificando e controllando l’assunzione del cibo, modificando la loro attività fisica ed eliminando gli spunti e gli stimoli dell'ambiente che innescano il desiderio del mangiare.
Il primo rapporto di una terapia comportamentale per l'obesità è stato diffuso nel 1967 e dopo la prima relazione si sono estese e intensificate le varie tecniche. Si stima che la perdita media di peso con i programmi comportamentali nelle persone in sovrappeso è aumentata di circa il 75% già tra il 1974 e il 1994. La perdita di peso con i programmi attuali può arrivare fino al 10% del peso corporeo iniziale, raggiungendo valori massimali entro i primi sei mesi del trattamento. Purtroppo, come per gli altri tipi di trattamento dell’obesità, il mantenimento dei chili persi è un traguardo sempre difficile. Come si evince dagli ultimi decenni, i programmi di maggiore durata sono i più efficaci e la combinazione con altri metodi può aumentare l'entità e la durata della perdita di peso.
L'automonitoraggio comprende l'osservazione sistematica e la registrazione dei comportamenti target. Gli strumenti sono le annotazioni giornaliere alimentari per registrare l'apporto calorico totale, quello dei grassi e dei gruppi alimentari in grammi consumati e le condizioni o situazioni in cui l'eccesso di cibo è comune. Sono utili anche i diari dell’attività fisica per registrare la frequenza, la durata e l'intensità dell'esercizio e le misure dei cambiamenti del peso, del grasso corporeo o della massa corporea magra. Anche se i pazienti non sono sempre precisi nel riferire i loro comportamenti dietetici e dell’esercizio fisico, lo scopo primario dell’automonitoraggio è di responsabilizzarli più efficacemente sui loro comportamenti e sui fattori che li influenzano. In effetti, le evidenze degli studi hanno dimostrato che l'automonitoraggio contribuisce ai migliori risultati di trattamento e i pazienti lo dichiarano come uno degli strumenti più utili nel management dell'obesità.
Il controllo dello stimolo comporta l'identificazione e la correzione dei segnali ambientali che si associano con l'assunzione dell’eccesso di cibo e con l'inattività del paziente. In effetti, cambiando i loro ambienti individuali, i pazienti possono avere più successo nel sostenere la loro gestione dei comportamenti riguardanti l’eccesso di peso. Controllando gli stimoli associati all’eccesso di cibo o a una vita sedentaria, si può, invero, ottenere il mantenimento a lungo termine del peso perduto, poiché l'esposizione a questi segnali può precipitare la ricaduta. Possibili suggerimenti su come si può attuare questa strategia sono: il mangiare da soli al tavolo della cucina, non guardare la televisione durante i pasti, evitare la presenza di snack in casa e preparare già la sera la tuta per l’esercizio fisico, come promemoria per camminare o fare jogging il mattino seguente. I pazienti e i loro medici, comunque, devono lavorare insieme per sviluppare le pratiche, le strategie di controllo degli stimoli individualizzati che si adattano allo stile di vita.
La ristrutturazione cognitiva aumenta la consapevolezza dei pazienti sulla percezione di se stessi e del loro peso. I pazienti imparano a cambiare attivamente il dialogo interiore che mina i loro sforzi di gestione del peso. Essa è importante perché spesso nell’obesità si ha una scarsa autostima con un'immagine corporea di sé distorta. Molti obesi, in effetti, sono irrealistici su quanto peso possono perdere e sui benefici che possono ottenere con la perdita di peso.
Lo stress è un fattore predittivo primario di recidiva per ritornare a mangiare in eccesso e a essere obesi. È fondamentale, quindi, che i pazienti imparino con vari metodi a ridurre lo stress e la tensione. Tecniche di riduzione della tensione possono, ad esempio, consistere nella respirazione diaframmatica, nel rilassamento muscolare progressivo e nella meditazione. Esse sono progettate per ridurre la tensione associata all’eccitamento del sistema nervoso simpatico, fornendo, in tal modo, una distrazione dagli eventi stressanti.
Il “problem solving” si riferisce alle autocorrezioni di aree problematiche legate all’alimentazione e all'attività fisica. Approcci a questo tema includono l’individuazione dei problemi legati al peso, generando creatività per far emergere idee volte alla risoluzione del problema e scegliendone una, pianificandola e attuandola anche con alternative sane e valutando l'esito degli eventuali cambiamenti nel comportamento. I pazienti, in effetti, dovrebbero essere incoraggiati a rivalutare le battute d'arresto nel comportamento e valutare i risultati dei loro tentativi, piuttosto che punire se stessi.
La gestione delle contingenze si riferisce al comportamento che può essere modificato mediante l'adozione di ricompense per azioni specifiche, come ad esempio aumentando il tempo trascorso a piedi o riducendo il consumo di specifici alimenti. Ricompense verbali, così come quelle tangibili, possono essere utili, soprattutto per gli adulti. Le ricompense possono provenire sia dalla squadra dei professionisti e sia dagli stessi pazienti. Ad esempio, auto-premi possono essere monetari, sociali e dovrebbero essere tutti incoraggiati.
È noto oramai che il più alto livello di sostegno sociale comporta un maggiore successo nel mantenimento della perdita di peso. Esso può risultare più semplicemente con il coinvolgimento della famiglia nel programma di trattamento dell'obesità con la partecipazione ai programmi comunitari o di attività sociali esterne, come quelli dei centri medici o dei corsi di educazione della comunità, dei centri di benessere e delle attività promosse dalle istituzioni religiose. Questi gruppi o programmi non hanno bisogno di essere orientati verso la gestione del peso. Il sostegno reciproco può essere particolarmente utile per aiutare i pazienti ad accettare se stessi e per sviluppare nuove norme per le relazioni interpersonali e per gestire le situazioni di stress nel lavoro o in famiglia.
Gli interventi sull’obesità, che incorporano tali strategie comportamentali, sono generalmente efficaci nel produrre la graduale e moderata perdita di peso. Numerosi studi negli ultimi decenni dimostrano, infatti, che la perdita media di peso è di 0,45 kg (1 lb) la settimana e più di 8 kg (17.6 lb) per il periodo di trattamento totale. I tassi di abbandono sono generalmente bassi, pari a meno del 18%. Peraltro, l'uso combinato di molteplici strategie comportamentali sembra che si associ a una maggiore perdita di peso.
Pur tuttavia, se dopo tre o sei mesi di attuazione del nuovo stile di vita curativo il paziente non perde almeno 0,5 kg la settimana, si può considerare di ricorrere anche ai farmaci. Il loro uso, però, per le possibili reazioni avverse deve essere sotto lo stretto controllo del medico.
In particolare, l’orlistat è stato associato a effetti avversi gastrointestinali, la fentermina a problemi cardiaci e polmonari, il rimonabant a un aumentato rischio dei disturbi psichiatrici, la sibutramina alle aritmie e all’arresto cardiaco. Nel gennaio 2010 l'agenzia europea per i medicinali ha, infatti, sospeso l'autorizzazione dell'immissione in commercio di quest’ultima a causa del rischio d’infarti miocardici non fatali e d’ictus.
A proposito dei farmaci in generale, è bene ricordare come diversi possano causare aumento del peso, tra cui i betabloccanti, i corticosteroidi, alcuni antidiabetici, gli psicoattivi, l’acido valproico, gli antidepressivi triciclici, peraltro non più prescritti come nel passato. I betabloccanti, in effetti, promuovono un aumento del peso relativamente modesto, mentre l’insulina e le sulfoniluree si associano a guadagni di peso di maggiore portata. I tiazolidinedioni sono anch’essi in causa per la stessa ragione, pur per effetti non della stessa misura. La metformina (Glucophage) e gli inibitori dell’alfa-glucosidasi non si associano, invece, all’aumento del peso. Ne deriva che, essendo il diabete di tipo 2 e l'obesità strettamente correlati tra loro, la prescrizione dell’antidiabetico deve essere sempre attentamente e professionalmente valutata.  
D’altro canto, gli antipsicotici atipici, tra cui il risperidone, la clozapina, la quetiapina, l’olanzapina, lo ziprasidone, l’aripiprazolo, sempre più prescritti per la malattia bipolare, la schizofrenia e altre condizioni psichiatriche, possono determinare un aumento del peso con frequente influenza negativa sull'aderenza al farmaco stesso. Peraltro, non è sufficientemente dimostrato che l’aggiunta della metformina a tali farmaci possa mitigare questo effetto collaterale.

Per quanto riguarda la chirurgia bariatrica, come il bypass gastrico, la gastroplastica verticale fasciata, la diversione biliopancreatica, o il banding gastrico, esse sono indicate in quegli obesi con un indice di massa corporea di 40 kg per m2 o superiore, o per quelli con un indice di massa corporea di 35 kg per m2 o superiore con comorbidità correlate, come il diabete di tipo 2 o la sindrome dell’apnea ostruttiva nel sonno. Bisogna, però, saper individuare bene quali adulti possano beneficiare maggiormente di tale intervento chirurgico, bilanciando individualmente i rischi e i vantaggi. In effetti, pur avendo evidenze di perdite di peso consistenti, in gran parte mantenute anche nel 20% dei casi per dieci anni, mancano, però, sicuri dati sull’efficacia differenziale delle diverse metodiche chirurgiche. Purtroppo, le complicazioni operatorie e postoperatorie sono comuni e in media lo 0,28% dei pazienti muore entro i trenta giorni successivi all'intervento. La mortalità, peraltro, in alcune popolazioni ad alto rischio può raggiungere il 2%.


Le raccomandazioni 2012 dell’USPSTF sull’obesità degli adulti

LUSPSTF (U.S. Preventive Services Task Force) ha, sulla base delle evidenze pubblicate e accumulate dal 2003, aggiornato le raccomandazioni dell’obesità degli adulti dai diciotto anni e oltre, puntando soprattutto sulla prevenzione sanitaria (AHRQ Publication No. 11-05159-EF-3. June 2012.). In sintesi esse hanno confermato che:


Le linee guida 2013 AHA/ACC per la gestione negli adulti del sovrappeso/obesità

Come riportato, l'obesità è stata definita un grave problema di salute pubblica in tutto il mondo che riduce l’aspettativa della vita. In effetti, essa aumenta il rischio di morbilità dell’ipertensione, della dislipidemia, del diabete mellito tipo 2, della malattia coronarica, dell’ictus, delle colecistopatie, dell’osteoartrosi, dell’apnea nel sonno e di alcuni tipi di cancro. L'obesità è anche associata a un aumentato rischio di mortalità per tutte le cause e soprattutto per quella riguardante le malattie cardiovascolari. Peraltro, le conseguenze sanitarie, psico-sociali ed economiche di tutto ciò hanno implicazioni importanti per la salute e il benessere di tutta la popolazione.

In conformità ai criteri generali dettati nel 1998 da F.Xavier Pi-Sunyer della Columbia University College of Physicians and Surgeons e collaboratori sull’identificazione, sulla valutazione e sul trattamento del sovrappeso e dell'obesità degli adulti, il primo è definito da una BMI (body mass index) da 25 a 29,9 kg/m2 e la seconda da una superiore a 30 (Obes Res 1998;6 Suppl 2:51S–209S). La BMI è calcolata dividendo il peso in chilogrammi per il quadrato dell'altezza in metri (kg/m2). L'obesità, in particolare, è poi distinta in classe I per una BMI da 30 a 34,9 kg/m2, in classe II per una BMI da 35 a 39,9 kg/m2 e in classe III o obesità estrema per una BMI maggiore di 40 kg/m2.
Nel prosieguo degli obiettivi rivolti a evitare le CVD (cardiovascular diseases) e a migliorare la gestione dei malati attraverso la formazione professionale e la ricerca, l’ACC (American College of Cardiology) e l’AHA (American Heart Association), in collaborazione con il NHLBI (National Heart, Lung , and Blood Institute), hanno promosso recenti linee guida per la valutazione del rischio CV, per i cambiamenti dello stile di vita al fine di ridurlo,  per la gestione dei livelli di colesterolo nel sangue (vedi notiziario Novembre 2012 N°10 ) e per il controllo del sovrappeso e dell’obesità negli adulti.
Per quest’ultimo argomento si sono occupati Michael D. Jensen della Mayo Clinic Endocrine Research Unite, Co-Chair con Donna H. Ryan della Louisiana State University's Pennington Biomedical Research Center, Baton Rouge, e collaboratori (2013 AHA/ACC/TOS Obesity Guideline). Già nel 2008 queste linee guida erano state avviate in conformità a rigorose revisioni sistematiche e nel giugno 2013 sono state completate e pubblicate come ottenute dagli studi randomizzati e osservazionali e dalle meta-analisi.

Le nuove linee guida dell’obesità sono derivate dall’analisi dei migliori studi randomizzati o epidemiologici, cercando di offrire le migliori risposte ai medici. Il comitato di scrittura, infatti, ha identificato i seguenti cinque critici interrogativi che sono stati d’aiuto per delineare e proporre le raccomandazioni:
• Chi deve perdere peso?
• Quali sono i vantaggi della perdita di peso e quanto è necessaria?
• Qual é la dieta migliore?
• Qual é l'efficacia d’intervento sullo stile di vita?
• Quali sono i benefici e i rischi delle procedure della chirurgia bariatrica?
Medscape del 12.11.2013 ha riportato quanto raccolto dagli autori e Donna H. Ryan ha affermato che nel campo dell’obesità si possono osservare condizioni sconvolgenti. In effetti, la maggior parte dei fornitori di pronto  intervento non ha una preparazione adeguata sull’eziologia, patogenesi, diagnosi e trattamento dell’obesità, per cui si costata una disinformazione sulla gestione del peso con promozione dell’uso dei soli integratori alimentari e delle diete che promettono semplicisticamente la perdita del peso rapida e facile. La stesura delle nuove le linee guida per l'obesità si è dimostrata, quindi, davvero opportuna per la fornitura d’informazioni autorevoli in aiuto ai medici per il buon trattamento dei loro pazienti. Le nuove raccomandazioni indicano l'indice di massa corporea (IMC) come screening di primo passo, rapido e facile per l’identificazione di chi dovrebbe perdere peso. L'uso della misura della circonferenza della vita rappresenterebbe, invece, l’indicatore del rischio del diabete di tipo 2, delle malattie cardiovascolari e della mortalità per tutte le cause. Ne consegue la raccomandazione agli operatori sanitari di calcolare l’IMC annualmente o più di frequente.
Nel 1998 la soglia del valore dell’IMC, che indicava l’inizio del trattamento, corrispondeva a trenta, o venticinque in caso della presenza di due comorbidità. In queste nuove linee guida la perdita del peso dovrebbe essere incoraggiata, invece, alla presenza di un IMC di venticinque con una sola comorbidità, che può essere rappresentata anche dall’elevata circonferenza della vita.
Il limite per la circonferenza della vita è di 102 cm per gli uomini e ottantotto per le donne, tenendo conto della derivazione etnica per cui alcuni gruppi, come gli asiatici del sud, devono far considerare una soglia più bassa.  
Una volta identificati i pazienti da trattare, i medici devono considerare se la perdita, anche modesta del peso, possa davvero portare a miglioramenti clinicamente significativi per la salute. Le evidenze accumulate a riguardo hanno indicato che la perdita di peso dal 5 al 10% è quella accompagnata da questi miglioramenti. Pur tuttavia, anche condizioni minori pari al 2 sino al 5% possono risultare positive.

Rimane, come punto fermo e principale della terapia, l’inizio insostituibile del cambiamento dello stile di vita con gli effetti più efficaci della dieta, dell'attività fisica e della consulenza comportamentale. Decisivo e importante è il momento dell’inserimento del programma della chirurgia bariatrica per i pazienti con una BMI di trentacinque o superiore e con una comorbilità o con una di quaranta o più alta.
Per quanto riguarda la dieta, l’evidenza non ha indicato alcun particolare programma, rispetto a qualsiasi altro. Insomma, non vi è alcuna dieta ideale per perdere peso e non c'è superiorità di nessuna delle diete consigliate in letteratura o dai media commerciali. A guidare la scelta devono essere piuttosto le preferenze del paziente e il suo stato di salute. In effetti, se il paziente è iperteso, la scelta graviterà verso una dieta ipocalorica a basso contenuto di sodio, come la DASH.
Principio centrale delle nuove raccomandazioni è, comunque, il riconoscimento che i pazienti hanno bisogno di aiuto per perdere peso e il gold standard, in tal caso, è costituito dalla consulenza comportamentale. L'evidenza indica, infatti, che tali programmi sono affidabili nel produrre e nel sostenere la modesta perdita del peso tra il 5 e il 10%. In caso d’indisponibilità, possono anche essere utilizzati approcci web-based, o telefonici, o anche alcuni programmi commerciali.
Pur in assenza di specifiche raccomandazioni sull’uso dei farmaci contro l’obesità, le linee guida riportano un algoritmo di trattamento per il loro uso.
Essi sono, in effetti, consigliati per quanti non riescono a raggiungere e a mantenere la perdita del peso con i soli interventi integrati dello stile di vita. L’indicazione è, quindi, di provare uno dei farmaci disponibili per l’obesità a coloro con un’IMC di trenta o superiore o di ventisette o superiore con comorbidità. I farmaci, comunque, devono essere impiegati come raccomandato dagli organismi ufficiali, i quali ne consentono la somministrazione iniziale per dodici settimane, termine utile per la valutazione della loro efficacia.  In caso contrario, i farmaci dovrebbero essere giudicati inefficaci e non più continuati.


Programmi commerciali e sanitari a confronto per il calo del peso

Un dato ormai acquisito nella terapia dell’obesità è che, se anche la maggior parte dei trattamenti permette di raggiungere un calo ponderale più o meno soddisfacente, in seguito, entro i cinque anni, nella maggior parte dei casi si osserva il ripristino dell’aumento del peso.
Negli ultimi anni una gran parte di persone, soprattutto dei paesi più sviluppati, ha scelto un programma di perdita di peso professionale o commerciale. A tale riguardo, bisogna considerare che quasi tutti quelli commerciali possono ottenere un successo, ma solo se motivano a sufficienza la persona, in modo da farle cambiare effettivamente lo stile di vita con la dieta e l’esercizio fisico giornaliero.
È molto importante, a tal fine, che l’obeso raggiunga la consapevolezza dell’evidenza scientifica che anche il modesto calo ponderale del 10% e forse anche del 5% controlla e migliora la maggior parte delle complicanze dell'obesità.

È da notare, tuttavia, che l’obeso tende spesso a seguire i programmi fai da te. Il TOPS, ad esempio, fondato nel 1948, aiuta a perdere peso in modo responsabile, sensibile, limitando l’introito delle calorie. Il principio su cui si basa è nell’affermazione che i cibi giusti si possono mangiare in buona quantità. In effetti, ciò che è importante sono le calorie che si assumono.   L’Eating Disorders Anonymous è, invece, un gruppo Internazionale fondato nel 2000, composto di uomini e donne che condividono la loro esperienza, forza e speranza per la soluzione dei loro problemi comuni. Si pone, tra l’altro, anche l’obiettivo di recuperare gli altri dai loro disturbi alimentari, sostenendo la sana alimentazione.
I programmi non clinici, invece, rispondono a iniziative commerciali, molto popolari. Sono strutturati dalla società madre e basati su incontri settimanali gestiti da professionisti di diversa formazione con l’ausilio d’illustrazioni, d’istruzioni, in collaborazione con gli operatori sanitari.
Ad esempio, la dieta Weight Watchers, ideata negli anni sessanta, riguarda un’organizzazione internazionale diffusa in molti Paesi del mondo. Essa si basa su un sistema di punteggi mirati a soddisfare i fabbisogni giornalieri dell’individuo. La sua filosofia centrale consiste in un programma scientifico che aiuta a perdere peso attraverso lo sviluppo dei corretti comportamenti alimentari. L’esercizio fisico quotidiano e la partecipazione ai gruppi di supporto costituiscono gli elementi necessari di accompagnamento.
Pur tuttavia, quasi tutti i programmi commerciali della perdita del peso possono funzionare, ma solo se si motivano a sufficienza le persone a cambiare lo stile di vita nei riguardi della dieta e dell’attività fisica. Peraltro, pur essendo popolari per la loro pronta disponibilità, la loro efficacia è difficilmente valutabile per l’esiguità degli studi statistici e per l’alta percentuale delle rinunzie. I medici di famiglia, dal loro canto, spesso assistono i loro pazienti, aiutandoli a scegliere quei programmi con le diete a basso contenuto di grassi e con l’enfasi dell'attività fisica.
Inoltre, il proprio medico di fiducia può consigliare i programmi adeguati e aiutare a ottenere, come obiettivo sensibile, la perdita di peso. In caso  di una dieta molto ipocalorica, è, comunque, doveroso che essa sia esaminata e monitorata da un medico. Peraltro, lo stesso, in via preliminare, deve assicurarsi, in ogni caso, che una dieta, anche se ipocalorica, sia sicura. Per questo deve includere tutte le RDA (Recommended Daily Allowance) di vitamine, minerali e proteine. In generale, per la maggior parte delle donne è consigliabile una dieta dalle 1.000 alle 1.200 calorie il giorno e per gli uomini una tra le 1.200 e le 1.600. Il programma, peraltro, dovrebbe favorire una lenta, costante perdita del peso, salvo altre indicazioni del medico. Generalmente è auspicabile un calo del peso corporeo di un solo chilo la settimana, dopo la prima e la seconda.  Peraltro, bisogna ricordare che la perdita rapida, iniziale del peso va attribuita, generalmente in gran parte, all’eliminazione dei liquidi.
Jolly K dell’University of Birmingham e collaboratori, per valutare l'efficacia di una serie di programmi di perdita di peso, hanno compiuto uno studio randomizzato e controllato di otto bracci su 740 uomini e donne obesi, o in sovrappeso, con comorbidità, identificati dai registri della medicina generale (BMJ. 2011 Nov 3;343:d6500). I programmi della durata di dodici settimane erano tre commerciali (Weight Watchers, Slimming World, Rosemary Conley) e altri tre di consulenza sanitaria (dietista, medico generale, farmacista). Il gruppo di confronto otteneva dodici voucher per l'ingresso gratuito a un centro locale ricreativo di fitness.

L'endpoint primario era la perdita di peso a fine ciclo delle dodici settimane. I secondari erano la perdita del peso a un anno, l'attività fisica auto riferita e la perdita del peso percentuale alla fine del programma e a un anno.
Al follow-up erano disponibili i dati dello 88,9% dei partecipanti, pari a 658 soggetti, e a un anno del 70,5%, pari a 522 persone. Alla fine del programma si registrava una significativa perdita del peso, rispetto al basale, dagli 1,37 kg della medicina generale ai 4,43 del Weight Watchers. Peraltro, tutti, tranne quelli della medicina generale e della consulenza del farmacista, comportavano in un anno la perdita significativa del peso dagli 0.7 ai 3,5 kg.

A un anno, però, solo il gruppo del Weight Watchers segnava con i 2,5 kg di perdita media di peso il risultato significativamente maggiore rispetto al gruppo di confronto (intervallo di confidenza 95% 0,8-4,2). Comunque, i programmi commerciali promuovevano al termine un calo del peso con differenza media di 2,3 kg (1,3-3,4), significativamente maggiore di quello dell’assistenza primaria.
 

Peraltro, i programmi di assistenza primaria si dimostravano i più costosi. I partecipanti, assegnati a un braccio di scelta di un programma, non avevano, inoltre, risultati migliori rispetto a quelli assegnati casualmente.
In conclusione, secondo questi dati, i servizi di controllo del peso disponibili in commercio sarebbero più efficaci e meno costosi dei servizi di assistenza primaria, basati e guidati dal personale specializzato. Tutto ciò è probabilmente possibile per il supporto intensivo e incentivante offerto dai primi, come forza di gruppo in sessioni settimanali a sostegno della motivazione e del cambiamento comportamentale. Comunque, anche nella differenziata enfasi, adottata dai vari interventi sull’attività fisica, tutti i gruppi dimostravano un certo aumento dell'attività fisica.
Dal loro canto, invece, Adam G. Tsai dell’University of Colorado School of Medicine e collaboratori, sempre nell’intento di confrontare l'efficacia dell’intervento per la perdita di peso di un programma popolare commerciale con quella di uno clinico, hanno svolto uno studio randomizzato su quarantasei obesi con indice di massa corporea ≥ 30 kg/m2, senza complicazioni gravi (Journal of Primary Care & Community Health October 2012 vol. 3 no. 4 251-255.). In tal modo, ventitré partecipanti ottenevano un voucher per partecipare al programma Weight Watchers per diciassette settimane. Altri ventitré lo ottenevano per seguire quello clinico che forniva dodici visite oltre diciassette settimane e la possibilità di aumentare la perdita del peso, utilizzando sia sostituzioni dei pasti sia farmaci anorettizzanti. L'endpoint primario era costituito dal cambiamento del peso. Il gruppo del programma clinico perdeva -4,0 ± 1,2 kg, rispetto ai -0,4 ± 1,1 di quelli assegnati al programma commerciale (P = .04 per la differenza). Le perdite di peso nel braccio clinico erano 3,2 kg per i dieci soggetti con i pasti sostituti e 5,0 kg per i tredici con fentermina.
In conclusione, in questo studio il programma clinico per la perdita di peso era più efficace che quello popolare commerciale.


Strategie di successo per la perdita di peso e per il suo mantenimento

Come riportato, quindi, anche se la perdita di peso possa essere raggiunta attraverso interventi dietetici molto controllati, come dimostrato da molti studi, l’evidenza del conseguente recupero dei chili in più è quasi universale. Purtroppo, i medici, che devono combattere contro una malattia cronica con onerose conseguenze cliniche, economiche ed emotive, si ritrovano un armamentario limitato per ovviare a tale situazione. Pur tuttavia, per migliorarla si ravvede ormai la necessità di adottare approcci diversificati su più fronti. Insomma, per ridurre la prevalenza dell’obesità e del sovrappeso bisogna intervenire sulla società, sulle comunità, sulle famiglie e a livello dei singoli pazienti. Le potenziali aree d’intervento devono, pertanto, comprendere il settore economico con, ad esempio, tassazioni e sovvenzioni, quello della produzione e del marketing alimentare e quello dell'ambiente, comprese le scuole, i luoghi di lavoro e i quartieri cittadini. Le azioni devono, peraltro, essere dirette sia sull’ambientale e sia a livello individuale. Tutto ciò proprio perché nella maggioranza degli studi, come si è già detto, si è dimostrata la perdita del peso ma non il suo mantenimento, rilevatosi molto più difficile. Consequenzialmente sono state ritenute necessarie raccomandazioni per le strategie che potessero aiutare gli obesi alla perdita del peso, ma anche e soprattutto a conservarla. A tale riguardo, quindi, riportandosi al concetto del bilancio energetico, le strategie possibili dovrebbero concentrarsi sull’assunzione di energia, cioè sulla dieta, oppure sul suo dispendio, cioè sull’attività fisica, o anche sui comportamenti che supportino le modifiche dell’apporto o del dispendio energetico, come nel caso dell’automonitoraggio dell’assunzione degli alimenti o dell’attività fisica.
Stephanie Ramage dell’University of Alberta, Canada e collaboratori hanno voluto vagliare le prove scientifiche in letteratura sulle strategie di successo tra gli adulti per la perdita del peso con la dieta e con il suo mantenimento a lungo termine a livello individuale (Appl. Physiol. Nutr. Metab. 2014, 39: 1–20). Ciò è stato fatto prendendo una prospettiva di salute pubblica, considerando solo le strategie sane e sicure che gli individui potessero fare da soli, senza controllo del medico. Di conseguenza, gli Autori non esaminavano diete molto ipocaloriche e strategie farmacologiche o chirurgiche che richiedessero servizi di assistenza medica. Peraltro, i risultati avrebbero dovuto dare delle risposte ai seguenti particolari quesiti:

Gli studi esaminavano partecipanti in sovrappeso o obesi tra i diciotto e i sessantacinque anni di età. Erano definiti di successo quando segnalavano una perdita di peso al basale uguale o maggiore al 5% e una fase di conservazione del risultato per almeno dodici mesi. Su tali principi erano selezionate sessantasette pubblicazioni. Nel complesso, la perdita di peso significativa era raggiunta nei casi di adozione di un deficit energetico, sostenuto comunemente da una riduzione dell’assunzione dei grassi. Gli interventi efficaci si affidavano anche all’aumento delle fibre alimentari nella quota del 21% delle sostanze nutritive. Pure l’attività fisica e l'automonitoraggio, quando inclusi negli interventi dei programmi di perdita di peso, nell’88% l’una e nel 92% l’altro favorivano il successo. Peraltro, per il successo del mantenimento del peso si dovevano realizzare le stesse combinazioni di limitazione delle energie derivanti dai grassi e di regolare l’attività fisica e la strategia comportamentale.
In conclusione, questa revisione confermava quanto già noto sulla perdita del peso negli adulti e sulla sua conservazione. Ovverossia, le evidenze della ricerca medica supportavano la validità di un approccio globale. Insomma, per garantire nella lotta all’obesità il successo della perdita del peso corporeo e il mantenimento dei risultati, erano necessari un apporto alimentare ridotto, una regolare attività fisica, uniti alle strategie comportamentali.  


Sessioni pratiche culinarie unite alla didattica per combattere l’obesità

Da qualche tempo s’insiste sui cambiamenti delle abitudini alimentari degli obesi e dei modelli da seguire per raggiungerli e mantenerli per il desiderato controllo del peso corporeo.  Tuttavia, spesso non si ottengono i risultati attesi. È evidente, quindi, la necessità di sforzi educativi avanzati, volti a tradurre decenni di scienza della nutrizione in strategie concrete, onde consentire pasti sani, a prezzi accessibili, di facile preparazione che diventino gli elementi predominanti dello stile di vita alimentare della persona. In tale campo sono volenterosamente impegnati medici, infermieri, dietisti e anche scuole di arti culinarie. Tuttavia, raramente si assiste a un’attiva partecipazione congiunta di questi ordini professionali, in modo da condividere e distribuire informazioni, competenze e idee sulla nutrizione più adeguate per il soggetto con eccesso di peso.
Pur tuttavia, nell’intento di istituire partenariati tra il medico e le comunità dell’arte culinaria, si è giunti alla creazione della conferenza della formazione continua "Healthy Kitchens, Healthy Lives–Caring for Our Patients and Ourselves”, presentata dall’Harvard University e da The Culinary Institute of America (Diabetes Spectrum. 2010;23(3):183-187). Essa ha compreso presentazioni di epidemiologi nutrizionali, dietisti, maestri di cucina, fisiologi dell'esercizio ed esperti comportamentali. I partecipanti hanno frequentato sessioni plenarie e pratiche, didattiche e interattive, e gruppi di lavoro. Il modello concettuale di questo programma si basava sull'osservazione che un comportamento salutare degli operatori sanitari, praticato personalmente, dovesse rappresentare, davvero, un potente predittivo d’influenza positiva e ripetitiva nel paziente. In effetti, l'inclusione di una formazione partecipativa culinaria con dimostrazioni di preparazione delle vivande, combinata alle più tradizionali presentazioni didattiche sulla nutrizione, avrebbe dovuto e potuto causare i cambiamenti del comportamento alimentare dei partecipanti in eccesso ponderale.
David M. Eisenberg dell’Harvard medical school e collaboratori hanno condotto un sondaggio anonimo sui comportamenti auto riferiti e legati alla nutrizione all’inizio della conferenza nel marzo 2010 e dopo dodici settimane (JAMA Intern Med. Published online February 18, 2013 doi:10.1001). Gli Autori hanno anche studiato il rapporto tra i comportamenti nutrizionali personali e quelli di consulenza professionale con l'indice di correlazione R per ranghi di Spearman. Di 387 dichiaranti, 219, pari al 57%, completavano il sondaggio al basale e 192, pari al 50%, il follow-up dell’indagine. Un totale di 265, pari al 66%, erano medici. Gli intervistati riportavano significativi cambiamenti positivi nella frequenza del cucinare i propri pasti, passando dal 58% del pretest al 74% del post-test (p <.001). La consapevolezza personale del consumo delle calorie era nel pre-test il 54% e nel post-test il 64% (P< .05). D’altra parte, la frequenza del consumo di verdura era rispettivamente il 69% e lo 85% (p <.04), il consumo di noci il 53% e il 63% (p <.04), il consumo di cereali integrali il 67% e lo 84% (P <.001), la capacità di valutare lo stato nutrizionale il 46% e lo 81% (P <.001) e la capacità di consigliare con successo i pazienti in sovrappeso o obesi in materia di abitudini alimentari e stile di vita il 40% e lo 81 % (p <.001). A tre mesi del follow-up si evidenziavano modeste, ma significative, correlazioni tra la qualità della dieta autoriferita dai medici e la loro capacità di consigliare i cambiamenti della nutrizione e dello stile di vita nei pazienti in sovrappeso e obesi (correlazioni 0,35-0,44 P <001).
In definitiva, gli Autori hanno esplorato la possibilità che l'inclusione di una formazione culinaria, sotto forma di dimostrazioni di cucina e di cottura manuale, in aggiunta alle tradizionali informazioni didattiche nutrizionali, si potesse tradurre in cambiamenti positivi della dieta e dello stile di vita misurabili, perché legati alla partecipazione attiva degli operatori sanitari. In effetti, molti di essi aspiravano a comunicare ai propri pazienti le abitudini alimentari e a servire come modelli nel ruolo. Tuttavia, essi stessi, come i pazienti che servivano, spesso mancavano della conoscenza e dell'esperienza pratica necessaria per ottenere i risultati efficaci. Le strategie pratiche dei pasti sani, gustosi, a prezzi accessibili, di facile preparazione rappresentavano gli elementi predominanti di stile di vita alimentare di una persona. Secondo gli Autori, il loro programma multidisciplinare, educativo e interattivo doveva, quindi, essere meritevole di ulteriori indagini in questo senso. Forse in questa epoca di progresso scientifico in materia di scienza della nutrizione si riteneva anche opportuno insegnare agli insegnanti i modi per accedere, preparare e gustare un pasto sano e gustoso, in modo che a loro volta potessero consigliare ai loro pazienti di fare lo stesso.


Interventi efficaci sullo stile di vita anche nell’obesità grave

Negli ultimi anni sembrerebbe che la prevalenza dell’obesità e quella del lieve sovrappeso abbiano incominciato a stabilizzarsi, mentre quella della forma grave con BMI ≥ 40 kg/m2 continui ad aumentare con percentuali del 52% in cinque anni. In effetti, le categorie estreme della malattia rappresentano il segmento in più rapida crescita nella popolazione in sovrappeso, proponendo un problema significativo sempre più oneroso per l’individuo e la collettività. Purtroppo, poi, l'obesità severa è, invero, associata con una prevalenza significativamente più alta delle condizioni di comorbidità, tra cui il diabete, ma anche con i risultati dei tassi di mortalità più elevati. Per queste ragioni sono in continuo movimento serie di studi e di promozioni per offrire le opzioni più adeguate ed efficaci di trattamento. Ciò in contrapposizione con la cultura del non tanto remoto passato per cui i grandi obesi erano esclusi dalla maggior parte degli studi clinici per la perdita di peso per i criteri legati all’alto BMI e / o ad altre condizioni di comorbidità. Inoltre, nonostante la mancanza di prove empiriche, era suggerito da più parti che questa popolazione non potesse essere efficacemente trattata con gli interventi sullo stile di vita. In questo periodo, invece, la chirurgia bariatrica, ormai, si propone come l'approccio terapeutico raccomandato per gli individui con l’obesità grave, una volta che abbiano fallito gli altri metodi meno invasivi. Pur tuttavia, la chirurgia rimane una procedura limitata, essendo sempre gli interventi di stile di vita il trattamento principale, di cui continuano gli studi per dimostrarne l’efficacia. Peraltro, il diabete, associato comunemente all’obesità grave, purtroppo può rendere ancor più difficile in tali casi la perdita del peso.
Jessica L. Unick della Miriam Hospital and Brown Medical School, Providence, Rhode Island e collaboratori hanno voluto esaminare l'effetto di un ILI (intensive lifestyle intervention) sulla perdita di peso, sul rischio di CVD (cardiovascular disease) e sull'adesione al programma nei soggetti con diabete di tipo 2 che erano gravemente obesi, rispetto ai gruppi in sovrappeso con BMI da 25 a <30 kg/m2, obesi in classe I con BMI dai 30 a <35 kg/m2) e in classe II con BMI dai 35 a <40 kg/m2 (Diabetes Care October 2011 vol. 34 no. 10 2152-2157.)
I partecipanti dello studio Look Ahead (Action for Health in Diabetes) erano randomizzati a supporto del gruppo ILI di 2.503 partecipanti di età di 58,6 ± 6,8 anni o di quello DSE (diabetes support and education). Questi ultimi ricevevano un intervento educativo meno intenso, mentre i primi un trattamento comportamentale intensivo per aumentare l'attività fisica e ridurre l'apporto calorico.
A un anno gli obesi gravi del gruppo ILI perdevano -9,04 ± 7,6% del peso corporeo iniziale, significativamente maggiore (p <0,05) rispetto ai partecipanti in sovrappeso dello stesso gruppo (-7,43 ± 5,6%) e in modo paragonabile agli obesi della classe I (-8,72 ± 6,4%) e II (-8,64 ± 7,4%). A un anno tutti i gruppi di BMI riscuotevano miglioramenti comparabili in fitness, attività fisica, colesterolo LDL, trigliceridi, pressione arteriosa, glicemia a digiuno e HbA1c.

La partecipazione alle sessioni del trattamento ILI era eccellente e non differiva tra le categorie di peso, essendo con p = 0,43 pari allo 80% negli obesi gravi e allo 83% negli altri.
In conclusione, gli obesi gravi del gruppo ILI dimostravano un’aderenza, una percentuale di perdita di peso e un miglioramento del rischio di malattie cardiovascolari simili agli altri partecipanti allo studio, proponendo per questa popolazione con forza i programmi della perdita di peso, come opzione efficace.


La gestione dell’obesità nelle cure primarie

L'obesità, pur rappresentando una malattia molto diffusa che colpisce gran parte della popolazione mondiale con i gravosi riflessi sulla spesa sanitaria, non viene ancora combattuta con la dovuta attenzione e vigore dai medici delle cure primarie.  Negli Stati Uniti, ad esempio, colpisce un terzo degli adulti con costi di 147 miliardi di dollari annualmente e si stima che, nonostante che le linee guida nazionali raccomandino ai medici di assistenza primaria di consigliare i loro pazienti obesi a perdere peso, solo un loro terzo di questi ultimi riferisce di ricevere la diagnosi o incoraggiamenti su come farlo.
In effetti, nella medicina di prima linea si notano attenzioni sempre crescenti a favore della maggiore conoscenza sulle cause dell’obesità, ma poche sulle possibili soluzioni per migliorarne la cura. Peraltro, quest’area di ricerca è senz’altro importante poiché il medico delle cure primarie si trova in una posizione unica e privilegiata per trattare la malattia e per assistere il malato a mantenere il peso salutare.
In effetti, anche se l'evidenza degli studi clinici suggerisca la maggiore probabilità della perdita di peso dei pazienti su invito e stimolo dei propri medici di base, purtroppo sembrerebbe che questo intervento sia spesso trascurato. È dato frequente anche che gli obesi ricevano il suggerimento di calare di peso, ma senza essere bene istruiti su come farlo. Questi dati indicano la necessità da parte dei medici di comprendere meglio le pratiche cliniche sul bilancio energetico, come ad esempio la consulenza per la dieta, per l'attività fisica e per il controllo del peso, con particolare riguardo alle loro relazioni con il carico di malattia. In effetti, la letteratura ha ampiamente riportato le barriere a livello medico per la cura dell'obesità, che per buona parte possono anche dipendere dalla qualità e dalla sede della formazione del medico. Si riferiscono alla conoscenza clinica e agli atteggiamenti inadeguati verso i pazienti obesi, come la carenza dell’ottimale formazione di comunicazione nel consigliare la riduzione del peso o la scarsa conoscenza degli strumenti necessari per diagnosticare e trattare la malattia. Va considerato in tale ambito anche l’atteggiamento negativistico nell’affrontare il problema, come nello stigmatizzare falsamente il valore del sovrappeso, nella sensazione o convinzione che l'obesità sia dovuta alla diretta e quasi esclusiva responsabilità del paziente, nel pessimismo dimostrato verso il desiderio o verso la capacità del paziente di perdere peso, nella convinzione che la consulenza nel programma della perdita di peso sia inefficace o nel dubbio che possa avere un effetto sul comportamento del paziente.
Ashley Wilder Smith del National Cancer Institute, Bethesda, Maryland e collaboratori hanno voluto analizzare la pratica professionale dei medici delle cure primarie degli adulti nell’affrontare i problemi della dieta, dell'attività fisica e del controllo del peso (Am J Prev Med. 2011 July; 41(1): 33–42).

Gli Autori hanno, così, eseguito nel 2008 e analizzato nel 2010 un sondaggio rappresentativo nazionale di 1.211 PCPs (primary care physicians), raccolto dall’American Medical Association’s Masterfile. Gli esiti includevano: la valutazione professionale, le raccomandazioni, la consulenza e il follow-up della dieta, dell’attività fisica e del controllo del peso in pazienti adulti con e senza malattia cronica.  Erano compresi anche: l’uso dei farmaci e l’invio ai trattamenti chirurgici per il sovrappeso e l'obesità.
Il tasso di risposta al sondaggio era del 64,5% e la metà circa dei PCP, per precisione il 49%, riferiva di aver registrato regolarmente la BMI (body mass index). Meno del 50% aveva, però, fornito sempre le indicazioni specifiche sulla dieta, sull'attività fisica, o sul controllo del peso. Peraltro, indipendentemente dallo stato di malattia cronica dei pazienti, meno del 10% aveva riportato un'ulteriore valutazione / gestione e meno del 22% in modo sistematico il monitoraggio nel tempo in materia di peso o di comportamenti legati a esso. Nel complesso, i PCP erano propensi a erogare consigli più sull’attività fisica che sulla dieta o sul controllo del peso (p < 0,05).
Infine, si osservava un’elevata prevalenza del 71,2% e dello 86,0% che rispettivamente non usava mai trattamenti farmacologici per il controllo del peso o trattamenti chirurgici. Gli ostetrici/ginecologi, dal loro canto, erano meno propensi degli internisti a prescrivere farmaci dimagranti (43,7 % vs 73,6%; OR= 0.23, IC 95% = 0.18 - 0.35), mentre la differenza tra questi ultimi e i medici di famiglia non era significativa (73,6% vs 81,4%; OR = 1.34, IC 95% = 0,90 - 2,00 ). Rispetto agli internisti, poi, gli ostetrici/ginecologi erano meno propensi a fare riferimento alle procedure chirurgiche per l'obesità (86,7% vs 73,8%; OR = 0,37, IC 95% = 0.24 - 0.55). Nessuna differenza significativa si evidenziava, invece, tra gli internisti e i medici di famiglia (86,7% vs 90.9%; OR = 1.15, IC 95% = 0.70 - 1.91). I medici di sesso femminile e asiatici, rispetto ai medici di sesso maschile e bianchi, così pure quelli più anziani, erano meno propensi a prescrivere i farmaci. I medici asiatici, inoltre, mostravano minore probabilità di rapportarsi con i trattamenti chirurgici, rispetto ai bianchi.
In conclusione, i PCP valutavano e gestivano i comportamenti degli adulti in sovrappeso e obesi a un livello basso, non rispettando la grandezza del problema.
Dal loro canto, Octavia Pickett-Blakely dell’University of Pennsylvania, Philadelphia e collaboratori hanno voluto esaminare se il sesso, più o meno concordante tra medico e paziente, potesse avere negli obesi le stesse probabilità di effetto sui consigli della perdita di peso (Am J Prev Med. 2011 June; 40(6): 616–619).
Gli studi, invero, avevano solo suggerito che i pazienti obesi di colore, a differenza dei bianchi, ricevevano dai medici bianchi minori raccomandazioni sull’esercizio.  Lo studio, pertanto, voleva testare due ipotesi:

Gli Autori per il loro studio osservazionale trasversale hanno, così, utilizzato nel 2010 l’Ambulatory Medical Care Survey del 2005-2007. Hanno analizzato i dati degli incontri clinici di 5.667 obesi con i loro medici per determinare l'associazione tra la concordanza di genere medico-paziente e tre tipi di consulenza correlata al peso, come dieta / nutrizione, esercizio fisico e riduzione del peso.
Consulenze sulla dieta / alimentazione, esercizio fisico e riduzione del peso erano stati forniti rispettivamente al 30, 23 e 20% dei pazienti obesi.

Le coppie dei pazienti/medici maschi facevano rilevare un significativo maggiore odds ratio di consulenza sulla dieta / nutrizione (OR 1,58, IC 95%: 1.05 - 2.40) e sull’esercizio fisico (1,76, IC 95%: 1.13 - 2.74), rispetto alle coppie femminili. Non vi erano, invece, differenze significative in ogni forma di consulenza correlata al peso tra le coppie di genere concordanti e discordanti di genere femminile.
In conclusione, i risultati dello studio suggerivano che solo la concordanza di genere maschile medico-paziente era positivamente associata con la consulenza sulla dieta / nutrizione e sull'esercizio fisico.

A tale proposito, Gilles Plourde e Denis Prud della Cliniques Médicales de Nutrition et d'Amaigrissement de Gatineau, Quebec hanno proposto l'utilizzo del modello 5AS per la gestione dell'obesità (CMAJ June 12, 2012 184:1039-1044). In questo contesto è interessante notare che di recente la Canadian Obesity Network ha elaborato una serie di strumenti basati sul 5AS, leggermente modificati per rispondere specificamente alle esigenze dei professionisti delle cure primarie.
Gli strumenti si basano su ricerche approfondite che coinvolgono i medici di base e gli esperti sull’obesità. Hanno, peraltro, ottenuto un riscontro positivo da parte dei pazienti.

Pertanto, anche se non esiste un unico approccio che funziona totalmente, i medici possono utilizzare il modello 5A con successo e consigliare i pazienti a cambiare le loro abitudini alimentari e i livelli di attività fisica. Il modello 5A, adottato già in altre terapie come per lo smettere di fumare, è costituito dal: valutare / chiedere, consigliare, concordare, assistere e organizzare.
Le modificazioni della dieta e la restrizione calorica hanno dimostrato, così, di essere efficaci. Di poi, combinando l’incremento dell’attività fisica e / o della sua intensità, si ottengono maggiori vantaggi. Inoltre, la terapia comportamentale, rivolta a modificare lo stile di vita del paziente e la consuetudine dei cattivi vizi, ha dimostrato di aumentare il successo degli interventi dietetici e dell'esercizio fisico, aiutando anche i pazienti a mantenere i risultati.
Invero, si continua a ripetere che molti medici non si sentono addestrati a trattare l'obesità e i problemi di peso, eppure l’evidenza indica che la misurazione regolare dell’indice di massa corporea e della circonferenza della vita e l'utilizzo delle indicazioni per monitorarli può portare a una migliore gestione della malattia.
Questo, pertanto, si rivela un settore importante della ricerca poiché la formazione dei medici di prima linea rappresenta sicuramente una condizione opportuna e necessaria per migliorare la qualità del medico e i modelli pratici di cura dell'obesità. Ne deriva, quindi, che le nuove coorti di studenti di medicina devono avere maggiori probabilità di ricevere questa formazione.
Appare, in ogni modo, urgente in tale ambito il bisogno di diffondere l’uso di semplici, efficaci strategie nella pratica clinica.
            Per loro conto, Sara N Bleich della Johns Hopkins Bloomberg School of Public Health, Baltimore, Maryland, USA e collaboratori hanno voluto descrivere le prospettive dei medici sulle cause e sulle soluzioni della cura dell'obesità, identificando le differenze riscontrate per numero di anni dal completamento della scuola medica (BMJ Open 2012;2:e001871). Gli Autori hanno, così, eseguito un sondaggio online trasversale nazionale dal 9 Febbraio al primo marzo 2011 in USA con la partecipazione di 500 medici di assistenza primaria. Si sono, quindi, valutate le prospettive del medico su:

I medici di assistenza primaria sostenevano in forma indiscutibile che fosse necessaria una formazione supplementare per essere aiutati a migliorare la cura dell'obesità. Avanzavano la necessità di strumenti pratici, come scale per desumere l'indice di massa corporea, e corsi di preparazione su come impostare i consigli dell'alimentazione. Inoltre, individuavano nei nutrizionisti / dietologi gli specialisti più qualificati cui ricorrere in consulenza. Peraltro, i medici con meno di venti anni dal completamento della scuola medica mostravano maggiore probabilità di identificare, come importante causa di obesità, la mancanza delle informazioni sulle buone abitudini alimentari e dei cibi sani. Riferivano, inoltre, che la partecipazione emotiva verso i loro pazienti obesi era di aiuto relativo al successo della perdita di peso. Il tasso di risposta all'indagine, comunque, era del 25,6%.             Peraltro, complessivamente il 75% dei PCP individuava nella genetica o nella storia familiare la causa importante dell’obesità. Seguiva l’effetto metabolico con il 47% e i disturbi endocrini con il 25%.  I fattori comportamentali individuali erano tra quelli più comunemente riportati come cause dell’obesità. Nella quasi totalità era citata l’insufficiente attività fisica con il 99%, il consumo eccessivo del cibo sempre con il 99%, i pasti al ristorante o ai fast-food con il 95%, il consumo di bevande zuccherate con il 94% e la mancanza di forza di volontà con lo 89%.
Inoltre, i PCP che avevano completato la scuola di medicina dopo il 1991 dimostravano maggiore probabilità, rispetto ai laureati degli anni precedenti, di citare come causa dell’obesità il ristorante / fast food con il 99 % vs il 90% e p < .01, la mancanza di una buona informazione sulle abitudini alimentari con lo 80% vs il 69% e P = .03 e lo scarso accesso agli alimenti salutari con il 64% vs il 52% e p = 0,03. Ancora, anche se quasi tutti i medici nel 90% riferivano di sentirsi abbastanza competenti a dare consigli dietetici ai pazienti e sull’esercizio fisico nel 92%, nel 44%, meno della metà, pensavano di raggiungere il successo nella cura. In effetti, i PCP laureati dopo il 1991 con il 49% si mostravano più propensi a riferire il successo vs il 36% e P = .02.
In conclusione, secondo gli Autori i loro risultati indicavano un bisogno percepito di migliorare la formazione medica nei riguardi della cura dell'obesità.
In fine, Michael E. Bodner della Trinity Western University, Canada e collaboratori hanno voluto valutare l'accuratezza e la congruenza delle discussioni peso-correlate tra i pazienti e i medici durante incontri audio –registrati tra 40 medici e 461 loro pazienti in sovrappeso / obesi (J Am Board Fam Med. 2014;27(1):70-77). Gli Autori hanno, così, codificato il contenuto delle interviste subito dopo la visita e valutato l’accuratezza con modelli lineari misti, generalizzati.
Complessivamente l'accuratezza era moderata, corrispondendo al 67% dei pazienti e al 70% dei medici, mentre la congruenza era del 62%. L’analisi degli incontri con contenuti legati al peso dimostrava alta accuratezza del 98% per i pazienti e del 97% per i medici, mentre la congruenza era del 95%. Quando il peso, però, non era discusso i pazienti e i medici erano più imprecisi con il 36% e il 44% rispettivamente ed erano anche incongruenti con il 28%. Peraltro, i medici, che non erano a proprio agio nel parlare di peso, mostravano maggiori probabilità di riferire male che il peso era stato discusso (odds ratio = 4.5, intervallo di confidenza 95%: 1,88-10,75). Di poi, con i pazienti afro-americani, più che con quelli di razza bianca, i medici bianchi erano più propensi a riportare accuratamente che non vi era stata alcuna discussione sul peso (odds ratio = 0.30; intervallo di confidenza 95%: 0,13-0,69).
In conclusione, le discussioni peso-correlate tra medico e paziente erano molto precise e congruenti quando le audio - registrazioni indicavano il peso, ma non quando non lo specificavano, costituendo tale dato di fatto un’occasione mancata per il giusto e appropriato intervento sanitario. In definitiva, infatti, quando il peso era discusso dai medici, i pazienti erano consapevoli di queste discussioni, compresi i dettagli del messaggio, come il peso, la nutrizione, l’attività fisica. In effetti, i medici che discutevano del peso con i loro pazienti potevano seguirli e garantirsi che i messaggi di salute fossero ben ricevuti e compresi. Le discussioni sul peso potevano, d fatto, agire come un effetto priming per il cambiamento del comportamento così che la raccomandazione nel follow -up o nel rinvio poteva influenzare positivamente il tentativo di perdere peso.
Bisogna notare a tale riguardo che il disagio a discutere del peso rappresentava una delle principali barriere segnalate dai medici e sostanziando la necessità di una formazione più puntuale e circostanziata sull’argomento.