Il corpo negato. Considerazioni generali sull’anoressia nervosa.
Sandro Manfroni
Specialista in Neurologia.
Dirigente Neurologo – Unità Operativa Complessa di Neuropsicologia,
Ospedale San Giovanni Battista, Ordine di Malta, Roma.
Docente di Psichiatria – Università di Roma “Tor Vergata”.
Parte prima:
fenomenologia, società e famiglia
Introduzione
Maria Teresa è morta. Appena tre settimane prima mi aveva consultato perché certificassi il suo stato e avviassi le procedure per la sua sospensione dal lavoro. Aveva 43 anni, pesava 28 kg. con gli abiti indosso, ed era ridotta allo stremo. Dopo oltre due decenni di consunzione ella si trascinava senza forze e chiedeva solo che cessasse la dolorosa pantomima della sua partecipazione alla vita sociale: ormai simile a una larva, o a un fantasma, ella si aggirava nei corridoi del suo ufficio, e destava disagio e imbarazzo nei colleghi, che si ritiravano di fronte al pallido simulacro di un’esistenza che non conservava quasi più nulla di umano. Si era opposta con decisione alla proposta dell’ennesimo ricovero, perché il pensiero dell’alimentazione forzata e del surplus di calorie che sarebbero state introdotte a forza nel suo organismo la atterriva. Era anche preoccupata che la mia relazione clinica non fosse sufficiente ad assicurarle il pensionamento anticipato per invalidità. Aveva capito che era necessario congedarsi dal mondo del lavoro. Il suo congedo è stato invece dalla vita.
Il corpo emaciato, gli occhi grandi dentro le orbite vuote, il volto scavato, gli esili stecchetti delle braccia e delle gambe, le dita sottili come fili di un rosario, i cui grani erano le nodosità articolari: questa immagine spettrale ci interroga con la sua assurdità. Quale malattia ha prosciugato quel corpo giovane, un tempo bello e fiorente? Quale demone crudele si è impossessato di questa donna, ha asservito e mortificato il suo corpo, l’ha esclusa dalla vita e dalle sue promesse? Quel corpo esangue sembrava mosso da un’energia misteriosa, che non si sa da dove potesse attingere la propria sostanza; i movimenti, ora lenti ed esitanti ora concitati e a scatti, trascorrevano su quelle membra irreali, dopo fasi di spossatezza e di languore, dalle quali ella ogni volta ella emergeva come istupidita, mossa da una volontà spietata. Il suo rincorrere vano e insensato chissà quali traguardi - mete comunque remote e astratte, che nulla hanno a che fare con la vita, con la femminilità, con la condizione umana e naturale - reclama una spiegazione, esige una indagine che ci possa rendere vicina e comprensibile questa come tante altre sventurate che condividono la sua condizione.
Come è possibile che la mente di questa giovane, simile a un tiranno spietato, sferzasse senza posa quel povero corpo, quei brandelli di pelle incollati a un mucchietto di ossa, le infliggesse tormentosi sensi di colpa per ogni scarno boccone ingerito e la pungolasse a muoversi, correre, esercitarsi in palestra, per espellere ogni grammo di sostanza e bruciare ogni caloria, quando penoso le era persino l’alzarsi al mattino dal letto dopo un sonno simile a un letargo? Quale tremenda scissione si è prodotta tra mente e corpo, tra volontà e istinto, tra spirito e natura? Quale perversione esclude dalla vita questa ragazza, come tante altre giovani che spesso si distinguono per intelligenza, impegno e solerzia? Perché queste impenitenti affamatrici di se stesse si infliggono le torture più crudeli?
Con l’immagine di Maria Teresa davanti agli occhi ho cercato di documentarmi, di esplorare una parte della letteratura sul tema, mi sono sforzato di riandare colla mente ad altre, invero poche, pazienti che ho avuto in cura nel passato e di cui, dopo poche sedute ho perso le tracce. Ho provato a fare ricorso alle mie conoscenze e alla mia esperienza, maturata in tanti anni di professione e ho tentato di stendere queste note.
Dopo una breve descrizione della fenomenologia della giovane anoressica, con le caratteristiche somatiche e i tratti psichici che caratterizzano queste particolari adolescenti, ho cercato di cogliere la forza e il senso di quella idea dominante del cibo che le ossessiona e le attanaglia. Per queste giovani il cibo rappresenta qualcosa di proibito, che viene colpevolmente desiderato e poi rifiutato, o espulso violentemente col vomito. Il cibo diventa come una droga, che suscita i medesimi appetiti e provoca una condotta analoga a quella del tossicomane.
Poi la paura di crescere, il rifiuto di andare incontro alle metamorfosi inquietanti dell’adolescenza, determina una negazione radicale del corpo, dei ritmi naturali e della femminilità. Esse agiscono la pretesa di realizzare un corpo sottile ed efficiente, una sorta di fantasma androgino, sempre pronto ad assecondare gli imperativi della volontà. Arrestare la crescita significa anche restare eternamente bambini, nella dimensione protetta del nido familiare, che il sintomo contribuisce a cementare e a perpetuare.
Il diniego del corpo esaspera la volontà-coscienza di segno maschile, e alimenta fantasie di onnipotenza. Il pericolo dell’inanizione viene pertanto negato ed esse, per così dire, sfidano la legge di gravità, hanno in spregio le più basilari esigenze fisiologiche e si spingono fino ai limiti delle possibilità umane.
Ho poi cercato di collocare tale patologia nel contesto dei valori sociali dominanti nella nostra cultura occidentale, per scorgervi un incoraggiamento in tale direzione da parte della società contemporanea con i suoi modelli e i suoi falsi miti, come sembra dimostrare il preoccupante incremento di tale patologia negli ultimi decenni, soprattutto nelle zone di maggior benessere e di più elevato consumismo.
Quindi ho cercato di cogliere le dinamiche intrafamiliari che possono contribuire a produrre il sintomo e, da ultimo, ho tentato, secondo la prospettiva della psicologia analitica, di abbozzare le linee di una possibile psicodinamica.
Questo mio sforzo non ha la pretesa di esaurire un tema così vasto e dalle infinite sfaccettature, né pretende di ricondurre a parametri univoci l’infinita variabilità e la unicità dei singoli casi, le cui motivazioni affondano nel mistero del destino personale. Vuole solo essere il tentativo di un professionista, commosso e partecipe di una vicenda umana che lo ha toccato, di esprimere il suo punto di vista, pur senza possedere una competenza specifica sulla patologia in oggetto. E’ un punto di vista soggettivo e personale, che ha cercato conferme e spunti di riflessione nelle esperienze di altri operatori che si sono dedicati allo studio e alla cura di questa malattia con serietà e competenza.
Note fenomenologiche sulla ragazza anoressica
Inizierei con un breve richiamo alla fenomenologia della ragazza anoressica, al suo aspetto e al suo comportamento, così come essa si presenta e si offre all’osservazione immediata.
In breve, l’osservazione della ragazza anoressica ci permette di rilevare quanto segue. Ella consuma il più lentamente possibile i suoi modesti spuntini e interrompe i pasti appena avverte un leggero gonfiore del ventre. Il pasto costituisce un rito, un rigido cerimoniale che assicura un controllo minuzioso dei gesti compiuti e dei bocconi ingeriti: i pasti vengono sempre consumati allo stesso orario, possibilmente in solitudine, e finanche la disposizione delle posate e dei piatti obbedisce a un rigido rituale. La giovane anoressica è solita assumere tra uno spuntino e l’altro bevande calde, che calmano un po’ la fame. Ella sviluppa di solito quella che viene chiamata una “alimentazione vicaria”, cioè desidera vedere mangiare gli altri e prepara ella stessa con cura e solerzia i cibi per i componenti della sua famiglia, preoccupandosi che essi mangino volentieri e a sazietà: è questa una soddisfazione indiretta, che le procura un grande sollievo. Subito dopo i pasti ella intraprende una intensa attività fisica, per smaltire le calorie introdotte. Adotta spesso condotte eliminatorie: vomito autoindotto, uso di lassativi e diuretici. La anoressica diventa capace di procurarsi il vomito con estrema facilità, in modo che tale modalità finisce per diventare quasi una normale via di eliminazione del cibo.
Si configura una perversione, un’inversione della direzione di progressione del cibo, che non deve scendere verso il basso, verso la terra, tramutarsi in peso, ma deve salire verso l’alto, verso la testa e deve essere espulso con violenza. Lo stomaco deve essere vuoto, l’intestino un tubo esile e sgombro. Le escrezioni naturali sono qualcosa di immondo che suscita repulsione e imbarazzo; le parti basse del corpo vengono disprezzate; il sangue mestruale fa orrore e, nel migliore dei casi, è solo un inutile fastidio. Solo il polo superiore del canale alimentare viene considerato e valorizzato: la bocca è il tramite di apprensione vorace del cibo e il mezzo della sua violenta espulsione. L’estremità superiore del corpo è nobile e l’identificazione corporea si attua solo con la testa, sede del pensiero.
La giovane anoressica esercita un controllo spietato sulle proprie forme e sul proprio corpo; ella si tocca frequentemente per sentire le ossa: ciò la rassicura fortemente. Per evitare critiche tende a nascondere il proprio corpo, usa vestiti larghi, si camuffa dentro veri e propri sacchi. Ella cerca di ridurre al minimo i contatti sociali ed attribuisce i suoi successi scolastici o lavorativi alla sua magrezza: la sua autostima poggia esclusivamente sul suo aspetto magro e sottile. L’emaciamento procura alla giovane una sorta di voluttà e di ebbrezza. L’acutezza intellettuale sembra il correlato di un corpo magro, essenziale, asciutto. Il corpo è ridotto a nervi e ossa, unicamente all’impalcatura rigida e levigata dello scheletro e ai fili tesi dei nervi, corde che vibrano a produrre una melodia sobria e astratta.
Possiamo quindi dire che l’anoressia ha una connotazione “egosintonica”, cioè viene vissuta positivamente dalla ragazza; mentre la opposta condizione della bulimia, sia che essa rappresenti la crisi e il cedimento momentaneo dell’anoressica o costituisca una condizione stabile, ha un segno “egodistonico”, viene cioè vissuta come sconfitta e crea un profondo disagio nella paziente.
Insomma, almeno nelle prime fasi della malattia, la ragazza anoressica è una studentessa modello, si prende cura degli altri, si alza presto al mattino, svolge intensa attività fisica, non è mai stanca. Il suo elevato rendimento e la sua impeccabilità vengono attribuiti al suo aspetto magro ed essenziale, e la figura eterea e stilizzata, costituisce un modello identificativo di enorme significato e fonte di una intima profonda soddisfazione. Il corpo controllato e negato sembra spingere la ragazza ad altezze spirituali e ideali che le procurano una vertiginosa felicità. Il rinnegamento della pesantezza del corpo e della terra la rendono “cittadina del cielo” e “abitante del mondo dello spirito”.
Una descrizione ante litteram di una giovane anoressica è contenuta nel capolavoro di Goethe “Le affinità elettive”. Molto prima che tale quadro sintomatologico venisse descritto dagli psicologi, la penna di un grande scrittore ci ha fornito una mirabile descrizione della tipologia e dei sintomi dell’anoressica e ci ha fatto comprendere l’essenza, lo stile, la fisionomia peculiare di tale forma di esistenza.
Ottilia, il personaggio del romanzo, è una figura silenziosa, quasi diafana e trasparente, incapace di entrare nella vita, poiché l’ingresso nella vita è mediato dal corpo, con il suo peso, i suoi bisogni, le sue emozioni. Ella è una creatura docile, efficiente, capace di accorgersi di tutto e intenta a provvedere a ogni cosa. Solerte, sollecita, ella previene ogni richiesta e si preoccupa che tutto sia ordinato e la vita della casa sia gradevole, piana e scorrevole. Ella non manifesta desideri propri, possiede una sorta di tranquilla indolenza per quel che concerne se stessa; è capace di annullarsi, di tacitare i suoi bisogni, di cui sembra ignara, per assecondare le preferenze dei suoi ospiti, delle quali è sensibile interprete. “Metodica e sistematica […] la sua tranquilla attenzione restava sempre eguale a se stessa , come la sua attività moderata […] Ottilia si sedeva, si alzava, andava, veniva, prendeva, portava e poi sedeva di nuovo senza un’ombra di inquietudine: era un eterno cambiamento, un eterno piacevole movimento”. Non esistendo come persona reale ma solo come parvenza e come tenue immagine, ella ha un potere di attrazione irresistibile, esercita una sorta di fascino pericoloso e mortale perché l’altro vi trova solo il riflesso di se stesso. Il giovane Edoardo infatti, sposo apparentemente felice di Carlotta, zia di Ottilia, viene attirato da lei in modo assoluto e necessario, con la forza incoercibile di un “legame chimico”; egli viene assorbito da lei al punto che solo in lei si riconosce e solo per lei egli esiste. Questa condizione rappresenta la morte dell’individuo: come Narciso si confonde con la sua immagine, manca l’incontro con l’altro e si perde.
Ottilia è un “frutto rinchiuso”; ella, come scrive P. Citati nella sua bella prefazione al libro, “vive nell’inconscio, nelle profondissime tenebre dell’anima, lontana dalla luce, fasciata dal silenzio della propria intimità; e talora sprofonda in una condizione di atonia sonnambulica, di letargo quasi mortale, nel quale non può muoversi. Il “frutto chiuso” non sa, oppure non vuole portare alla luce tutti i tesori nascosti che giacciono dentro di lui. Ottilia possiede delle possibilità, che non sono divenute delle capacità: forse questo è un limite; ma potrebbe essere anche un pregio, perché il regno infantile e avventuroso della possibilità è molto più ricco del regno adulto della capacità” (P. Citati 1978).
Ella è fredda, scostante nella sua solerzia passiva e meccanica; non conosce sussulti o turbamenti, è sempre quieta e tranquilla. E’ una creatura intangibile, che non si lascia neppure sfiorare e tiene a distanza l’altro con un suo gesto peculiare di evitamento, assai ben descritto da Goethe, che consiste nel congiungere le mani, sollevare e poi estendere le braccia, come per difendersi e proteggersi da un contatto fisico: Ottilia ha infatti orrore dell’intimità e del contatto corporeo, quasi fosse ella un oggetto fragile e prezioso, di vetro finissimo, che appena un soffio può incrinare. E’ insomma una creatura di sogno, immateriale e senza volume, simile alle figure di angelo dell’affresco riprodotto dall’architetto sulle pareti della cappella annessa alla splendida villa ove la fanciulla viene ospitata. E quando la sventurata muore viene venerata come una santa, una creatura di un altro mondo. Il suo tentativo di entrare nella vita reale, accettando l’amore di Edoardo, sancisce ineluttabilmente la sua fine. L’abbraccio e il bacio di Edoardo le fanno dimenticare per un attimo la cura verso il piccolo che le è stato affidato. Per la prima e unica volta ella dimentica il tempo e l’ora e, per affrettarsi verso casa, sale sulla barca, perde il remo, si sbilancia e causa la caduta in acqua e la morte del piccino. Si lascerà poi morire di inedia sopraffatta dalla colpa. Ella dunque può esistere solo nella negazione di sé e nella sua inconsistenza corporea. Nel momento in cui il corpo si manifesta e rivendica i suoi diritti, l’anoressica muore.
Indagini recenti stimano un’incidenza intorno allo 0,5 % per le anoressie e del 2% per le forme bulimiche, nelle aree a maggior sviluppo economico. Il sesso femminile dà il contributo nettamente preponderante, raggiungendo il 90-95% dei casi. La tendenza è quella di un incremento progressivo del numero di nuovi casi, tra i quali sembra aumentare la percentuale del contingente maschile.
Sono noti i criteri che devono essere soddisfatti secondo il DSM IV perché si possa parlare di anoressia mentale. Li richiamiamo brevemente: a) magrezza estrema, con rifiuto di mantenere il peso corporeo al di sopra di una soglia minima di peso ritenuta normale ( il peso del soggetto deve essere al di sotto dell’85% del peso previsto in base all’età e all’altezza); b) forte paura di ingrassare anche in presenza di un evidente sottopeso, per cui anche un aumento di pochi etti provoca angoscia; c) una preoccupazione estrema, ossessiva, per il peso e l’aspetto fisico, con un’importanza eccessiva data dal peso nei riguardi della propria autostima, e il rifiuto di ammettere la gravità delle proprie condizioni fisiologiche; d) una amenorrea che dati da almeno tre mesi; e) condotta tesa a nascondere la malattia, con bugie e tentativi di sottrarsi alla relazione.
Lo stesso manuale DSM IV distingue poi due sottotipi di malattia, a seconda che siano o meno presenti condotte eliminatorie.
Si parla perciò di “anoressia di tipo restrittivo” quando la paziente raggiunge il suo ideale di magrezza eliminando dalla dieta un sempre maggior numero di alimenti, saltando i pasti, incrementando sempre di più l’attività fisica.
Il secondo tipo è invece quello definito “anoressia con abbuffate e condotte eliminatorie”, nel quale, a periodi di digiuno prolungato fanno seguito abbuffate che inducono forti sensi di colpa e spingono la paziente a procurarsi il vomito o a far uso di lassativi e diuretici, per espellere violentemente e rapidamente un ingombro dal quale ella si sente appesantita e contaminata.
Il cibo come droga: tra appetizione e rifiuto
La vita della paziente affetta da disturbi della condotta alimentare presenta singolari analogie e punti di contatto con quella del tossicodipendente.
Conosciamo l’esistenza drammatica del tossicodipendente, centrata sulla ricerca compulsiva della droga e ritmata dai periodi assunzione e di astinenza, nel contesto di un ambiente familiare che finisce per connotarsi di sospetti, promesse, ricatti, minacce, imposizioni di cure e di percorsi terapeutici il più delle volte rifiutati o passivamente subiti.
Come la droga costituisce il movente unico dell’esistenza del tossicodipendente, allo stesso modo il mondo dell’anoressica e della bulimica è dominato dal cibo, nella modalità del rifiuto o in quella opposta della voracità compulsiva. L’intera esistenza di queste giovani ruota intorno all’idea dominante del cibo, e i rituali connessi all’alimentazione occupano gran parte del loro tempo e dissipano le loro energie.
Il controllo del proprio peso corporeo e della forma del corpo; l’ossessione di ingrassare; i sensi di colpa e le condotte autopunitive per minime trasgressioni alimentari; le strategie di diniego e di occultamento; le inutili promesse di por fine a un comportamento, al quale aderisce per intero la personalità del soggetto; le vane imposizioni e le minacce di trattamenti sanitari coatti: questo è l’inferno nel quale sono gettati la giovane anoressica e la sua famiglia.
Sull’altro versante la ricerca ossessiva del cibo da parte del bulimico; il suo ingurgitare senza distinzione, e spesso senza preferenza, gli alimenti più disparati pur di riempirsi il ventre in modo smodato e coatto; gli espedienti per saccheggiare la dispensa; le strategie adottate per eludere la sorveglianza dei familiari, che giungono a chiudere a chiave il frigorifero, a presidiare la cucina e a frugare nei luoghi più impensati, per scovare i nascondigli di dolciumi, scatolette di tonno, sottaceti, marmellate e conserve; le orge e abbuffate solitarie e colpevoli: questa è l’esistenza del bulimico, ridotta alla dimensione del ventre pieno, subito e ad ogni costo. La ricerca di bar e rosticcerie aperti fino a tarda ora, la capacità di individuare luoghi solitari ove potersi stordire con voluttà di cibi ingurgitati voracemente e poter poi vomitare in modo sempre più facile e automatico: sono queste condotte comuni, che rendono l’esistenza del bulimico drammaticamente simile a quella del drogato.
Sono numerosi i diari e le testimonianze di giovani vittime di questa patologia. Basti pensare ai libri di F. De Clercq (1990) e a quello di A. Arachi (1994).
La prima, dopo un doloroso percorso analitico, è riuscita a superare la sua condizione e si è posta al servizio di giovani affette dalla sua stessa patologia fondando l’ABA, Associazione per lo studio e la ricerca sull’anoressia, la bulimia e i disordini alimentari. Le pagine della sua “cronaca di una vita tra anoressia e bulimia”, come recita il sottotitolo del suo libro “Tutto il pane del mondo”, sono impressionanti e costituiscono un documento di una sofferenza insensata, protrattasi per oltre quindici anni, sostenuta da dinamiche perverse che avevano scelto il corpo come luogo del loro manifestarsi e costituivano una sorta di espiazione per la “colpa” di non essere stata amata.
Il pensiero del cibo dominava per intero la sua vita, e la ricerca di qualcosa da ingurgitare costituiva la ragione stessa della sua esistenza e scandiva le sue giornate. “Credo che la ricerca del cibo dell’anoressico dia lo stesso tipo di esaltazione che prova un tossicodipendente, che si dedica alla ricerca della droga, spesso rubando, affrontando mille rischi ed incertezze che diventano un impegno continuo, impegno che riempie i loro vuoti interni e li protegge dalla vita adulta e consapevole che temono” (De Clercq, 1990).
Le solitarie e colpevoli abbuffate, e poi gli umilianti rituali del vomito, avevano ridotto la paziente a un’esistenza clandestina. L’attività più naturale e primaria, quella dell’alimentarsi, era diventata per lei solo una colpevole trasgressione, compiuta con la voluttà e il ribrezzo che suscitano gli atti vergognosi e solitari: “ingoio tutto velocemente, non sento già più i sapori, intravedo a malapena quello che furtivamente sto ingoiando. Con una mano mi porto alla bocca del cibo, con l’altra ne cerco dell’altro, così, alla cieca. E lo cucino anche, ma ormai è solo la quantità che conta, devo stipare quanto più cibo il mio stomaco riesca a contenere. Deve essere quella precisa quantità, altrimenti non riesco a vomitare” (De Clercq,1990).
La appetizione del cibo è coatta e compulsiva, è percepita come forza attrattiva alla quale è impossibile opporre resistenza: “L’impulso è impossibile da frenare, devo a qualsiasi costo avere tutto quello che mi serve subito […] l’abbondanza di cibo mi rende pazza dalla rabbia per la tentazione continua che rappresenta” (De Clercq,1990).
A. Arachi, scrittrice e giornalista, con disarmante onestà ed esasperata lucidità ci propone uno spaccato della sua propria giovinezza, allorché ella si trovò serrata nella disperante ripetitività di comportamenti coatti dettati da una perversione degli istinti e da una alienazione dal corpo proprio, che in definitiva costituiscono l’essenza dell’anoressia.
Le crisi di bulimia della protagonista erano continue: ella mangiava di tutto, si alzava la notte e consumava indifferentemente quello che trovava in frigorifero: ingurgitava senza distinzione scatole di pomodori pelati, pesche sciroppate, sottaceti, persino cibi surgelati. Seguiva poi l’immancabile rito del vomito. Con voluttà ella riempiva lo stomaco fino al limite, pregustando la successiva fuoriuscita forzata degli alimenti attraverso la bocca. Consumava di nascosto le sue orge alimentari: “dai pacchetti di cibo strappavo via la carta ora con rabbia violenta, ora con la lentezza di un amante che, pur impaziente, si gode goccia a goccia gli attimi che lo separano dall’oggetto dei suoi desideri. Ero contenta con la bocca piena. E la pancia vuota. Il mio stomaco aveva imparato a riempirsi e a svuotarsi con la stessa facilità, soprattutto con l’aiuto dei liquidi che diluivano il cibo e facilitavano l’uscita del vomito” (A. Arachi 1994).
Il cibo è una droga, è presente in modo ossessivo e viene appetito in modo furioso e vorace. Le orge e le abbuffate clandestine sono un cedimento, il colpevole e voluttuoso stordimento di chi si abbandona a un segreto e inconfessabile piacere. L’appetizione del cibo rappresenta quasi il godimento estremo di chi affoga nei vortici inebrianti di un piacere che confina con la suprema voluttà della morte. Poi, quando l’abietta e sconcia voluttà ha sopraffatto l’individuo, nel momento preciso in cui egli è perduto, scatta in extremis il ripristino del controllo, e si celebra il trionfo dell’io-volontà, l’apoteosi dello spirito che risorge dagli inferi di annichilimento e turpitudine dei bassi istinti terrestri. Per questo è necessario uno sforzo estremo in direzione contraria: tutto ciò che era stato ingurgitato, spinto in basso verso il corpo e la terra, tutto ciò che potrebbe tramutarsi in peso e ingombro, deve invertire la direzione ed essere espulso, lanciato via, ripudiato e rigettato. Il vomito autoindotto causa un piacere ulteriore, di segno opposto, produce quasi un nuovo orgasmo: quello della volontà che si oppone e vince sul corpo avvilito, zavorrato di peso, di grasso immondo. Tutto ciò provoca un piacere solitario, una masturbazione infinita, nel suo ritmo di andata e ritorno, in cui si sperimenta dapprima l’eccesso di voracità e di bassi appetiti e poi il senso inebriante di una vittoria della pura volontà sul peso della terra. E’ un vizio, una perversione, un peccato grave dal quale è difficile essere perdonati. Il corpo è svilito, diventa lo strumento passivo di un andirivieni di spinte e controspinte, un luogo ove transitano dinamismi perversi ed osceni, ove scorrono correnti lussuriose e conati di disumana tensione che lo vedono straziato, calpestato, offeso.
La stessa inanizione determina una sorta di voluttà, un piacere segreto che viene ricercato e diventa come una droga, di cui non si riesce a fare a meno. Lo stomaco vuoto, l’intestino sgombro, quella sensazione di essere cavo, pulito, essenziale, tutti i sensi acuiti, tesi allo spasimo, producono un’estasi di felicità. Le anoressiche non avvertono la stanchezza, non dormono, non percepiscono il dolore. Tale stato produce una sorta di intossicazione ebbra, ha l’effetto di una droga: “è come se ci si avvelenasse poco per volta, come se si fosse perpetuamente sotto l’influsso di qualche cosa come l’alcol o la droga” questa è la testimonianza di Fanny, una paziente di E. Bruch (1978). E poi ancora: “sapevo soltanto se era giorno o notte … si è in uno stato di perpetuo intontimento … non ci si sente veramente presenti … sono arrivata al punto in cui dubitavo delle persone che avevo intorno, non ero sicura che esistessero veramente”. E Gertrude, una ragazza descritta dalla Bruch: affamarsi ha lo stesso effetto di una droga e ti senti fuori del tuo corpo .. puoi tollerare il dolore senza reagire”. Molti dei sintomi più allarmanti – scissione dell’io, spersonalizzazione, distorsione della percezione corporea – sono direttamente legati alla inanizione stessa (Bruch, 1978).
L’esercizio di un dominio così assoluto e spietato sul proprio corpo conferisce alla paziente, insieme a un sentimento di leggerezza ed efficienza, una fierezza che sconfina con un sentimento di superiorità e di onnipotenza. Ma tale dominio, ottenuto in modo indebito, si accompagna sempre al terrore di riprendere il peso perduto, di rientrare nel novero dei comuni mortali e con ciò di confrontarsi col mondo e con gli altri su un terreno onesto, in base ai propri meriti effettivi e alle proprie capacità. La paziente si pone infatti col suo sintomo al di fuori e al di sopra delle comuni relazioni interpersonali, in una sfera “altra”, remota e irraggiungibile. E’ un guadagno illecito quello ottenuto col sintomo: ella, con la sua falsa perfezione, esce dal confronto, si sottrae all’agone della vita e nel contempo limita le richieste dell’ambiente all’obbiettivo minimo di preservarsi in salute e di nutrirsi. Per questo ogni etto di peso guadagnato costituisce una perdita irreparabile per la paziente; di qui il controllo ossessivo delle sue forme e del suo peso che devono restare ben al di sotto del livello di guardia della normalità.
La negazione del corpo
L’anoressica soffre di una particolare forma di distorsione dell’immagine corporea, dovuta a una “dissociazione” fra corpo e mente. Nonostante l’evidenza di un aspetto emaciato e scheletrico, ella si percepisce come normale e la sottigliezza delle sue forme corrisponde a un idea di efficienza, di prontezza, di acume intellettuale, di intensa e sublime spiritualità.
E’ noto come per schema corporeo si intenda l’immagine interna tridimensionale del nostro corpo nello spazio, derivante dall’integrazione di numerose afferenze visive, tattili, propriocettive e vestibolari. Però, come ci viene attestato da numerose patologie neurologiche e psichiche, la validità di tale concetto risulta dubbia. Tale costrutto teorico si mostra incompleto ed astratto: nulla ci autorizza ad ammettere un modello interno che sia una replica fedele della struttura anatomica del nostro corpo, costruita dalla nostra coscienza a partire dai dati sensitivo-sensoriali, propriocettivi e visuo-vestibolari. Già nelle malattie neurologiche esiste uno scarto, una contraddizione sorprendente tra l’evidenza sensoriale e la percezione del sé corporeo. E’ noto come il fenomeno dell’arto fantasma smentisca il dato oggettivo dell’assenza di un arto e quello dell’emisomatoagnosia porti all’opposto a negare l’esistenza e l’appartenenza a sé di un arto non più percepito come proprio. In un caso viene sentito e predicato presente e attivo un arto che non c’è più, nel secondo caso viene negato un arto presente.
L’indagine fenomenologia aveva già sostituito all’ambiguo concetto di immagine corporea, quello di “presenza” di un essere impegnato e “votato al mondo”. Il mondo è il corrispettivo della mia corporeità e si delinea in ordine a questa; allo stesso modo il mio corpo mi viene annunciato dalla mia attività nel mondo e nel commercio con le cose, cosicché io conosco il mio corpo solo come corpo in azione e in relazione col mondo, come corpo “in situazione”.
Il mondo chiama ed interpella ancora la mano dell’amputato, esso si offre ancora come maneggevole e a disposizione (Merleau-Ponty 1945): la mano esiste ancora in riferimento alle possibilità alla quale è chiamata; per questo chi soffre di arto fantasma sente ancora la sua mano e la percepisce in azione, nonostante la sua assenza oggettiva.
La eminegligenza spaziale, come è noto, si correla sovente all’emisomatoagnosia; ne deriva che, essendo negletto l’emispazio, anche la mano corrispondente viene predicata come non esistente. L’evidenza sensoriale della sua indubbia presenza conduce alle affermazioni più assurde, quali quella che l’arto in questione appartenga a qualcun altro o che sia un’appendice posticcia, finta, comunque non appartenente assolutamente al soggetto. Esiste quindi uno scarto tra l’evidenza oggettiva e il sentimento di appartenenza al sé corporeo; e in tale dissidio la preminenza assoluta va all’esperienza soggettiva.
Nell’ambito della patologia di cui qui trattiamo risulta evidente come alla formazione dell’immagine corporea concorrono e assumono un rilievo preponderante fattori emozionali e relazionali: è decisivo come il corpo venga fantasticato e vissuto, e sono importanti anche elementi sociali, fattori legati all’ambiente, al gruppo e alla moda, attraverso processi di imitazione, di identificazione e di proiezione. E’ più importante come io “senta” il mio corpo piuttosto che come questo “obbiettivamente appaia”. Io forzo i dati percettivi oggettivi e li subordino all’idea fantasticata di me, alla quale faccio somigliare il mio corpo e rispetto alla quale mi sento adeguato.
Il grado estremo di inanizione viene perciò misconosciuto e minimizzato dalla paziente, che non percepisce il pericolo per la sua vita. Potremmo dire che lo stato di ebbrezza prodotto dall’inanizione determini una sorta di “complesso di onnipotenza”, per cui la paziente è sicura di controllare con sicurezza le sue condizioni fisiche fino al limite estremo della sopravvivenza, per poi imprimere una correzione opportuna all’ultimo momento. Tale è il dominio esercitato dalla paziente sul suo corpo che ella è assolutamente convinta che questo non possa mai sfuggire al suo controllo, per cui lei si sente sempre in condizione di intervenire in ogni circostanza: per intanto è opportuno mantenere il proprio peso ben al di sotto del limite ritenuto compatibile con lo stato di salute e della cosiddetta normalità. “Normalità” è un concetto che può applicarsi agli altri, ai comuni mortali; ma tali parametri e tali tabelle non valgono certo per una creatura sublime, diversa, aristocratica e speciale quale ella è. Il grasso, il peso, la zavorra non devono inquinare e deformare il bell’aspetto ideale, asciutto ed essenziale di una creatura spirituale, angelica, trasparente. L’esasperazione della volontà rappresenta il corrispettivo del terrore di cedere, di precipitare rovinosamente nella melma della carne, di essere risucchiata dalla volgarità del peso.
A questa esaltazione ideale corrisponde un sentimento intimo di inadeguatezza e di inferiorità. E questa inconsistenza dolorosamente avvertita non ci sorprende: non potrebbe essere altrimenti da parte di chi ha rinnegato il corpo e i suoi processi. Chi ha voluto, o dovuto, per ragioni emozionali profonde soffocare la crescita e le istanze tumultuose del corpo e degli appetiti, chi ha mancato l’identificazione con le sue basi biologiche non può che essere una creatura “sospesa”.
Affinare il corpo fino alla sua mortificazione per ottenere una finezza della mente, una essenzialità, un’assenza di bisogni, costituisce un guadagno illecito e colpevole. Negare il corpo significa negare la vita, cancellare quel flusso di energie, quella corrente di istinti, pulsioni e desideri dai quali tutto germina, anche i prodotti più elevati dello spirito e della cultura. Anche le operazioni formali e quelle del pensiero astratto, che si sviluppano nella adolescenza, hanno le loro premesse nelle operazioni concrete e preconcettuali, che si fondano su una percezione corporea adeguata, come ha ben dimostrato J. Piaget (1937).
Tutto ciò che è equivoco genera una cattiva coscienza e si vive nel terrore di perderlo. La conquista, la crescita, il progresso, si ottengono non a scapito del corpo, ma con il corpo. Non esiste una mente sospesa, uno spirito disincarnato che vive di aria e contempla le idee: tutto ciò è vano, è fumo, è astratto e inconsistente. La testa arriva subito; ma arrivare solo con la testa è approdare a niente. Il corpo è pesante, bisogna trascinarlo; bisogna aspettare che esso arrivi e “si ricongiunga” alla testa. Bisogna venire a patti con la terra e con la legge di gravità. L’inerzia del corpo è sì quella che ci trattiene e ci impedisce i voli troppo alti, ma è quella che assicura le nostre conquiste e dà loro peso. Ha valore e costituisce il nostro più intimo possesso solo ciò che il corpo ha appreso, di cui il corpo si è nutrito, che è diventato corpo. E’ “nostro” solo ciò che abbiamo masticato, fatto a pezzi, scomposto, e poi digerito e assimilato. Sono i fatti che attestano della serietà delle nostre affermazioni e dei nostri principi; è il cammino fatto passo dopo passo sul ritmo del corpo che conferisce spessore alla nostra personalità. Il guadagno, ottenuto per vie brevi, “bypassando” i gradi e le tappe di una faticosa conquista, è illegittimo ed effimero, è frutto di orgoglio smisurato e di insensatezza, è patologico. La rovina di Icaro che senza peso pretendeva di staccarsi dalla terra e di volare troppo in alto attesta tale verità archetipica.
L’anoressica è colei che rifiuta l’adolescenza con i suoi turbamenti e le sue crisi. Ella ha orrore dei misteriosi influssi degli istinti e degli appetiti che vengono a scompaginare il suo ordinato mondo infantile e alterano il suo bel corpo liscio e levigato. La mente si arroga la pretesa di dirigere il corpo e rifiuta di essere influenzata dal corpo stesso, che detta nuovi ritmi e impone nuove regole. L’influsso del corpo con le sue modificazioni ormonali e umorali determina un’evoluzione plastica anche sui processi mentali e imprime un salto alle categorie infantili che avevano sin ad allora dominato incontrastate. Si sfalda il mondo sicuro e protettivo del bambino; nuove spinte lo cacciano fuori dalla casa, mentre il mondo esterno urge con le sue novità, col variopinto e chiassoso intreccio di possibilità e di promesse. Tutto questo processo evolutivo viene scansato dalla anoressica attraverso l’esercizio di un controllo spietato sul corpo, che viene costretto a restare piccolo. Devono essere cancellate le stigmate del cambiamento: via l’adipe che conferisce forme arrotondate e femminili, spianate le colline dei seni, asciugati gli umori e arrestati gli immondi flussi, inaridite le gemme che producono le vergognose efflorescenze dei peli. Resta il levigato corpo infantile e si realizza il fantasma di un corpo androgino, involucro trasparente di una mente cristallina, non intorbidata dai vapori e dai miasmi della materia volgare e del peso inutile.
Fattori socio-culturali
Il problema centrale della nostra epoca e nella nostra cultura occidentale è quello del corpo. Lo sviluppo tecnologico e l’epoca del consumismo ci hanno estraniato dall’esperienza e dal sentimento della nostra corporeità.
Un tempo, quando eravamo bambini, era possibile percepire il corpo, avere un rapporto diretto con le nostre sensazioni. Si giocava, si correva, si sudava, si aveva fame e si aveva sete, si aveva sonno, si percepiva sazietà e stanchezza. Era un flusso di sensazioni e di sentimenti che nascevano dal corpo e venivano avvertiti in modo immediato e ingenuo. Il lavoro manuale dei campi, la fatica, il riposo, la festa, il ballo, i rituali collettivi profondamente sentiti e vivi ci davano un’esperienza di appartenenza a noi stessi e al gruppo.
Ora l’isolamento, la vita sedentaria, i bisogni artificialmente indotti, hanno portato a un progressivo inaridimento e alla perdita della dimensione istintuale e naturale della vita. Oggi non ci identifichiamo più con un corpo che sentiamo come intimamente e irrinunciabilmente “nostro”, che reca le impronte inconfondibili della nostra vita, che è testimone del nostro passato e che ci conferisce la nostra unica e personale fisionomia.
Oggi conduciamo un’esistenza meccanica e ripetitiva e i ritmi della civiltà tecnologica hanno stravolto i ritmi naturali. Incapsulati dentro le nostre automobili, confinati negli spazi angusti del nostro ufficio, costretti in un’attività che sollecita il nostro pensiero senza coinvolgere il nostro corpo, non abbiamo più la percezione e la felicità del movimento, non sentiamo più la forza e l’energia sana delle nostre gambe, che nel ritmo del passo segnano la nostra condizione di uomini.
Scrive L. Irigaray: “un corpo respira, sente, gusta, vede, ode, tocca o è toccato. Questi attributi corporei sono in via di estinzione. La cultura degli uomini ha prodotto tali inquinamenti dell’aria, del cibo, della vista e dell’udito, del tatto, che i nostri sensi stanno distruggendosi. Ma senza la mediazione dei nostri sensi non possiamo né vivere né pensare” (1986).
Oggi non “siamo” più il nostro corpo, piuttosto “abbiamo” un corpo, che deve corrispondere ai modelli convenzionali, uniformarsi ai dettami imposti dalla società. Si ha un corpo come si indossa un vestito o come si possiede un’automobile, che deve essere del modello richiesto e obbediente ai canoni dominanti che stabiliscono le categorie del bello e della moda.
Il nostro corpo deve essere giovane, magro, devono sparire da esso le rughe e i segni del tempo. Le nostre mani non rivelano più la nostra attività, il nostro impegno e intrattenimento con le cose e col mondo.
Da un lato le modelle stilizzate e filiformi, obbligatoriamente sottopeso, dall’altro l’ideale consumistico delle forme da esibire, del corpo oggetto di piacere, di consumo. Il corpo dell’atleta, un tempo esatta proporzione di forma e armonia, espressione di un sentimento felice di forza, di agilità, di benessere, di equilibrio, è ormai diventato un corpo alieno, mostruoso, per le sollecitazioni abnormi, l’iperallenamento, le sostanze dopanti, che esasperano oltre il limite le naturali risorse dell’organismo.
La “realtà virtuale” nella quale ci introduce l’informatica; la simulazione di esperienze concrete sul video di un computer; i rapporti telematici che escludono completamente il contatto fisico e consentono la fruizione di messaggi e lo scambio di informazioni in un rapporto astratto e fittizio, perché basato su codici che escludono l’emozione, lo sguardo, il respiro, il corpo: tutto questo contribuisce a determinare una progressiva alienazione dalla dimensione naturale della vita. Lo stare insieme, la condivisione, l’alleanza, il dialogo, la simpatia, come l’avversione, la lotta, l’impegno, la soddisfazione, implicano il corpo, sono esperienze e stati del corpo vivo e in situazione. Le tradizioni, la cultura, la moda sono un modo di celebrare il corpo. Il cibo pertanto possiede una dimensione culturale. Pensiamo al convivio, alle cene di lavoro, al desco familiare. Ogni celebrazione è espressa e mediata dal cibo: le feste, i matrimoni, le nascite, i battesimi e persino le morti in tante culture vengono celebrate da rituali che prevedono il pranzo con abbondanza e varietà di pietanze. La stessa celebrazione della santa messa nel rito cattolico culmina con l’ingestione del pane e del vino nell’eucarestia.
Allora non sorprende come le condotte abnormi di accanimento contro il corpo proprio, quali si verificano nelle tossicodipendenze e nei disturbi della condotta alimentare, siano le patologie a maggiore incremento nei paesi occidentali e colpiscano la fascia di età adolescenziale. Esse sono state definite patologie “etniche”, a significare l’incidenza di fattori culturali, che quasi impongono il modo del loro manifestarsi e ne prescrivono le categorie sintomatiche. Vandereycken e Van Deth (1995), hanno definito il disturbo della condotta alimentare “sindrome culturale”, in quanto il comportamento sintomatico riflette la dimensione culturale dell’epoca. Questi autori infatti dimostrano come la restrizione alimentare sia una condotta fortemente indotta dai valori sociali dominanti e rifletta lo Zeitgeist dell’epoca. La cultura medievale, con l’esaltazione dell’ideale ascetico, aveva incoraggiato la mortificazione del corpo, luogo di ogni concupiscenza, che distoglieva dalla contemplazione estatica della trascendenza. Le “sante anoressiche” dell’epoca erano una risposta estrema a tali sollecitazioni. Oggi il digiuno non risponde più a quei grandi valori teologici e metafisici, non ha più un significato etico, ma costituisce l’adeguamento a un ideale estetico, in conformità a un’epoca dominata dagli pseudo-valori della magrezza, dell’efficienza e del livellamento delle differenze.
Il disturbo della condotta alimentare rappresenta pertanto una esagerazione, una deformazione di modelli e condotte ai quali si ispira la cultura dominante. Il corteo dei sintomi non rappresenta perciò una emergenza nuova, individuale, ma la modalità della malattia viene in certo qual modo suggerita dal contesto.
E’ facile pensare nel caso dell’anoressia all’influenza che i canoni dominanti della bellezza femminile possono suscitare in giovani in difficoltà per i problemi che l’integrazione di componenti della personalità in fase evolutiva comporta. La identità psicofisica in costruzione è attraversata da conflitti interni, assestamenti, confusione e incertezza riguardo a un futuro vago e indefinito, che si esprime in una alternanza di paura e speranza, di angoscia e di entusiasmo. L’età adolescenziale è un’epoca di profondi rivolgimenti interni e turbamenti, in cui ci si sente estranei a se stessi e al proprio corpo: il “corpo che noi siamo” si trasforma senza il nostro consenso e in modo così tumultuoso che il giovane si trova in preda a strane e nuove sensazioni, con l’oscuro sentimento della morte del proprio Io infantile. In tale età confusa e aperta possono pertanto esercitare un’influenza esagerata le sollecitazioni esterne, spesso recepite in modo acritico, per quella necessità impellente dell’adolescente di attuare comunque il riconoscimento di sé in una immagine, anche se questa è lungi dal corrispondere ai suoi reali bisogni. Sappiamo tutti come nella fase critica dell’adolescenza sia di importanza vitale per il giovane, incerto di sé e senza una fisionomia definita, aderire a un gruppo nel quale egli possa riconoscersi e sviluppare un sentimento di appartenenza. L’adozione di canoni di comportamento condivisi conferisce all’adolescente una stabilità e una sicurezza che, per quanto effimere e transitorie, gli sono necessarie.
Ma come si produce la devianza anoressica, quali sono i fattori personali, ambientali, familiari e sociali che determinano tale perversione dell’istinto, tale negazione del corpo e della vita? E perché sono le giovani donne a pagare il contributo preponderante a questa patologia?
La donna si trova in un conflitto insanabile tra le sue istanze materno-accudenti e quelle imposte dalle richieste pressanti del mondo produttivo. Scrivono M. Antenucci e L. Onnis (2004): “la donna si trova a essere oggetto di aspettative diverse e contraddittorie: da un lato le si chiede di essere competitiva, presente con successo nel mondo del lavoro; dall’altro di essere seducente, disponibile nel ruolo di partner accudente e di genitore primario […] i disturbi anoressico e bulimico, nella loro apparente diversità, divengono portavoce di tale inconciliabilità”. Certo le influenze socio-culturali, quali le esigenze dettate dai ritmi produttivi e dal modello competitivo efficientista, la penalizzazione in tale contesto del femminile e dei valori del sentimento e della corporeità, i suggerimenti pressanti della moda che celebrano la magrezza e la giovinezza come un valore e il requisito del successo, l’età adolescenziale prolungata con il differimento dell’età della responsabilità: tutto questo può certo incoraggiare certe tendenze. Però tali fattori devono agire su un determinato individuo, con peculiari disposizioni favorenti che forniscono un terreno adatto all’attecchimento del sintomo.
La famiglia dell’anoressica
Tra la società e l’individuo c’è comunque la famiglia che rappresenta l’ambiente decisivo, nel bene e nel male, in cui matura e si sviluppa la personalità di ogni giovane. Numerose sono le indagini che hanno cercato di mettere in risalto eventuali caratteristiche comuni nei nuclei familiari delle adolescenti anoressiche, che potessero in qualche modo favorire l’avvio e il perpetuarsi delle dinamiche abnormi capaci di produrre il sintomo.
Si è osservato come spesso la famiglia dell’anoressica costituisca una sorta di entità sovrapersonale primaria, sovradeterminata rispetto ai singoli componenti della stessa. In tale contesto i suoi membri non hanno un valore di per sé, ma lo ricevono solo in rapporto al ruolo che è a loro assegnato all’interno del nucleo. Predominano in questa tipologia di famiglia i valori formali, e le regole valgono più delle esigenze delle persone.
I parametri fondamentali caratterizzanti le famiglie delle anoressiche sono stati enucleati e sintetizzati nei termini che seguono: invischiamento, cioè intrusioni reciproche nella sfera personale da parte dei membri del nucleo, che determina una labilità dei confini dei singoli; iperprotettività, nel senso di una paura del cambiamento, sentito come minaccioso e disgregante per l’unità familiare; evitamento del conflitto, cioè una tendenza a mettere in atto meccanismi di occultamento della conflittualità, in modo che questa rimanga latente, non esploda e non si risolva; rigidità, cioè ripetizione stereotipata di regole, difficoltà ad accettare processi di trasformazione, tutela cristallizzata di un equilibrio che si vuole immutabile (Onnis L., Mulè A.M., Gianbartolomei A. 2004)
Spesso si dà vita a una sorta di epopea mitica e romanzata della storia della famiglia; vengono esaltati gli antenati, i precursori, celebrate le loro gesta, enfatizzati i sacrifici che essi hanno dovuto sopportare per la tutela e la salvaguardia della famiglia. “Ognuno porta con sé il bagaglio costituito dai miti familiari e conserva un lessico della famiglia, un racconto, una trama di eventi che gli appartengono e lo fanno appartenere a quella famiglia. E’ un legame identitario che esclude quanti non ne fanno parte” (Onnis L. 2004). Tale vincolo indubbiamente assicura le radici dell’individuo e ne costituisce la base di crescita. L’origine comune, il lessico condiviso, gli aneddoti e la cronaca dei personaggi attuali e remoti che appartengono al ceppo, conferiscono al soggetto una identità, una fisionomia che lo distinguono dal resto della comunità e gli garantiscono un sentimento di appartenenza che è favorevole al costituirsi della personalità. Se però la famiglia è rigida, chiusa all’esterno; se in essa il mondo di fuori non penetra con le sue novità e la varietà delle sue sollecitazioni; se tutto viene lasciato fuori dalla porta di casa, essendo l’unica incontrovertibile realtà il nucleo monolitico della famiglia con i suoi miti e i suoi riti, mentre ciò che esula da essa è trascurabile o costituisce un pericolo potenziale: allora la crescita individuale di ciascuno viene soffocata. E saranno i figli, che devono crescere, sviluppare le loro potenzialità, aprirsi e confrontarsi col vasto mondo, a pagare il prezzo più elevato in tale ambiente rigido e asfittico. Il perpetuarsi del “totem” familiare esige il tributo di sangue fresco, il sacrificio della vita in boccio. I giovani arbusti carichi di linfa e di promesse devono tramutarsi in colonne inanimate che sorreggano l’edificio morto e solenne della famiglia. Ci sono famiglie all’interno delle quali nulla penetra; esse costituiscono delle “monadi” senza contatti e scambi con l’esterno. Queste sono governate da un ritmo immutabile fatto di abitudini immodificabili, di orari scanditi. In queste case non entrano amici, non si fanno inviti, non si fa tardi qualche volta la sera. E’ vietato severamente mettere piede nel salotto buono; i bambini devono restare confinati nei loro spazi e non invadere “il santuario” della sala da pranzo, eternamente chiusa con un odore stantio di cose morte; non possono entrare nella stanza da letto dei genitori, ruzzolare sul lettone, rincorrersi nei corridoi, fare un salutare baccano, tollerato da genitori benevoli e comprensivi. La famiglia non è una comunità di individui, ciascuno con una propria personalità in sviluppo; non è uno stare insieme provvisorio, non è iscritta nel tempo del divenire, tappa intermedia di futuri sviluppi e ponte di passaggio. Il figlio non viene amorevolmente accompagnato nel suo processo di crescita e rispettato come individuo in formazione. La realtà vera e immutabile sarà sempre la famiglia originaria: il padre, la madre, i nonni, gli zii, restano figure assolute esattamente definite dal loro grado di parentela ed esistenti solo in quanto tali.
Osserva la Bruch (1978) come sovente le famiglie delle anoressiche si presentano come famiglie “perfette”, ricche e di ottima educazione, che elargiscono ogni cura alla figlia. Concerti, musei, scuole migliori, viaggi all’estero. Ma tutte queste buone cose sono state appunto “elargite”, senza essere specificamente adattate ai bisogni e ai desideri della figlia stessa. “Il contributo del bambino stesso al suo sviluppo dovrebbe essere preso in considerazione fin dalla nascita. Al fine della acquisizione di un senso sicuro della propria identità e della capacità di esprimersi efficacemente, è importante che i segnali provenienti dal bambino, nella sfera biologica come anche in quella intellettuale, sociale ed emozionale, vengano correttamente riconosciuti e ricevano risposte appropriate” (Bruch 1978).
La insufficiente relazione empatica della madre col lattante determina una mancanza di conferme e di rafforzamenti di quelle espressioni dei propri bisogni che sono inizialmente indifferenziate nel bambino piccolo. Allora il bambino può rimanere incerto riguardo ai suoi bisogni, che non ricevono una conferma e una validazione dal referente primario, la madre. Ciò conduce a una indeterminatezza e vaghezza tra le varie sensazioni somatiche ed emozionali, che non vengono chiaramente distinte e percepite. Crescendo, la futura anoressica rivela una dipendenza eccessiva nei riguardi della madre e una diligenza estrema a conformarsi ai dettami e alle regole imposte, allo scopo di essere approvata e per ricevere attraverso questa approvazione una conferma del proprio valore. A tali bambine risulta intollerabile la trasgressione, penosa la disobbedienza che considerano un tradimento delle aspettative parentali. Sono bambine buone, docili, remissive, giudiziose: in altre parole esse rifiutano di crescere. La crescita infatti comporta di necessità la trasgressione e il “tradimento”, la rottura delle precedenti relazioni infantili e l’assunzione di responsabilità proprie. Incapaci come sono di affermarsi, di protestare di esprimere i propri bisogni, esse rimangono indebitamente confinate in una posizione infantile e dipendente. In queste bambine è carente il sentimento di sé e del proprio valore intrinseco. Per sopportare le critiche e tollerare la disapprovazione dobbiamo essere ben radicati nel corpo; i nostri diritti scaturiscono dai nostri bisogni avvertiti e fatti nostri. Il valore è infatti tributario del riconoscimento delle proprie sensazioni corporee e del bisogno di esprimere le proprie esigenze fisiche ed emotive. Senza la capacità di selezionare i propri bisogni e di affermarli in base alla loro importanza e al rispetto di sé, la bambina si rivolge a tutto, elargisce il proprio impegno in modo indiscriminato, senza scegliere, senza decidere autonomamente. Ella è diretta solo dalle richieste degli altri che fa immediatamente sue: ciò che vuole lei e quello che richiede l’ambiente fanno un tutt’uno. Ella non sa se vuole realmente una cosa o se la vuole perché gli altri si aspettano che ella la voglia. La Bruch (1978) descrive il caso di una sua paziente che, richiesta dai genitori di esprimere un desiderio circa il regalo per il suo compleanno, cercava di scoprire in anticipo cosa avessero in mente i genitori per lei e poi si adoperava di far loro sapere in modi larvati che era proprio quella la cosa che lei desiderava.
Per certi genitori esiste un modello preordinato, una sorta di calco nel quale si pretende di calare il figlio che ad esso deve conformarsi, a prescindere dalle sue qualità e possibilità reali. E’ questo un errore frequente nei genitori, che genera tanti dissidi e delusioni. Ma appunto a tali pretese il bambino sano si ribella e contrappone le proprie esigenze, e il diritto di non essere la copia fedele delle aspettative dei genitori. La futura anoressica non conosce tale forma di protesta; ella teme che vada in frantumi il bel mondo dorato dell’infanzia, per cui conserva indebitamente il suo ruolo di figlia giudiziosa ed obbediente. In tal modo tiene coesa la famiglia e garantisce ai genitori il loro ruolo. A volte esse percepiscono che i genitori non sono nulla “per loro” e “tra loro” al di fuori del loro ruolo parentale. Se la bambina cresce quale relazione essi possono stabilire tra di loro, quali altre risorse e modalità essi possono mettere in campo per esistere? Ella diventa così il cemento dell’unione familiare e intorno al suo sintomo la famiglia si riunisce e continua ad esistere come tale.
Queste ragazze brave e diligenti ottengono per solito risultati scolastici lusinghieri. Zelanti come sono, infaticabili e scrupolose, esse eseguono i loro compiti scolastici con assiduità e serietà. La scuola rappresenta per loro una fonte di gratificazione, perché i loro sforzi vengono quantificati e ricevono un indice numerico incontrovertibile. Ma in queste ragazze tali eccellenti risultati non si accompagnano alla consapevolezza effettiva del loro valore e al riconoscimento intimo dei loro meriti. Esse sono convinte che i loro risultati dipendono dalla fortunata circostanza che esse sono state capaci di assecondare le richieste degli insegnanti. Queste sentono di non avere doti o qualità reali, oggettive, che resistono nel tempo, che sono frutto di un lavoro personale ed autonomo. La loro presunta bravura a scuola è solo il riconoscimento della loro diligenza infantile. Nonostante la loro alacre attività c’è in loro una sorta di ignavia, di disinteresse, di rifiuto di rendersi conto, di indagare la ragione delle cose (Bruch, 1978). Esse si fermano alla mera apparenza, al dato esplicito, alle spiegazioni di convenienza, alla facciata. Non hanno quella curiosità sana, quella impazienza, quell’inquietudine, quella furbizie, che spinge i bambini ad andare oltre, a non accontentarsi di quanto viene loro spacciato per vero. Queste ragazze non sviluppano una vera personalità, ma si limitano a conformarsi alle opinioni e alle aspettative degli altri. Incamerano opinioni e formulano giudizi, in modo impersonale. Manca quel faticoso processo di digestione e di assimilazione che conduce a formarsi un proprio punto di vista personale sul mondo e su se stessi. Le loro opinioni sono dunque “moneta falsa”, “merce di contrabbando”. Ne deriva un’impressione di inautenticità, di cui esse sono ben consapevoli e di cui si sentono colpevoli di fronte al mondo e di fronte a sé. Esse “prendono tutto alla lettera e mantengono una persistente interpretazione infantile di tutte le situazioni della vita [...] con superstizioso fervore queste giovani restano ancorate alle regole di vita accettate quando erano piccole. I nuovi modi di pensare e di agire dei normali adolescenti sembrano loro strani e tali da suscitare timore” (Bruch). Queste giovani disapprovano le modalità inquiete delle coetanee, i loro tentativi, anche goffi e approssimativi, di individuarsi, criticano la loro ricerca disordinata di punti di vista nuovi sullo scenario del mondo: ma le loro sono critiche espresse dal versante infantile; un versante sul quale esse si sono caparbiamente attestate e arroccate. Esse criticano senza avere un punto di vista alternativo; disapprovano perché hanno paura, si sentono inferiori e diverse.
RIASSUNTO: L’autore tenta di definire i caratteri generali della patologia anoressico-bulimica e di delineare lo sfondo antropologico-esistenziale nel quale si muove la vicenda drammatica dei soggetti affetti da disturbi della condotta alimentare. Egli riconosce il nucleo del disturbo in una perturbazione dell’esperienza del “corpo proprio”, innescata da dinamiche relazionali distorte all’interno del nucleo familiare e favorita da modelli culturali fuorvianti.
SUMMARY: The author attempts to define the general characteristics of the anorexic-bulimic disease and to underline the essential anthropologic aspects in which the dramatic journey takes the patient affected with an eating disorder. The patient identifies the focal point of this disorder through a corporeal experience, which is influenced by distorted dynamics in the relationship within the family nucleus and the superficial notions that are supported by negative cultural models .
Bibliografia
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11) Piaget J. (1937): La construction du réel chez l'enfant. Delachaux e Niestlè, Paris trad. ital.: La costruzione del reale nel bambino, La Nuova Italia, Firenze, 1979
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Il corpo negato. Considerazioni generali sull’anoressia nervosa.
Parte seconda:
aspetti psicodinamici
L’arresto del tempo e il rifiuto dell’identità di genere
Abbiamo dunque visto come l’essenza del disturbo anoressico risieda nel disprezzo del corpo, nella esasperazione delle direttive di una mente scissa dal corpo e nella negazione della femminilità.
Le ragazze anoressiche hanno in massimo conto la disciplina, le regole, la volontà, che sono qualità mentali, spirituali, di segno “cosciente-maschile” e sono lontane dal corpo e dai suoi bisogni naturali. L’essere femmine è sentito come una insopportabile ingiustizia e considerato uno svantaggio: tutte le loro aspirazioni appartengono al dominio del maschile. La loro figura esageratamente sottile, le ottime prestazioni sportive e la perseveranza fino all’esaurimento, danno loro la orgogliosa convinzione di non essere da meno di un uomo.
E’ opportuno però rilevare come, per un consistente gruppo di anoressiche, il diniego del corpo, con l’arresto della crescita verso forme e qualità femminili, non ha il fine di evolvere verso le prerogative maschili della volontà, della competizione e dell’efficienza, ma si prefigge unicamente lo scopo di “sospendere” il tempo e di rimanere in una perenne condizione filiale. Esse si concepiscono solo come figlie e la loro massima aspirazione è quella di ottenere approvazione e di ricevere gratificazioni dai genitori, in cambio della loro inappuntabile diligenza. Il perpetuarsi oltre il tempo debito del loro ruolo accudente rassicura e conferma i genitori; mentre la presenza della figlia malata avvia e mantiene un percorso fatto di attese, speranze, gioie minime legate a un suo temporaneo incremento ponderale, delusioni per le inevitabili ricadute, in un gioco perverso che si protrae e occupa per intero la loro vita. Aggiungiamo poi che le “figlie eterne” con la loro condotta malata abbassano la soglia delle richieste dei genitori, riducendola di fatto all’unica aspettativa che esse assumano un po’ di cibo e acquistino un po’ di peso. Esse si garantiscono in tal modo una sicurezza a buon mercato, rifuggono le responsabilità della crescita e differiscono ad oltranza la loro nascita psicologica come individui. Questa seconda tipologia di anoressia è stata designata come forma regressiva o materna, o passiva, a differenza della prima che rappresenta il tipo maschile o progressivo o attivo (Bruch,1978).
Accanto dunque a un tipo di anoressica che obbedisce al comando “via dalla madre verso il padre”, dobbiamo riconoscere una seconda categoria di pazienti, il cui motto è “presso la madre”, nella condizione permanente di piccola della casa, servizievole e accorta interprete dei desideri dei genitori. Il rifiuto del cibo di quest’ultima serve quindi a “congelare” la crescita per mantenere ad oltranza il corpo sottile e asessuato del bambino; a differenza della anoressica del primo tipo, la quale si affama per esercitare un dominio ferreo sui processi naturali, per saggiare la sua volontà e la sua tenacia, per essere competitiva e pari all’uomo. Per l’anoressica di tipo “maschile-attivo” la “mela avvelenata” offerta dalla madre-strega preclude l’accesso al mondo del padre, sbarra la strada alla dimensione dello spirito e della volontà, laddove l’anoressica “regressiva” mantiene un rapporto simbiotico con la madre ed è refrattaria al confronto e alla competizione.
La prima pretende di sviluppare l’aspetto maschile senza essersi compresa e riconosciuta come donna, come portatrice di valori femminili. La seconda rifiuta di riconoscersi come individuo distinto dalla madre, scarta a priori la ricerca dell’autonomia e si annida nella casa materna, usufruendo in modo indebito e per un tempo indefinito delle cure parentali che ricambia con lo zelo e la solerzia della brava bambina. In queste la paura della separazione prevale sul desiderio di crescita e soffoca la spinta naturale verso lo sviluppo.
Se vogliamo ricondurci al paradigma delle fiabe, cosa che abbiamo fatto e che ancora faremo nel prosieguo del nostro lavoro, l’anoressica che abbiamo definito di tipo “passivo-materno” realizza il modello della piccola fiammiferaia. Questo personaggio conduce un’esistenza passiva, circoscritta esclusivamente dall’universo familiare. Ella si limita ad eseguire diligentemente la consegna ricevuta di vendere i fiammiferi e si esprime e si riconosce solo nella esecuzione del compito a lei assegnato. Ignara dei propri bisogni e dei propri desideri, ella è incapace di ribellione; manca in lei ogni iniziativa, non attua una ricerca personale che la porti a realizzare uno sviluppo consapevole. In tutte le fiabe c’è una partenza da una condizione iniziale, che determina uno sviluppo di vicende, fino all’approdo alla meta difficile da raggiungere, che rappresenta la soluzione della storia. L’eroe deve compiere scelte ardue, di fronte alle quali egli si sente impotente e spesso riceve un aiuto inatteso da potenze superiori (un mago o una fata), o inferiori (un animale acquatico, uno gnomo, un topolino) che simboleggiano le risorse inconsce che entrano in gioco quando tutto è ormai perso, quando l’io si trova a un bivio non risolvibile con i mezzi della logica e del buon senso. La vicenda si snoda attraverso un intreccio di situazioni pericolose, di fronte alle quali l’eroe rischia di soccombere; ma proprio attraverso queste prove egli sperimenta il suo coraggio e rinforza la fede nella necessaria conquista del tesoro che gli appartiene di diritto. Qui non avviene nulla di tutto questo; l’eroina resta nella condizione iniziale e non perviene a nulla che la possa modificare nel senso di un accrescimento vitale. Senza spinta, senza movimento non si dà vita. Lei infatti muore bambina, si spegne insieme all’ultimo fiammifero, mentre là fuori palpita il mondo scintillante di luci e colori. Il suo unico appagamento è quello di essere accolta in cielo dalla nonna in una visione beatifica e consolatoria.
Nell’un caso e nell’altro le ragazze anoressiche mancano il loro tempo, eludono il momento di passaggio, di separazione e di individuazione. Queste dunque adottano una delle due soluzioni: o restano bambine, ovvero pretendono di essere immediatamente adulte, serie, esageratamente responsabili. Entrambe si sottraggono a quella fase delicata di profonde trasformazioni che è l’adolescenza.
Tutti conosciamo quel periodo definito “ingrato” dai genitori, troppo spesso impreparati a fronteggiare un tale sovvertimento dell’assetto ordinato e rassicurante del mondo infantile. La fase del dubbio, della ricerca confusa, le paure e gli entusiasmi, gli slanci appassionati e le cadute incomprensibili, la discordanza fra l’amore per i genitori e il fastidio, talvolta il rancore, per loro che trattengono, che esigono ciò a cui non si può più sottostare: sono queste le antinomie drammatiche che segnano e scandiscono l’adolescenza. Il bisogno di sfida e di trasgressione per saggiare la propria forza; le incertezze sulla propria identità; i dubbi sulle capacità e qualità personali; l’attrattiva del vasto mondo e insieme il bisogno di protezione e di rifugio; il richiamo della sessualità; le difficoltà di ripristinare la confidenza con un corpo divenuto estraneo, dal quale prorompono appetiti ignoti: tutto questo viene scansato dalla anoressica che si abbarbica tenacemente al suo mondo di bambina. Esse realizzano la fantasia della bella addormentata che sopisce il corpo e sprofonda nel letargo, in attesa di risvegliarsi nel mondo adulto senza il suo intervento attivo e la mobilitazione delle sue risorse.
Al di qua e al di là di tale periodo tumultuoso noi abitiamo mondi sufficientemente sicuri, dai confini ben definiti. Entrambi i mondi, quello del bambino e quello dell’adulto formato, sono mondi sufficientemente stabili e ordinati.
Il bambino ha solide convinzioni, egli possiede parametri di riferimento netti; esistono la casa, i genitori, i nonni, gli zii ed esiste lei come figlia, come bambina. All’interno di questo ambiente si ricevono infinite gratificazioni ed è possibile e facile essere ubbidienti, zelanti in cambio di approvazioni e conferme.
L’adulto si è formato le sue idee sul mondo, si muove entro i binari costituiti dalla sua professione e dal suo ruolo sociale. Egli ha compiuto le sue scelte, ha scandito i suoi tempi in base alle sue occupazioni, i suoi interessi e le sue preferenze. Egli abita dunque un suo “universo”, solido e circoscritto.
L’anoressica rifiuta la dolorosa fase di transizione fra questi due mondi, quello del bambino e quello dell’adulto; ella non abbandona il certo per l’ignoto; non approda alla nuova terra, frutto di conquista e lavoro personale. Ella o si arresta alla fase infantile o trasvola verso il “mondo del padre”, senza arrivarci passo passo, senza i dolorosi e necessari confronti con se stessa, col proprio corpo, con gli altri.
Tante volte abbiamo sentito dire dai genitori di queste infelici che esse sono sempre state responsabili, “più mature della loro età”. Ma ciò equivale a dire che queste non hanno neppure intrapreso il cammino verso la maturità e che hanno mantenuto ad oltranza, e in modo illegittimo, la serietà e la nettezza del bravo bambino che non conosce dubbi o esitazioni.
Cenni sullo sviluppo e formazione della coscienza: la via femminile
Dopo tali considerazioni preliminari sulla negazione del corpo attuata dalla anoressica, dobbiamo cercare di approfondire la psicogenesi di un tale pervertimento istintuale e le dinamiche profonde ad esso sottese.
Sono numerosi i contributi offerti dalla dottrina psicoanalitica e svariate le angolature dalle quali può essere considerata una patologia tanto aberrante, che sembra negare la vita e porsi al di fuori della corrente dell’esistenza.
Noi ci ispireremo alla psicologia analitica di C.G. Jung, e segnatamente alle ricerche di E. Neumann (1949), uno dei maggiori rappresentanti della scuola junghiana.
Cerchiamo di riassumere brevemente quelle che sono le linee di sviluppo e di consolidamento dell’Io secondo tale prospettiva.
Da un punto di vista psicodinamico lo sviluppo e la formazione della coscienza comportano di necessità un distacco dall’unità simbiotica e corporea con la madre. Il primo stadio dello sviluppo, lo stadio originario, è un’unità psichica che viene caratterizzata dal simbolo dell’uroboro, del serpente che si richiude su se stesso, che si morde la coda. Nella situazione psichica originaria predomina quindi una fusione, o meglio un “non-essere-ancora-diviso dell’Io dall’inconscio: si tratta di uno stadio pre-egoico della psiche che si trova filogeneticamente ed ontologicamente all’inizio di ogni sviluppo della coscienza” (Neumann, 1949).
In certo qual modo l’Io embrionale è contenuto nel mare uroborico dell’inconscio come il feto è racchiuso nell’acqua materna.
“E’ l’esperienza primordiale dell’essere contenuti nel potere materno protettivo e sopraffacente che si ritrova anche nella condizione pre-individuale nella quale il soggetto, non ancora pienamente soggetto e non completamente individuo, si ritrova compreso nella famiglia, nel clan o nel gruppo” (Neumann, 1949).
L’Io embrionale, avviluppato e compreso nei processi metabolici del materno, deve gradualmente affiorare, deve difendersi dallo strapotere del materno, mettere in atto condotte di separazione e di distinzione.
La coscienza emerge dal mare dell’inconscio con fatica, affrontando lotte e pericoli simboleggiati dal mito dell’eroe. Armato della spada che separa e distingue, che isola e divide, egli affronta il drago dell’inconscio e del materno che vogliono trattenerlo. L’archetipo della Grande Madre comincia a dividersi, già a uno stadio primitivo, nella immagine doppia e ambivalente della Madre Buona e della Madre Terribile. La madre è infatti colei che ci dona la vita, che nutre, che riscalda e che protegge, ma è nello stesso tempo colei che avviluppa e che trattiene, colei che è nemica dello sviluppo autonomo del figlio, colei che soffoca nel suo abbraccio mortale ogni sviluppo creativo, ogni spinta al progresso e all’indipendenza. Le fiabe più note ci offrono degli esempi paradigmatici di tale ambivalenza della figura materna. Basti pensare alla fiaba di Biancaneve o a quella di Haensel e Gretel, sulle quali più avanti torneremo.
Il mondo patriarcale maschile della coscienza e dell’Io si realizza allora solo sul fondamento di una lotta contro la madre e l’inconscio: “via dalla madre, via dall’inconscio” rappresenta la parola d’ordine patriarcale dello sviluppo della coscienza. Ma “via dalla madre” significa via dalla natura, via dal corpo, liberazione dal peso degli istinti puramente naturali.
In tal senso tutti i riti volti a rinforzare la coscienza maschile sono riti di sofferenza fisica, di punizione del corpo. Sopportare la fame e la sete, resistere al dolore di certe ferite rituali, resistere al freddo, dominare la paura, rappresentano i riti di iniziazione e le prove che il giovane affronta per diventare individuo, adulto, membro attivo della comunità. Il rito prefigura una seconda nascita, una rinascita spirituale, la filiazione da un dio padre celeste, nel quale il materno e il corporeo non hanno posto, sono elementi negativi da vincere e da superare. La “madre – corpo” è la strega, è il drago che l’eroe deve abbattere se vuol adempiere alla sua missione di eroe, di figlio divino del cielo.
Tale paradigma, che si ritrova nei miti e nei riti di tutte le religioni e di tutte le epoche, è rintracciabile anche nelle fiabe che abbiamo ascoltato da bambini e che tanto ci avevano impressionato e commosso. La fiaba di Pollicino, ad esempio, con le sue numerose varianti, contiene le tracce evidenti degli antichi riti di iniziazione, quando il giovane doveva superare delle prove, compiere delle imprese, per poter essere considerato a tutti gli effetti membro adulto della comunità. Egli non può sottrarsi, non può tornare indietro utilizzando facili espedienti, dopo che il padre l’ha condotto nel bosco. Solo quando avrà ucciso l’orco e si sarà impossessato del suo tesoro potrà far ritorno alla sua casa. Simbolicamente quando il bambino - una nullità all’inizio, un qualcosa di piccolo, di vile, di trascurabile, un “pollicino” appunto - supererà il terrore delle sue angosce regressive, rivelerà doti di coraggio e di intraprendenza, avrà cioè ucciso l’orco, solo allora si procurerà il tesoro, arricchirà cioè la sua personalità e diventerà un vero uomo. Essere uomo quindi comporta di necessità riuscire vincitore nella lotta, essere un eroe. Comprendiamo allora perché la posizione della coscienza, della civiltà e della cultura, almeno occidentale, privilegi il modo maschile-aggressivo e penalizzi il femminile.
Lo sviluppo del femminile, ci dice ancora Neumann (1953) ha un corso fondamentalmente diverso, sebbene per la donna moderna sia anche necessario lo sviluppo verso la coscienza patriarcale. Anche la donna nella nostra cultura deve accedere all’elemento maschile dell’Io senza rinnegare il principio femminile del nutrimento, del rapporto, della relazione. Deve acquisire i valori del Logos senza rinnegare i principi dell’Eros.
Il rapporto originario della figlia con la madre si differenzia fondamentalmente da quello che con la madre ha il figlio maschio, e tale diversità contribuisce in modo decisivo al formarsi di quella differenza essenziale fra la psicologia femminile e quella maschile.
Il bambino maschio, da un certo momento decisivo del suo sviluppo sperimenta la madre come un “tu” estraneo e diverso, mentre la bambina la sperimenta come un “tu proprio” e non diverso (Neumann 1953). Per questo il maschio tende di più al distacco e all’oggettivazione e talora teme i rapporti troppo intimi e fusionali.
Per “il femminile” invece il rapporto originario assume un significato e un ruolo totalmente diversi. L’identità con la madre nel rapporto primordiale può continuare a esistere anche quando “il femminile” si percepisce come femminile. Questo significa che “il femminile” può restare all’interno del rapporto primitivo in modo naturale e senza conflitti; alla donna non compete la necessità di abbandonare il cerchio naturale e primordiale della relazione materna. Finché la donna permane in questa situazione, osserva Neumann, ella è certamente infantile e immatura dal punto di vista dello sviluppo cosciente, però non è estraniata da sé, è anzi intimamente e profondamente identica alla sua natura originaria. Ella è solamente “fissata”, legata a una forma immatura della sua realtà.
“Il maschile” invece nella stessa situazione viene “castrato” e cioè derubato della sua realtà. Se il maschio non attua in modo deciso il processo di separazione che lo conduce alla sua identità, che è diversa e opposta a quella del femminile che lo ha generato, gli è preclusa la realizzazione di sé, egli “muore” come individuo. Tutto questo è espresso nel paradigma mitico dell’eterno figlio – amante della dea madre, che è destinato a morte precoce. (Jung 1952) Sono le figure dei bellissimi adolescenti, eternamente figli e prigionieri dell’amore materno che li trattiene e li perde. Questa condizione, che resta una tragica possibilità dell’umana esistenza, è simboleggiata nella figura di Attis, il giovinetto figlio della Grande Madre Cibele, che si evirerà ai piedi della dea e si impiccherà all’albero, simbolo della madre. Anche Adone è il giovinetto che perirà dilaniato dalle zanne del cinghiale, simbolo dell’aspetto terribile della madre. Narciso, lo splendido adolescente, che resta invischiato nel cerchio incestuoso dell’amore materno e si percepisce unicamente come figlio, come specchio nel quale la madre contempla se stessa, non supererà tale stadio evolutivo e la sua libido resterà bloccata a un livello autoerotico. Egli, eternamente figlio ed eternamente amato dalla madre, annegherà nelle acque del lago, simbolo del materno e dell’inconscio.
La originaria identificazione e “autoconservazione” del femminile giustifica perciò la tendenza della donna al rapporto empatico, l’adesione ai valori del sentimento, la maggiore prossimità alla vita naturale e del corpo.
La polarità archetipica maschile-femminile
La bambina dunque è vicina, adiacente alla madre dalla quale nacque, mentre il bambino fugge dalla madre per sviluppare la sua coscienza egoica. Scrive bene L. Irigaray (1985): “per la bambina la madre resta sempre troppo familiare e troppo vicina. La madre, la figlia l’ha per così dire nella pelle, nell’umido delle mucose, nell’intimità più intima, nel mistero della sua relazione con la gestazione, con la nascita e con la sua identità sessuale”. Ne deriva che la “dimensione relazionale” è immediata e originaria per la donna, la quale fin dall’inizio sperimenta un rapporto fusionale che le corrisponde. Per questo le donne privilegiano quasi sempre la relazione fra i soggetti, la relazione con l’altro genere, la relazione a due. La donna, potremmo dire, è “attraversata” dalla relazione, che ella sperimenta nelle modalità più proprie ed esclusive della sua femminilità. Per una donna “l’intimità con l’altro ha luogo perfino dentro il proprio corpo, e come amante e come madre” (L. Irigaray 2006).
L’uomo ha invece una propensione immediata per il rapporto con l’oggetto: il suo valore e il suo prestigio si misurano sulla base del possesso. Spesso anche le persone vengono “oggettualizzate” e considerate prevalentemente in rapporto al loro ruolo, alla loro posizione sociale; e la gerarchia e il rapporto verticale vengono più facilmente comprese ed accettate dal maschile.
Le donne, al contrario, si trovano maggiormente a proprio agio nella dimensione orizzontale della relazione e, quando anche si trovino nella condizione di superiore e subalterno, pure è più facile che si stabiliscano tra di loro rapporti di amicizia, di collaborazione e di complicità.
Infine alla relazione a due dell’universo femminile l’uomo contrappone e predilige la relazione fra l’uno e il molteplice, fra io-soggetto e gli altri: la gente, la società, intesi come “loro” e non come “te” (Irigaray 2006).
Alla prossimità, dimensione peculiare del genere femminile, l’uomo antepone la distanza, che favorisce la visione d’insieme e l’oggettività. Egli è attento al numero e alla quantità, che hanno a che fare con il possesso.
Più che alla generalizzazione, all’astrazione e al concetto, che sono dominio del principio maschile, la donna, in quanto portatrice dei valori connessi al femminile, è attenta al dato immediato e sensibile, al mondo percettivo, ai suoni, ai colori. La vita del sentimento e dell’affettività prevale e informa di sé ogni sua altra manifestazione. Ella è naturalmente attenta alle esigenze del corpo, ha una cura naturale e sollecita per tutto ciò che riguarda i processi e le funzioni del corpo. La donna, che ha intessuto nel suo ventre le fibre della carne della sua creatura, che l’ha nutrita con il suo sangue e con il suo latte, resta collegata alla fisicità dell’abbraccio; rimane sensibile ai turbamenti, alle sofferenze, alle piaghe del corpo, come pure alla espansività e alla gioia della crescita, al rigoglio e alla pienezza della vita. In lei le radici che succhiano acqua alla terra, la linfa che scorre e che nutre la pianta fino alla sua sommità, hanno una risonanza e rivestono un’importanza primaria; mentre all’uomo sembra importare solo la vetta, ciò che è più prossimo al cielo e più lontano dalla terra e dai suoi succhi.
Il corpo della donna recita una consonanza con la natura; i suoi tempi sono quelli naturali: la periodicità del ciclo mestruale, il tempo uniforme ed eternamente uguale della gestazione, la collocano nel respiro ampio, ciclico e perenne della natura, la collegano al cosmo, alla luna, alla armonia del mondo naturale.
L’uomo, in quanto espressione del principio maschile, è più “indipendente”, maggiormente svincolato dal corpo; egli è più “pensiero”, più “testa”, e per questo è più instabile, imprevedibile, inquieto; in qualche modo egli è più “libero”, con i rischi che tale svincolo comporta. Tale libertà lo ha reso capace di creare la “natura seconda” della cultura, della civiltà e della tecnica. La sua base istintuale, dimenticata o rimossa, partecipa meno, non si fa cultura, entra a stento nella sua dimensione civilizzata, resta arretrata, arcaica, pericolosamente lontana dalla cima sulla quale egli si compiace di abitare. Per questo la natura in lui irrompe a volte in modo inatteso e brutale, mandando in frantumi la sua scorza di civiltà; e la persona più colta e civile ci sorprende con le sue ubbie e fantasie malate, con le sue fisime ed idiosincrasie, con certi comportamenti a volte insensati. Per queste ragioni l’uomo, eccessivamente identificato con il dominio maschile e sbilanciato verso il polo maschile della diade maschio-femmina, troppo spesso è incapace di una relazione autentica con la donna, che viene relegata in una dimensione inconscia. Lontana dalla possibilità di una relazione autentica, cosciente e paritaria, la donna agisce sull’uomo in modo obliquo, indiretto; ella si manifesta in modo volubile e capriccioso, finisce per esercitare sull’uomo una sorta di seduzione, di tirannia e di dominio: sulla donna viene cioè proiettata la psiche inconscia dell’uomo, l’Anima, che, in quanto inconscia, si connota di quei tratti umorali e incostanti che intralciano il percorso ordinato e rettilineo del pensiero maschile. A sua volta la donna viene sovente dominata dalla sua componente inconscia di segno maschile, l’Animus, che rappresenta per lei una sorta di pensiero rudimentale fatto di opinioni, idee preconcette, asserzioni rigide e perentorie, estranee a un sistema logico e consequenziale, che tanto spesso irrita l’uomo ed è un ostacolo alla relazione: di qui la difficoltà di un vero incontro tra uomo e donna (Jung, 1928).
L’uomo “cavalca un capro che otterrà comunque la sua soddisfazione”, scrive J. Hilmann in una non so più quale sua opera; e ciò rende ragione delle modalità impazienti, ictali, del suo comportamento sessuale, come pure delle sue esplosioni di rabbia e di aggressività. Il funzionamento sessuale del maschio, considerato in modo estremo e paradigmatico, obbedisce al modello energetico di “tensione”, “scarica”, “ritorno all’omeostasi”. Non v’è modulazione, trasformazione; i valori della pazienza e della dolcezza, gli influssi del sentimento e della tenerezza restano estranei alla modalità esplosiva, violenta, cieca e necessaria della sessualità maschile.
L’uomo si colloca piuttosto accanto alla natura e non all’interno di essa; egli non si riconosce più come suo figlio devoto e rispettoso. La natura è lì per essere dominata e sfruttata da lui; è questa un immenso serbatoio di risorse da depredare per soddisfare i suoi bisogni e realizzare i suoi fini.
L’appagamento nella situazione concreta nello snodarsi del quotidiano, la fedeltà ai ritmi del corpo e della natura conferisce alla donna quell’orrore dell’astratto, quella diffidenza verso i sistemi logici e atemporali, quella refrattarietà ai principi assoluti, che rappresentano al contrario il dominio del maschile. “Le donne enfatizzano meno il denominare, il definire, il fissare e tutto quello che esiste mediante idee o concetti”, (L. Irigaray 2006); esse privilegiano il rapporto, la corrente affettiva, la comunione. Per questo la donna è la custode della vita nel dispiegarsi delle sue fasi; ella è ancella della pace. Ciò che conta per lei è lo stare insieme e vicini; è più importante per lei il “come” piuttosto che il “che cosa” si dice, quando ci si riunisce per discutere.
L’ascolto femminile è ricettivo e non è solo un registrare informazioni esplicite e dirette; è anche un ascoltare parole non dette. La “presenza” della donna alla situazione è non solo “mentale”, ma “globale” e “al discorso, all’incontro con l’altro, sono invitate a partecipare tutte le percezioni” (Irigaray, 2006). Il discorso della donna perciò non è mai impersonale, ma è sempre richiamato e diretto da una appercezione sensibile e affettiva delle circostanze ed è attento al momento. L’attenzione al sensibile, al particolare, la cura del dettaglio, il senso delle circostanze e dell’opportunità, sono una costante del pensiero femminile. La vicinanza al mondo naturale e all’inconscio le permettono inoltre di “accorgersi”, di cogliere sfumature, sottintesi, connessioni intime e segrete fra le cose, che il pensiero maschile tende invece a distinguere e isolare.
Il predominio assoluto del maschile nella nostra cultura ha permesso l’elaborazione di un linguaggio-codice neutro e universale, che ha soffocato la vera comunicazione. Il linguaggio della cultura scientifica patriarcale è un linguaggio più “segnico” che “simbolico”; è univoco e definito, ma per questo è disanimato, disancorato dal corpo e dal sangue, dimentico del corpo, della natura, del respiro. Le formulazioni delle teorie scientifiche e dei codici sono “esatte” ma “astratte”, utili per la ripetitività tecnica e la riproducibilità sperimentale, ma sono solo un involucro pallido che copre la pienezza della vita. La vera comunicazione è fatta di immagini, di colore, di calore, di accenni e accenti, di suoni, di sguardi: è un dialogo tra corpi.
La prossimità, l’intimità, la fusione, producono quella comunicazione empatica, quella consonanza di pensieri e sentimenti, quelle intuizioni, premonizioni, presentimenti, che hanno un valore enorme nella modalità di comunicazione del femminile. Si delimita così un “universo liquido”, ove si riflettono e si riverberano il non detto, l’allusivo, l’accennato, il suggerito, che sembrano sottrarsi a quella comunicazione esplicita e diretta di segno maschile, per cui ogni parola significa esattamente quello che il codice linguistico le ha assegnato una volta per tutte e che è sempre sotto il dominio del pensiero. Il pensiero, come la vista con cui spesso si identifica, esige oggetti dai contorni nitidi, ben delimitati e separati, per cui si vede e si pensa esattamente quello che è “lì”, ciò che è “di fronte”, l’oggetto, che può essere “nominato” e quindi “dominato”.
La coscienza e il pensiero si identificano infatti con il sole che illumina e che ci offre le cose nella loro nitidezza e nella loro evidenza assoluta.
Il chiarore ambiguo della luna, invece, rappresenta il modo femminile dell’esistenza. Alla luce tenue e argentata della luna il mondo si anima di mille implicazioni e di infinite suggestioni, che si dileguano alla luce violenta del giorno. Nella penombra, come in un dormiveglia, tutto sembra trapassare e scolorire; le cose si confondono e si compenetrano l’un l’altra; gli oggetti suggeriscono segrete consonanze e affinità misteriose, per cui una cosa non è mai solo quella che è, ma può alludere ad altro, anche al suo opposto. Qui non si è mai certi tra realtà e parvenza: le ombre hanno la stessa consistenza degli oggetti che le suggeriscono e le richiamano, mentre gli oggetti come fantasmi appaiono e si dileguano: così si anima e si percepisce il mondo al polo estremo femminile della coppia archetipica maschile-femminile.
Tali riflessioni sulla polarità maschile-femminile possono sembrare ovvie; tanto ovvie che abbiamo finito per dimenticarle, o ignorarle; o piuttosto abbiamo preferito relegarle con un qualche imbarazzo nel novero di pregiudizi troppo ingenui e naturali, indegni della visione allargata e illuminata della cultura contemporanea. I contributi di una certa cultura femminista e il sempre crescente livellamento delle differenze di genere - determinato dalla vita sociale e lavorativa, dalla competizione nella carriera e dal rendimento professionale, che è un parametro neutro che disconosce per principio ogni eccezione ed è teso solo al “target” da raggiungere e al profitto da conseguire - hanno concorso a determinare l’oblio della differenza più radicale e necessaria del genere umano: quella tra uomo e donna, inevitabile e obbligata come quella tra il giorno e la notte; differenza che persiste, nonostante nelle nostre metropoli, sempre illuminate e rumorose, abbiamo da tempo dimenticato questa evidenza e confuso il giorno con la notte. Ogni elemento della coppia di opposti (giorno-notte, bene-male, maschio-femmina, si-no, vita-morte) acquista il suo senso in rapporto all’altro e l’uno non esisterebbe senza l’altro. Dal riconoscimento di tale polarità e dal loro incontro nasce ogni creazione, ogni opera, ogni vita.
La devianza anoressica
Tale connotazione del “principio femminile”, in antitesi e in posizione complementare con il “principio maschile”, ci è sembrata necessaria per cercare di comprendere la dinamica profonda di quella sconcertante inimicizia col corpo che costituisce l’essenza della modalità anoressica dell’esistenza.
Nel periodo cruciale nel quale sboccia la femminilità, nel rigoglio del corpo che si trasforma, la ragazza, sia pur confusa e turbata dagli inspiegabili cambiamenti che si attuano in lei, è chiamata a dire “sì” alla natura e deve aderire ai principi che la governano dal di dentro.
L’anoressica invece, con un atto temerario e disperato, protesta, si oppone, dice “no” a ciò che è vita e destino, e si incammina nel sentiero aspro e desolato del rigore e dell’ascesi. Compie un tradimento, si rende colpevole di un delitto con la sua pretesa, tragica e sconsiderata, di dominare la vita del suo corpo, che non a lei sola appartiene, ma prima ancora alla natura che da millenni opera nelle sue fibre e nelle sue cellule prodigiosi e misteriosi processi. L’attività impersonale del sistema vegetativo regola i processi metabolici, scandisce il battito cardiaco e il ritmo del respiro, distribuisce il flusso del sangue e degli umori, organizza con stupefacente esattezza i tempi e i modi delle secrezioni endocrine, suscita gli appetiti, detta i cicli immutabili del sonno e della veglia: provvede insomma con infallibile esattezza all’economia dell’organismo e alla sua omeostasi.
Le vicende del corpo interessano e coinvolgono assai di più la donna che non l’uomo. Il corpo della donna è teatro di trasformazioni profonde, di vicissitudini, alle quali aderisce assai di più la sua personalità rispetto a quanto avviene nell’uomo. Lo sviluppo del seno alla pubertà, le mestruazioni con i suoi cicli ritmici, i cambiamenti di umore e di disposizione connessi con il ciclo, la penetrazione nell’atto sessuale, la deformazione del ventre e del corpo con la gravidanza, il parto con la sofferenza e la lacerazione fisica, l’allattamento al seno, le trasformazioni della menopausa: tutti questi sono eventi psicofisiologici coinvolgenti e trasformanti.
La donna perciò, più che l’uomo, non può sbarazzarsi impunemente del corpo e non può prescindere dalla sua dimensione naturale.
In tal senso si può forse dire come le “sante anoressiche” del Medio Evo costituissero degli estremi patologici, degli esempi di una naturalità stravolta e pervertita, quasi ebbra e visionaria. Gli asceti e gli eremiti invece, nella solitudine e nella mortificazione del corpo, potevano trovare comunque una via e un accesso alla dimensione spirituale. Quanto appena detto ha un qualche valore solo quando si consideri il fenomeno al suo livello collettivo, espressione di una tendenza alla quale dovevano soggiacere anche spiriti di non elevata caratura, povere donne disturbate che oggi definiremmo isteriche, prive degli strumenti necessari per pervenire a una dimensione personale ed autentica della fede. Questa veniva pertanto agita nelle modalità estreme che il tempo suggeriva. Dobbiamo senza dubbio escludere da un tale giudizio alcune personalità d’eccezione, come Santa Chiara, Santa Caterina da Siena, Santa Francesca Romana, per le quali la via dell’ascetismo ha costituito la loro più autentica vocazione. Queste vere sante hanno dato un contributo decisivo alla comprensione teologica e trascendente dell’essere umano.
In generale però mi pare di grande importanza l’intuizione di L. Irigaray - già più volte citata in questo lavoro per la sua sapienza tutta femminile - secondo la quale “la donna non dovrebbe lasciare il suo corpo, uscire da sé o di sé, non dovrebbe neanche rinunciare all’ambito naturale per raggiungere il divino. Le donne non dovrebbero abbandonare ciò o chi è qui e ora per un futuro nell’aldilà. Il suo compito sarebbe piuttosto quello di divinizzare il mondo di quaggiù – in quanto cosmo, corpo o relazione con gli altri” (2006). La donna, in qualche modo, perde la sua innocenza quando dimentica se stessa, la peculiarità del suo genere e si strappa dall’armonia e dal connubio con la natura.
La spinta alla separazione dell’Io dall’inconscio è avvertita insomma come più difficile per la donna e fonte di maggiore angoscia, perché si tratta di rinnegare una figura, la madre, con la quale si ha in modo naturale e originario un legame di identità e di più intima fusione.
Per tornare al tema del nostro discorso può accadere, per certi caratteri e col favore di particolari costellazioni familiari, che, a causa della naturale difficoltà di separazione dalla madre e dal corpo, una adolescente si trovi costretta ad attuare comportamenti estremi per “distinguersi”, per diventare individuo indipendente e autonomo.
Può esserci una madre ingombrante, che tende a occupare gli spazi privati della figlia, una madre manipolativa, colpevolizzante, seduttiva, che cinge e circuisce la figlia, togliendole spazi di manovra e di autonomia.
Spesso si tratta di madri incapaci di stabilire una relazione autentica con la figlia, che tendono ad appellarsi piuttosto a regole rigide, a modelli, a schemi educativi prestabiliti, piuttosto che farsi interpreti dei bisogni autentici della bambina. Incapaci come sono di entrare in relazione, di stabilire un rapporto personale con la figlia, si rivolgono all’alimentazione come veicolo di scambio affettivo e si rassicurano con l’assolvimento preciso e scrupoloso del loro compito di nutrici e con la attenta osservanza di norme dietetiche codificate. Tale condotta gratifica la madre e la conferma nel suo ruolo, ma inevitabilmente strozza il rapporto che deve conoscere altre modalità espressive per essere pieno, appagante, personale. La bambina, costretta in tali regole rigide, protesta, si ribella in forme che possono essere diverse, a seconda anche del suo temperamento e dei suoi tratti caratteriali. I conflitti interni, generati dalla ribellione alla madre dispensatrice di cibo, determinano lo strutturarsi di una nevrosi che può assumere le più diverse manifestazioni. La condotta anoressica rappresenta una di queste possibilità ed è una risposta estrema, la protesta radicale di una giovane che si estromette dalla pienezza caotica ed esuberante della vita e del sentimento e “sceglie” di abitare in un deserto ove è disperatamente sola, da null’altro sorretta che da una volontà disumana che pretende di mortificare il corpo, di imprigionarlo in regole rigide e assolute, negando alla natura il proprio intrinseco ordine e la sua misteriosa saggezza.
Un altro dei fattori ambientali favorenti il disturbo alimentare può essere una figura di padre assente, sbiadito, col quale non sia stato possibile avviare una relazione, nella quale potessero entrare elementi più propriamente maschili di autonomia, di decisione, di coraggio. Può mancare dunque una figura di riferimento maschile che faccia da contrappeso al predominio della madre.
Tant’è; per sfuggire alla morsa del materno, per spezzare il legame identificativo con il femminile, la giovane rompe in modo radicale ed estremo il vincolo di confidenza con la madre, col nutrimento, col corpo.
Ella si sente obbligata a dire di no ai propri istinti, deve negare, annullare il proprio corpo. Diventa perfezionista, intransigente, rigida, severa, impeccabile, ascetica: è la personalità premorbosa dell’anoressica.
Ella considera il proprio corpo un peso insopportabile, una zavorra che trattiene lei, creatura angelo, figlia perfetta di un padre remoto e sconosciuto. Adotta così meccanismi di controllo esasperato sul proprio corpo che viene costretto in un modello stilizzato, rigido, in una figura quasi immateriale.
Ciò che rappresenta abbandono, rilassatezza, indulgenza, adesione ai ritmi e alle fasi del corpo, ai processi somatici e vegetativi, è considerato con disgusto e innesca condotte punitive ad ogni minima concessione.
Si ha, potremmo dire, una “inflazione” dell’archetipo del padre, favorita spesso da un’assenza del padre reale, di una figura che incarni quei valori di autorità e di guida che egli dovrebbe rappresentare. L’insufficienza del modello dunque favorisce una spinta ascensionale che perde la giovane e la aliena sempre di più da se stessa.
Ella cerca in modo esasperato una identificazione con il lato maschile-spirituale e “trasfigura” il corpo in un tentativo estremo e disperato di renderlo sostanza spirituale, senza peso. Nella cella angusta della torre custodita dalla madre-strega ella lascia un corpo ischeletrito, un corpo svilito ed esangue, mentre la coscienza-spirito vola tra le braccia del padre.
Il diniego esasperato della madre e del corpo, dunque, aliena profondamente la giovane anoressica dalla dimensione naturale; mentre la tensione estrema verso un padre remoto e inaccessibile, le sbarra ugualmente la via verso i valori della autonomia, della cultura, della civiltà.
La madre-strega è recepita unicamente nella sua funzione alimentare, come qualcosa che alletta in modo pericoloso, che placa e che seda la fame, e con ciò addormenta, ipnotizza. Ella “contiene” in un involucro protettivo e deresponsabilizzante, defrauda la figlia dei valori della ricerca e della autonomia personale, perché fiacca lo spirito e la volontà.
Ancora una volta la fiaba getta una luce sorprendente su queste oscure dinamiche. La fiaba di Haensel e Graetel è, potremmo dire, tutta ridotta e circoscritta alla dimensione alimentare, nella quale domina la figura della madre provvida e benefica, che intossica e uccide con la sua falsa generosità. La casetta di marzapane rappresenta la funzione nutritiva della madre, allettante e avviluppante che, coi fili appiccicaticci dello zucchero filato, con lo stucchevole e nauseabondo eccesso di dolci, impania le forze necessariamente trasgressive della giovane che cresce, blocca il suo spirito di ricerca e di avventura. Quella madre rivela il suo lato terribile e diventa la strega che vuole divorare i piccoli.
Questa è la connotazione del materno, amplificata ed esasperata dalla giovane anoressica, che si strappa con violenza dalla madre-corpo e tenta di fuggire nella dimensione opposta del padre-spirito, che la imprigiona in senso contrario. Non più prigioniera del “ventre”, ella lo diventa della “testa”.
Come Icaro ella vola leggera verso una dimensione verticale, verso il sole maschile, si brucia le ali e precipita verso la tomba.
Le pagine del già ricordato volume di Alessandra Arachi dimostrano come le nostre osservazioni siano molto di più di una semplice metafora. Il fatto che nella anoressica si sia prodotta un’identificazione inconscia con l’archetipo del padre, del maschile divino, ci sembra evidente quando leggiamo: “S. Francesco, Santa Chiara, Madre Teresa di Calcutta avevano passato la vita a togliersi il pane di bocca per darlo ai poveri […] e Gesù Cristo era alto, biondo e magrissimo, smunto il viso della Sindone. [… ] la notte mi trastullavo con la teoria dei campi. Leggere libri di fisica mi dava la sensazione di vivere dentro una favola … grazie a quelle pagine imparavo ad uscire dallo spazio tempo, alla ricerca di un dio che non viveva nel regno dei cieli ma correva alla velocità della luce diventando ora materia ora energia. […] avrei voluto dirlo ai miei genitori che il corpo era soltanto una macchina che macina energia se la riempiamo di cibo, ma raggiunge l’infinito se la nutriamo di sapere” (A. Arachi 1994).
L’anoressica dunque sperimenta e conosce solo gli estremi del “maschile” e del “femminile”, del “paterno” e del “materno”: ella si strappa violentemente dalla madre e dal corpo per proiettarsi con eguale violenza nella dimensione del padre e dello spirito. Non più contenuta nella dimensione calda e naturale della madre ella sperimenta il freddo di una dimensione metafisica estraniante.
Suo compito, per ottenere la guarigione, è quello di riconciliarsi con la madre e col corpo, con la natura e col calore; e di liberarsi dalla stretta di ghiaccio di un padre remoto, astratto, lontano dalla vita.
I valori maschili della coscienza dovrebbero venirle incontro in forma “umana”, in modo fruibile e amico: solo così la giovane può essere liberata e uscire dalla fortezza nella quale si era volontariamente chiusa, o era stata rinchiusa dalla madre-strega che la teneva prigioniera.
Solo un padre terreno, a lei vicino, può veramente soccorrere la giovane. Meglio, ella può essere liberata solo da un “maschile - partner”, capace di stabilire con lei una relazione vera, un incontro autentico. Sovente la giovane anoressica sta meglio quando si fidanza, quando fa l’esperienza di un compagno, che possa permetterle a un tempo di accorgersi del suo corpo e di fruire dei valori di volontà e indipendenza veicolati dal maschile.
Ci soccorre ancora la verità racchiusa nelle favole che ascoltavamo da bambini e che ci hanno accompagnato nel corso della nostra vita, rivelando a poco a poco significati profondi, verità archetipiche, motivi eterni connaturati all’uomo e al suo destino. Biancaneve muore per aver ingerito la mela avvelenata dalla madre. Il nutrimento materno la intossica e la conduce nella bara di vetro. Tutte le sue funzioni naturali e vitali sono spente ed ella conserva l’aspetto pallido ed esangue di chi rifiuta la sostanza vitale. Per pervenire a una dimensione nuova dell’esistenza e alla coscienza, ella deve portare sino al limite la sua rottura con la madre avvolgente, scindere il rapporto fusionale che blocca la spinta evolutiva. Biancaneve deve prima perdersi nel bosco dell’incertezza e dell’angoscia; chiamare poi a raccolta le sue risorse, le forze soccorrevoli interne (i nanetti, gli animali della foresta), che le fanno intravedere nuove possibilità fondate sulla ricerca e l’iniziativa personale. La morte naturale segnerà l’inizio della resurrezione, dopo il bacio del principe che la desta alla coscienza.
Così in tutte le fiabe si ripropone il paradigma mitico, nel quale l’eroe, il principe, infine libera la prigioniera rinchiusa nella torre dalla strega malvagia. Tale mitologema significa proprio che le forze maschili di liberazione, venendo incontro alla fanciulla in modo umano e comprensibile, attivano e promuovono quel principio della coscienza e della autonomia che è interno a lei e le restituiscono la sua integrità.
Tale incontro è decisivo non solo per la fanciulla liberata, ma risulta fecondo anche per l’eroe maschile, che solo congiungendosi al femminile creativo può “fondare il regno”, costruire cioè la propria personalità.
La validità e la verità del mito ci attestano quanto profondo sia il disagio che è sotteso alle condotte alimentari abnormi. Tale disagio non può essere corretto da semplici norme dietetiche, né può valersi di consigli, imposizioni, appelli all’evidenza e al senso comune.
Dobbiamo entrare nel mondo simbolico, riconoscere il corpo come luogo delle nostre emozioni e dei nostri conflitti, come il prodotto integrato di Io e inconscio, di spirito e terra, di natura e cultura.
Le osservazioni fino a qui prodotte sono certamente generali e non pretendono di esaurire una problematica tanto grave e profonda, né di definire i termini di un disagio così drammatico e devastante.
Solo l’incontro con la paziente, l’esperienza nel comune spazio terapeutico, il dialogo e il confronto, ci permetteranno di entrare nel suo mondo, di esplorare con lei i retroscena della sua vita psichica, di esaminare i suoi conflitti, accettare le sue debolezze, sopportare le sue sconfitte e condividere le sue speranze.
Le riflessioni sino a qui fatte potranno insomma costituire unicamente una cornice, nel quale i singoli casi potranno essere inquadrati, sono solo uno sfondo in cui questi possano essere collocati.
Il terapeuta dovrebbe in definitiva innescare e promuovere quei processi che possano favorire l’incontro del “principe” con la “prigioniera”, avviare cioè quella sintesi creativa tra il principio maschile e i valori femminili da cui nasce e prende forma la personalità.
RIASSUNTO: Dopo l’analisi esistenziale e l’indagine sui fattori familiari, sociali e culturali dei disturbi della condotta alimentare condotte nel primo articolo, si propongono qui alcune riflessioni sulla possibile psicogenesi del disturbo, alla luce degli orientamenti della psicologia analitica, con particolare riferimento all’opera di E. Neumann. Si individua nelle ragazze anoressiche un rapporto alterato con la figura materna, nel senso di un rifiuto che conduce al rigetto del corpo e della femminilità, ovvero nel senso opposto di una indebita prossimità che le mantiene ad oltranza in una condizione filiale. La prima modalità realizza il tipo “maschile-attivo” dell’anoressia, mentre il secondo corrisponde alla sua forma “passivo-materna”.
SUMMARY: The author also considers the possibility of a psicogenetic disorder that is oriented towards the school of thought of analytic psychology with particular reference to the works of E.Neumann. It is well known that anoressic teenage girls who have an abnormal maternal relationship tend to manifest two opposite tendencies: or total rejection of their body and feminine qualities (active-masculine type), or the complete opposite syndrome of eternal childhood behavior (passive-maternal type).
1) Arachi A. (1994): Briciole. Storia di un’anoressica. Milano: Feltrinelli,
2) Irigaray L. (1985): Il gesto in psicanalisi In: Sessi e genealogie. Milano. Baldini Castoldi Dalai editore 2007
3) Irigaray L. (2006): In tutto il mondo siamo sempre in due. Milano. Baldini Castoldi Dalai editore
4) Jung C. G. (1952): Simboli della trasformazione. Torino: Boringhieri 1970
5) Jung C.G. (1928): Die Beziehungen zwischen dem Ich und dem Unbewussten. (Trad. it. L’Io e l’Inconscio. In: Opere, vol. 7. Torino: Boringhieri.
6) Neumann E. (1949): Storia delle origine della coscienza. Roma: Astrolabio 1978
7) Neumann E. (1953): La psicologia del femminile. Roma: Astrolabio 1975