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Notiziario Luglio 2010 N°7

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NOTIZIARIO Luglio 2010 N°7

A cura di Giuseppe Di Lascio

 

Con la collaborazione di:

Bagalino Alessia, Bauzulli Doriana, Di Lascio Alessandro, Di Lascio Susanna, Levi Della Vida Andrea, Melilli Simonetta, Pallotta Pasqualino, Sesana Giovanna, Stazzi Claudio, Zimmatore Elena

I DISTURBI D’ANSIA I^ parte

 Susanna Di Lascio – psicologa
e-mail: susanna.dilascio@gmail.com 

L’ansia, è uno stato fisiologico e psicologico caratterizzato da componenti cognitive, somatiche, emotive e comportamentali che si combinano insieme per creare le sensazioni dolorose che noi giudichiamo rabbia, paura, apprensione o preoccupazione. In seguito ad un qual si voglia intenso stress o di uno stato di allarme persistente, l’organismo in genere si mobilita, con cambiamenti che in casi estremi possono compromettere l’omeostasi, quale controllo di uno stato bilanciato, coerente e stabile.

L'ansia, che a differenza dalla paura non è la reazione ad un pericolo reale, è la risposta somatica di chi si prepara ad affrontare una minaccia secondo la risposta definita 'combatti o fuggi' per la sensazione dell’incombere di un pericolo imminente. Si accompagna, in genere, a palpitazioni cardiache, nausea, toracalgia, polipnea, gastralgia, cefalea, aumento della pressione arteriosa, della frequenza cardiaca, della sudorazione e dell’afflusso di sangue ai maggiori gruppi muscolari, mentre il sistema immunitario e le funzioni dell'apparato digerente sono inibiti. Si possono accompagnare anche pallore, tremore e dilatazione pupillare. Alla base di tutto ciò vi sono circuiti neurali che coinvolgono l'amigdala e l'ippocampo e la cui attivazione può intervenire come risposta immediata allo stress che, se prolungato, può provocare ulcere orali o piaghe da freddo e rendere più suscettibili i polmoni alle malattie da raffreddamento e alle infezioni. Possono attuarsi altri problemi cutanei, come eczemi e psoriasi, ipertensione arteriosa stabile e alterato ricambio glucidico per l’aumentata produzione del cortisolo, frammentazione del sonno, danno della capacità mnemonica per atrofia e morte neuronale, potenziamento della coagulazione del sangue e consequenziale maggior rischio di ictus ed infarto miocardico, aumento dell’appetito e, quindi, obesità anche per effetto dell’aumento di cortisolo e di altri ormoni, dismenorrea, impotenza, eiaculazione precoce, spasmi muscolari.

I DISORDINI D'ansia, SECONDO IL NIMH

I disordini d’ansia, secondo il NIMH (National Institute of Mental Health) 2009, sono: l’attacco di panico, l’agorafobia senza storia di attacco di panico, il disordine di panico con e senza agorafobia, la fobia specifica, la fobia sociale, la GAD (generalized anxiety disorder, il PTSD (post-traumatic stress disorder), l’OCD (obsessive, complulsive, disorder), l’ASD (acute stress disorder), il 4 disordine d’ansia dovuto a una condizione medica generale, il disordine d’ansia indotto da sostanze, il disordine d’ansia NOS (non otherwise specified).

Il DP (disturbo di panico) corrisponde a ricorrenti attacchi che, a causa dell’intensità dei sintomi fisici, provocano sensazione di morte imminente e necessità di abbandonare la situazione coinvolgente. Essi possono anche includere significativi cambiamenti comportamentali dominati dalla preoccupazione e l’angoscia di avere altri attacchi, definiti dal DSM-IVR attacchi di anticipazione. Il disturbo di panico non è sinonimo di agorafobia ma si può accompagnare ad essa. La parola “panico”, che essenzialmente definisce una delle forme dell'angoscia, deriva, invero, dal nome Pan, l’antico, potente e selvaggio dio greco, dall'espressione terribile, raffigurato con zampe irsute e zoccoli, corna caprine, busto umano, volto barbuto. Egli esprimeva, proprio durante il panico, il sentimento che lo ispirava. Il dio, infatti, si adirava con chi lo disturbava, emettendo urla terrificanti.
L’agorafobia è l’intensa ansia nei luoghi aperti o in situazioni specifiche, come il trovarsi soli, o anche pensando a esse, con la possibilità di passare a un attacco di panico e con la sensazione di perdita del controllo. Il soggetto sviluppa nel tempo la tendenza a evitare i luoghi e le situazioni scatenanti con necessità di essere accompagnato da altra persona.
La fobia specifica è il timore per un oggetto o per una definita situazione con tendenza a evitarli. L’oggetto può essere un cane, un insetto, un qualsiasi animale, il sangue, le iniezioni, gli spazi chiusi, come nella claustrofobia, i luoghi elevati, l’aereo o altro. L’individuo, nell’incontro con l’oggetto o con la situazione di riferimento, avverte timore, come per l’imminenza di qualcosa di spiacevole con possibilità di perdere il controllo e d’induzione di un attacco di panico. 
La fobia sociale è l’ ansia e l’angoscia per situazioni sociali o prestazioni di qualsiasi tipo o specifiche, preoccupazione di essere al centro dell’interesse generale con il tentativo di evitare la situazione scatenante.
Il GAD è l’angoscia e l’ansia per lunghi periodi con l’associazione dei sintomi di molte altre forme di stress. 
Il PTSD corrisponde ad una varietà di espressioni sintomatologiche, dall’ansia alla depressione, che ricorrono dopo un grave evento traumatico, in cui il soggetto è stato esposto, con minaccia diretta o indiretta di danni gravi o di morte vissuta da solo, come stupro, assalto, o in compagnia, come in combattimento militare. I pensieri, le conversazioni o le attività che ricordano l’evento evocano la sensazione di sperimentarlo nuovamente, anche nei sogni, per cui il soggetto si sforza di dimenticare.
L’OCD è l’ossessione incontrollabile di una idea o di un pensiero intrusivo, con distrazione dell’attenzione e difficoltà allo svolgimento dei propri compiti. Si tratta di compulsioni, cioè azioni con l’obbligo di eseguirle, anche se contrarie al buon senso, azioni percepite come vincolanti al fine di eliminare la sofferenza (distress), causata, talvolta, dall’idea compulsiva di prevenire un evento orribile.

EPIDEMIOLOGIA DEI DISTURBI D’ANSIA

I disturbi d'ansia sono patologie psichiatriche molto comuni e i dati ECA (Epidemiologic Catchment Area), diffusi in USA nel febbraio 2010, riportavano che nel giro di sei mesi il 6% degli uomini e il 13% delle donne soffrivano di ansia. In particolare, la prevalenza di qualunque disturbo d’ansia negli statunitensi era pari al 16.4%, del disturbo di panico all’1.6%, della fobia sociale al 2.0%, dell’ansia generalizzata (GAD) al 3.4%, dell’agorafobia al 4.9%, della Fobia Semplice all’8.3%, del disturbo Ossessivo Compulsivo al 2.4%, del disturbo post traumatico da stress al 3.6%. La prevalenza, invece, per qualunque disturbo dell'umore era pari al 7.1%, per l’episodio di depressione maggiore al 6.5%, per la depressione maggiore unipolare al 5.3%, per la distimia all’1.6 %, per il disturbo bipolare I all’1.1 %, per il Bipolare II allo 0.6 %. Nonostante questi dati, però, meno del 30% dei casi era sotto trattamento, con notevole impatto sulla persona, sulla società, sull’economia individuale e della collettività. Ciò era da imputarsi, soprattutto, al mancato riconoscimento clinico o alla diagnosi errata in sede di cure primarie. In definitiva, pur con i limiti della sottostima derivanti da quanto premesso, DSM-IV.
L’ESEMeD (European Study on the Epidemiology of Mental Disorders) [Acta Psychiatr Scand 2004: 109 (Suppl. 420): 21–27], ha riportato la prevalenza dei disturbi mentali in Italia, Belgio, Francia, Germania, Olanda e Spagna come da seguente tabella.

Da essa risulta che poco più di un italiano su cinque aveva sofferto di un disturbo mentale nel corso della sua vita, mentre uno su quindici di un disturbo mentale nei 12 mesi precedenti e che circa l’11% aveva dichiarato un disturbo affettivo o un disturbo d’ansia nella sua vita, mentre in percentuale minore un disturbo da abuso/dipendenza da alcool. Nei riguardi delle fobie specifiche, il 6% circa rispondeva ai criteri diagnostici nel corso della vita, mentre poco meno del 3% nei 12 mesi precedenti. Oltre la depressione e le fobie specifiche, altri disturbi, abbastanza comuni nel corso della vita, erano risultati la distimia e il disturbo dell’ansia generalizzata.

Nel confronto con gli altri Paesi dello studio e in particolare la Francia, la prevalenza per tutti i disturbi mentali degli italiani si rilevava, peraltro, tendenzialmente più bassa.

EZIOLOGIA DEI DISTURBI D’ANSIA

L’eziologia dei disordini d’ansia non è ancora esattamente chiara e s’ipotizzano nei suoi confronti fattori multipli. La causa genetica è considerata in ragione della ricorrenza da 3 a 5 volte superiore nelle famiglie. Sono anche evocate condizioni chimiche e metaboliche del cervello, la personalità e le esperienze di vita, gli stress psicologici passati e presenti, inclusi gli eventi catastrofici, il ruolo learning (apprendimento nello sviluppo dei disturbi d'ansia), il processo di condizionamento, le condizioni non genetiche ma intervenute durante le prime fasi successive all’ontogenesi, i vari eventi stressanti della vita, i disordini neurotrasmettitoriali in alcune parti del cervello e principalmente del noradrenergico, del GABA e del serotoninergico. Peraltro, gli squilibri della serotonina e della noradrenalina avrebbero un ruolo nel disturbo di panico. Difatti, la prima è ritenuta diffusamente coinvolta nella sua patogenesi. Per la seconda va considerato che i farmaci antidepressivi hanno successo nel modularla e che la stimolazione del locus coeruleus, ricco di noradrenalina, promuove il panico nelle scimmie.

In effetti, il malfunzionamento delle strutture cerebrali, come l'amigdala e le ghiandole a secrezione adrenalinica, può provocare un’alterata produzione di determinati prodotti chimici, possibile causa dei sintomi fisici. Studi d’imaging 7 hanno dimostrato, invero, che i malati presentano un’attività GABA cerebrale del 10-20% inferiore rispetto ai controlli. D’altro canto, l’Arc catFISH (fluorescence in situ hybridization), tecnica di diagnostica per immagini altamente sofisticata, ha recentemente permesso d’identificare i neuroni dei mammiferi implicati nella paura. Attraverso questo metodo Sabiha K. Barot e collaboratori dell'Università di Washington [PLoS ONE 2009; 4 (7)] hanno potuto rintracciare tutti i tipi d’attivazione nel cervello dei ratti, individuando il nucleo basolaterale dell'amigdala come centrale nelle dinamiche di codifica della paura. L’amigdala, pertanto, a forma di mandorla, situata bilateralmente negli emisferi cerebrali, è oramai riconosciuta come centro di coordinazione dei circuiti della paura e comunica con una varietà di strutture anatomiche, tra cui il talamo, fulcro dei messaggi sensoriali, e la corteccia prefrontale, organo esecutivo delle nostre funzioni.

In tema eziologico dell’ansia Nardi AE e collaboratori della Federal University di Rio de Janeiro, hanno rilevato che una dose orale di caffeina determinava maggiore sensibilità agli attacchi di panico ed alle recidive nei soggetti da loro esaminati già affetti dal disturbo o con depressione maggiore, rispetto ai normali o ai solo depressi (Compr Psychiatry. 2007 May-Jun;48(3):257-63).

SEPARAZIONE GENITORIALE ED ATTACCHI DI PANICO

Marco Battaglia e coll del Department of Neuro Sciences at San Raffaele Scientific Institute, Milano, considerando che nei bambini l’ansia, conseguente alla separazione di qualunque natura dai genitori, può essere il preavviso dei disturbi di panico in prima età adulta, essendo entrambi i disturbi associati a maggiore sensibilità all’inalazione di CO2 hanno voluto studiare il rapporto tra tali condizioni in gemelli di 712 giovani del Norwegian Institute of Public Health Twin Panel (Arch Gen Psychiatry.2009;66(1):9.). Attraverso interviste strutturate, i ricercatori hanno ottenuto un resoconto diretto della vita personale, soprattutto nei riguardi di una storia di attacchi di panico, di perdita dei genitori nell’infanzia e dei sintomi d’ansia da separazione. Quindi si è valutata la risposta soggettiva ansiogena all’inalazione di una miscela di CO2 35%/65% di O2 rispetto al placebo (miscela di aria compressa). I gemelli con attacchi di panico e con maggiore sensibilità alle emissioni di CO2, secondo anche importanti determinanti genetiche, erano, soprattutto, quelli che da piccoli avevano subito traumi da separazione dai genitori, per lutto o divorzio od anche per semplice allontanamento dalla famiglia del padre, come per esempio per l’emigrazione all’estero.

DISTURBI D’ANSIA E CARDIOPATIA

L’associazione dei disturbi d’ansia con le malattie cardiovascolari è stata recentemente valutata e vale ricordare alcuni recenti studi di interesse clinico. Annelieke M Roest e collaboratori dell’Università di Tilburg dei Paesi Bassi hanno, invece, eseguito, per la prima volta, una meta-analisi sulla associazione dell’ansia con l'incidenza della malattia coronarica, utilizzando i dati provenienti dagli Stati Uniti, Europa e Asia. Hanno in tal modo rilevato, anche dopo aggiustamento multivariato, che le persone ansiose avevano un rischio di coronaropatia maggiore di circa il 25% e un rischio di morte cardiaca quasi del 50% più alto in un periodo di follow-up medio di 11,2 anni  (J Am Coll Cardiol 2010; 56:38-46).

Imre Janszky e collaboratori del Karolinska Institute di Stoccolma in Svezia hanno, a loro volta, esaminato quasi 50.000 svedesi, chiamati al servizio militare e seguiti per una media di 37 anni ( J Am Coll Cardiol 2010; 56: 31-37 ), rilevando che l’ansia, diagnosticata da uno psichiatra, costituiva una maggiore probabilità di soffrire di cardiopatia coronarica o infarto miocardico acuto, mentre la depressione non ne era affatto fattore predittivo.
Elisabeth J. Martens e collaboratori del Dipartimento di Psicologia Medica presso l'Università di Tilburg in Olanda (Arch Gen Psychiatry.2010;67(7):750-758) hanno, infine, di recente descritto che i pazienti con malattia coronarica stabile e disturbo d'ansia generale presentavano un 74% di rischio di altri eventi cardiovascolari, come ictus, infarto miocardico e morte, nettamente maggiore rispetto a quelli con sola malattia coronarica. Tali risultati, di certo, devono condurre a riconoscere i disturbi d’ansia come un importante fattore di rischio cardiovascolare modificabile ed essere di monito al clinico di non trascurare di indagare sui sentimenti e sullo stato dell’umore dei propri pazienti nella sua pratica professionale.

ATTACCO DI PANICO E MALATTIA CORONARICA

Gli attacchi di panico, della durata variabile da 1-5 minuti fino a 10-20 o fino a quando non si intervenga con una terapia medica, sono episodi di ansia estrema, nel 36% circa dei casi associati all’agorafobia. Possono crescere e calare per un periodo di ore negli attacchi a rotazione e alcune volte essere giornalieri o settimanali tanto da divenire causa frequente di esperienze sociali negative, come imbarazzo, stigma sociale, isolamento. Sono possibili anche quadri clinici lievi con sintomi limitati e la maggior parte dei pazienti sperimenta sia gli attacchi in forma completa sia in quella lieve.

CRITERI DI DIAGNOSI DEL DISORDINE DI PANICO DAL DDM-IV

I criteri seguiti per la diagnosi del disordine di panico sono quelli emessi nel 2000 dal DDM-IV (Diagnostic and Statistical Manual of mental disorders) secondo cui sono necessari:

1) la presenza di attacchi di panico ricorrenti senza preavviso, episodi discreti di paura intensa con inizio inaspettato e che raggiunge l’apice in dieci minuti, comprendendo almeno quattro sintomi tra palpitazioni, sudorazione, tremori, dispnea, senso di soffocamento, dolore toracico, nausea, vertigine, depersonalizzazione, brividi, vampate di calore, parestesie, paura di morire, paura di perdere il controllo della coscienza,

2) almeno una conseguente e persistente preoccupazione di attacchi futuri, timore sulle conseguenze dell’attacco, cambiamento del comportamento dovuto agli stessi attacchi.

Va anche determinata per la diagnosi differenziale la presenza o meno dell’agorafobia e l’esclusione di sostanze o altre condizioni cliniche o disordine mentale.

Il disturbo di panico, grave problema di salute che in molti casi può essere trattato con successo, si manifesta generalmente in tutti i paesi del mondo in età precoce adulta, prima dei 24 anni, soprattutto dopo un’esperienza traumatica. Predilige le donne con il doppio di probabilità rispetto agli uomini e può continuare per mesi o anche anni, in rapporto alla tempestività e qualità delle cure. Se non trattato, difatti, può peggiorare fino a compromettere gravemente la qualità della vita della persona. In alcuni casi i sintomi sono frequenti per mesi o anni, per poi recedere anche per un lungo periodo, mentre in altri casi persistono allo stesso livello a tempo indeterminato e in altri ancora, soprattutto nell’insorgenza in tenera età, cessano naturalmente dopo i 50 anni. Frequente, peraltro, è il legame tra il disturbo di panico e l'abuso di sostanze come il fumo, l’alcol e i sedativi, che tendono a potenziare una reale condizione invalidante. L’interesse clinico è potenziato dal fatto che l’intensità dei sintomi porta spesso alla confusione diagnostica con una malattia fisica di minaccia di morte, come l’attacco di cuore. Questo malinteso nel paziente, con il risultato della moltiplicazione viziosa di ulteriore ansia, spesso scatena o aggrava gli attacchi futuri, portandolo continuamente a rivolgersi al pronto soccorso per test medici accurati. Peraltro, la genericità e la varietà della sintomatologia consigliano il consulto di differenti specialisti, dal medico di famiglia all’internista, al cardiologo, allo pneumologo, al gastroenterologo, all’oncologo, al neurologo, all’otorinolaringoiatra, all’endocrinologo, allo psichiatra.

SPECIALISTI CONSULTATI PER L'ATTACCO DI PANICO

William Coryell e collaboratori [Arch. Gen. Psychiatry 1982,39 (6): 701)] già nel 1982, sulla base che i fattori psico-sociali possono contribuire allo sviluppo e alla promozione delle malattie cardiovascolari, favorendo anche direttamente la patogenesi dell’arteriosclerosi con comportamenti non sani e ostacolando ulteriormente, a malattia clinica conclamata, la lotta contro gli stili di vita errati, verificavano che i tassi di mortalità nei pazienti con disturbo di panico erano superiori a quelli della popolazione generale. Nel loro studio il 20% dei decessi dei 113 ex ricoverati con disturbo di panico, seguiti per 35 anni, era avvenuto per suicidio senza, però, esclusione di una comorbilità. Gli uomini presentavano, però, il doppio del rischio di mortalità cardiovascolare, rispetto a quelli della popolazione generale.
Kate Walters e coll. dell’University College di Londra, sulle premesse che la complessità del rapporto cuore/mente era tema di discussione sempre più pressante e che la maggior parte dell’interesse di tale correlazione si era concentrata sul binomio depressione e coronaropatia, con poco rilievo sui disturbi d'ansia e ancor meno, perché anche poco noto, sul ruolo dei disordini di panico, hanno dimostrato un significativo nesso di causalità tra attacchi di panico e coronaropatia in tutte le età, con aumento dell’infarto miocardico acuto solo prima dei 50 anni, soprattutto nelle donne (Eur Heart J. 2008;29:2981-2988). Va considerato, però, che il gruppo dei malati studiati presentava storia di maggiore dedizione al fumo, depressione e ansia, forte assunzione di alcol, uso di numerose prescrizioni, incidenti cerebrovascolari pregressi, ipertensione, alti livelli di colesterolo e obesità.

LO STUDIO MIMS

Su tale ordine di ricerca il MIMS (Myocardial Ischemia and Migraine Study), studio multicentrico, prospettico in 10 dei 40 centri che hanno partecipato al Women's Health Initiative Observational Study, estesa indagine sui fattori di rischio per le malattie cardiache, cancro, fratture e altre cause di morbilità e mortalità in 93.676 donne in postmenopausa dai 51 agli 83 anni, ha arruolato 3.369 partecipanti confrontandole con 2.640 controlli tra il 1997 e il 2000 (Arch Gen Psychiatry 2007;64:1153–1160). Il 10% delle donne ha riferito veri attacchi di panico, al di là dell’1% o 2% degli studi precedenti, segnando a 6 mesi un incremento di 4 volte della coronaropatia e dell'endpoint combinato di coronaropatia e ictus. Anche dopo l'esclusione dei casi con storia di eventi cardiovascolari e cerebrovascolari, si manteneva ancora associato con gli attacchi di panico l’aumento del rischio per tutte le cause di mortalità.

Lo studio, non riconosceva, però, l’effetto diretto dell’ansia sul sistema cardiovascolare o se gli attacchi di panico potessero esercitare un ruolo favorente su qualche altro fattore di rischio noto, anche se controllato. È possibile, comunque, che, sovrapponendosi i sintomi degli attacchi di panico con quelli delle malattie cardiovascolari e polmonari, essi possano rappresentare un epifenomeno sintomatologico di una malattia di base, non riconosciuta.
Il dolore toracico, spesso frequente nel disturbo di panico, è comune e variabile nella sua forma e intensità. È descritto nel 7 - 24% dei pazienti della pratica clinica delle cure primarie e portato all’osservazione dei cardiologi ed eventualmente dei gastroenterologi nel 4,8% circa dei casi. Esso rappresenta una preoccupante emergenza che fa consumare anche molte risorse, non sempre giustificabili. Difatti, l’83% dei pazienti è sottoposto a test diagnostici che solo nel 6% individuano una diagnosi di malattia organica. L’intensità del dolore è correlata con una ridotta soddisfazione e qualità di vita, nei casi di vita in comunità, mentre alla percezione di cattive condizioni di salute nei degenti nel reparto di emergenza. Nei riguardi di persone dai 20 agli 80 anni la letteratura, incentrata sulle conseguenze del dolore toracico e sul suo rapporto con i disturbi d'ansia, è ampia. Esso è, difatti, incluso nei suoi criteri di definizione e la sua esatta e pronta diagnosi differenziale è fondamentale per evitare gravi complicazioni.

Aikens JE e collaboratori hanno, a tale proposito, ribadito che i medici delle cure primarie devono essere in grado di distinguere il panico dalla malattia cardiaca (Int J Psychiatry 1998;28:179-88). Pur tuttavia, uno studio di Fleet RP e collaboratori (Ann Behav Med 1997;19:124-31) ha rilevato che il 26% dei disturbi di panico osservati al pronto soccorso non otteneva la corretta diagnosi di natura del dolore toracico. Peraltro, circa il 60% dei pazienti con dolore toracico e recente intenzione suicida dimostravano al pronto soccorso di avere un disturbo di panico.

CORRELAZIONE TRA DISTURBO DI PANICO E DOLORE TORACICO

David Katerndahl e collaboratori dell’University of Texas Health Science Center a San Antonio, hanno compiuto una revisione sistematica delle correlazioni tra panico e malattia coronarica nei pazienti con dolore toracico, in modo da identificarne le caratteristiche, definirne la forza di associazione e, quindi, confermare il panico tra i fattori di rischio cardiovascolare [The Journal of the American Board of Family Practice 17:114-126 (2004)]. In particolare, il disturbo di panico era frequentemente riportato nei casi di dolore toracico atipico o angina atipica, pur non mancandone le segnalazioni in caso di angina tipica (dal 4% al 65%). Peraltro, risultava che il 10% dei pazienti con dolore toracico ischemico aveva panico, solo il 64% dei cardiopatici dolore toracico e che il dolore toracico atipico si riscontrava nella coronaropatia e solo il 79% dei coronaropatici aveva l’angina. Inoltre, Il dolore toracico acuto di tipo anginoso al pronto soccorso risultava più comune nei pazienti con entrambi il panico e l’ischemia acuta.

La revisione degli AA. ha mancato di documentare, però, un'associazione tra panico e malattia coronarica, pur dimostrando la maggiore prevalenza del disturbo, in rapporto alla minore selettività del campione dei pazienti con coronaropatia.

Nonostante la piccolezza e la disomogeneità, allo stato attuale, delle osservazioni longitudinali, dirette a definire quantitativamente il rapporto tra disturbi di panico e fattori di rischio cardiovascolare, si può riassumere, comunque, che l’evidenza dell’associazione non è forte. Peraltro, nel disturbo di panico sono stati riscontrati diversi noti fattori di rischio cardiaco. Difatti, contro isolate segnalazioni di assenza di correlazione con l'ipertensione, il diabete, l'obesità, l’iperdislipidemia, la BMI, la maggior parte delle ricerche ha chiaramente collegato il panico ai fattori di rischio cardiaco e non solo le persone con disturbo di panico dichiarano spesso una storia familiare di coronaropatia ma in esse è aumentato anche il numero totale dei fattori di rischio stessi. In particolare il 19% dei pazienti con disturbo di panico riferisce di aver aumentato il fumo a causa del panico e il 72% di fumare da quando sono iniziati gli attacchi, mentre il 55% e il 26% di aver smesso, quando essi sono diminuiti. Qualunque siano i dati a disposizione attuali, si è portati, però, a riflettere sulle possibili gravi conseguenze che possono verificarsi se si omette di considerare il ruolo delle associazioni descritte.

Mark Hamer e collaboratori dell’University College di Londra per confermare il valore del trattamento delle malattie psichiche nella strategia di cura del cardiopatico, sulla base del consenso che i fattori psicosociali sono frequentemente implicati nelle malattie del cuore (Pathophysiological and Behavioral Mechanisms J Am Coll Cardiol, 2008; 52:2156-2162), utilizzando i dati dello SHS (Scottish Health Survey) hanno misurato per una media di 7,2 anni le difficoltà psicologiche, i comportamenti e i fattori di rischio in 6.576 uomini e donne dai 30 anni e oltre. I dati hanno dimostrato che i fattori comportamentali, come il fumo, l’attività fisica e l’abuso di alcol, rappresentavano per il 65% il rapporto tra stress psicologico e rischio di malattia cardiovascolare, mentre l’ipertensione e la PCR per il 19%. Inoltre, i pazienti stressati erano più propensi a fumare, più suscettibili a essere sedentari e meno propensi all’esercizio fisico. A tal proposito, era anche ben documentato, ma non chiarito, il rapporto tra panico e prolasso della valvola mitrale.

Roland von Känel dell’University Hospital di Berna, in un commento editoriale (Am Coll Cardiol, 2008; 52:2163-2165) al lavoro di  Mark Hamer, rammentando che già nel 1628 William Harvey aveva osservato che "ogni affezione della mente che si accompagna sia a dolore o a piacere, a speranza o paura, è causa di agitazione la cui influenza si estende fino al cuore", considerando che le malattie cardiovascolari sono la principale causa di morte in tutto il mondo, valutando la notevole quantità di questo rischio attribuibile alle pressioni psicologiche, ha ribadito la necessità di studi d’intervento psicosociale finalizzati alla modifica dello stress psicologico.
Difatti, i risultati dello studio di Hamer rappresentano un utile sprone per i clinici a considerare gli interventi comportamentali e a indirizzare i percorsi di collegamento intermedio tra il disagio psicologico e la manifestazione della malattia cardiovascolare. In particolare, gli interventi di targeting comportamentale per smettere di fumare e di aumentare l'attività fisica, oltre che per abbassare la pressione sanguigna e ridurre la tensione psicologica con tecniche di rilassamento, devono essere meglio distribuiti in combinazione con la psicoterapia e la psicofarmacologica, direttamente intesi a mitigare lo stress psicologico. Per concludere , gli studi clinici randomizzati devono testare l'ipotesi che tali programmi multimodali di trattamento non solo devono mostrare il vantaggio sulla qualità della vita ma anche sulla riduzione delle malattie cardiovascolari e della morbilità e mortalità consequenziali.

CONSEGUENZE METABOLICHE DEL POST TRAUMATIC STRESS DISORDER (PTSD) CRONICO

Diverse ricerche hanno indicato che lo stress e le risposte post adattamento hanno, a lungo termine, conseguenze negative sulla salute. Studi sui superstiti di catastrofi, sui veterani prigionieri di guerra e su altri individui esposti a gravi traumi hanno rivelato tassi aumentati di morbilità e mortalità, con maggiore richiesta di risorse sanitarie.
Studi epidemiologici hanno dimostrato che il PTSD cronico può favorire effetti secondari negativi sulla salute, di tipo cardiovascolare, metabolico ed autoimmune che Chrousos GP e coll. hanno posto in connessione con le risposte di cattivo adattamento neuro-endocrino-immunitario (Ann N Y Acad Sci 1998, 851:311-335). Recenti ricerche si sono concentrate sulla sindrome metabolica, come possibile conseguenza dell’adattamento fisiopatologico allo stress cronico. Brunner EJ e coll. hanno trovato, peraltro, una maggiore attivazione dei marcatori neuroendocrini e autonomici correlati allo stress, come un abbassamento della variabilità della frequenza cardiaca, una maggiore produzione di cortisolo ed alti livelli di IL-6, proteina C-reattiva e viscosità del sangue nei casi con sindrome metabolica, rispetto ai controlli (Circulation 2002, 106:2659-2665).
Chandola T. e coll., più recentemente, hanno suggerito una relazione dose- risposta tra lo stress e la presenza di sindrome metabolica, in modo che coloro che sono esposti cronicamente allo stress di lavoro avrebbero il doppio delle probabilità di avere la sindrome, dopo aggiustamento per età, sesso e i comportamenti di stile di vita (BMJ 2006, 332:521-525).
Blanchard MS e coll., nel loro studio di 2189 veterani della I^ guerra del Golfo, hanno rilevato una più alta e significativa prevalenza di sindrome metabolica in quelli con malattie croniche multi sintomatologiche, come faticabilità ed astenia, dolore muscolo scheletrico, disturbi cognitivi od anomalie del comportamento della durata di almeno 6 mesi (Am J Epidemiol 2006, 163:66-75).
Violanti JM e coll. hanno segnalato la probabilità di sindrome metabolica tre volte maggiore nei funzionari di polizia con gravi sintomi di PTSD, rispetto a quelli con più bassa gravità della sindrome (Int J Emerg Ment Health 2006, 8:227-237).
Babic D e coll. hanno trovato che il 31-35% dei campioni di lotta con PTSD presentavano concomitante sindrome metabolica (Psychiatr Danub 2007, 19:68-75).
Heppner Pia S e coll. dell’University of California, San Diego, sulla base del cumulo di prove di un collegamento tra l'esposizione al PTSD (post traumatic stress disorder) e la diminuzione dello stato di salute, hanno esaminato un campione di 253 anziani, 92% maschi, 76%, caucasici, di età media di 52 anni, nel 71% in pensione dell’US Army, nel 70% veterani del Vietnam, con l’obiettivo di valutare l'associazione tra la gravità del PTSD e la presenza di sindrome metabolica (BMC Medicine 2009,7:1).

I dati della ricerca hanno rilevato che 139, oltre la metà di questi veterani, equivalente al 55%, presentava una moderata, grave PTSD e 163 di essi, il 64%, ha incontrato i criteri per disturbo depressivo maggiore (MDD). 101dei veterani, circa il 40%, rientrava nei criteri della sindrome metabolica, risultata più prevalente nel solo PTSD (34,3%) rispetto al solo MDD (28,8%) ma ancora di più nel PTSD ed MDD insieme (46,2%). 

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NOTIZIARIO Giugno 2010 N°6

A cura di Giuseppe Di Lascio

 

Con la collaborazione di:

Bagalino Alessia, Bauzulli Doriana, Di Lascio Alessandro, Di Lascio Susanna, Levi Della Vida Andrea, Melilli Simonetta, Pallotta Pasqualino, Sesana Giovanna, Stazzi Claudio, Zimmatore Elena

SONNO E SALUTE

II° parte: il sonno normale

Susanna Di Lascio
Psicologa
swanyba@gmail.com

L'OROLOGIO BIOLOGICO E L'OMEOSTASI SONNO-VEGLIA

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utti gli esseri viventi e il mondo naturale nel suo complesso rispondono a particolari ritmi di attività-riposo. I ritmi del nostro organismo sono processi biologici che mostrano variazioni cicliche nel tempo, da ore ad anni, e riflettono, insieme alle piante e tutti gli animali, l'influenza della rotazione della terra. I ritmi circadiani (dal latino circa e diem) si svolgono con ritmo di 24 ore e dimostrano negli esseri umani una serie di modifiche, tra cui la veglia/sonno, il respiro, il metabolismo, l‟attività del cuore, la temperatura. Gli ultradiani sono presenti più volte in un giorno, come ad esempio le fasi del sonno. Gli infradiani richiedono più di un giorno, come, per esempio, il ciclo mestruale, i ritmi stagionali. I circannuali si verificano annualmente, come il letargo di alcuni animali o la migrazione degli uccelli. I ritmi circadiani dell‟uomo possono essere a periodi leggermente più corti e più lunghi rispetto al ciclo delle ventiquattro ore della terra. Il geologo francese Michael Siffre, sopravvissuto da solo per 205 giorni in una caverna del Texas, sino ad ora il periodo più lungo d‟isolamento ininterrotto, dopo quasi sei mesi di tale confinamento senza sole o luna, orologi e calendari, trovò che, mentre la lunghezza dei suoi periodi di veglia variava ampiamente, da sei a 40 ore, il modello delle sue giornate tendeva a essere poco superiore alle 24 ore. In via collaterale, nel numero di marzo 1975 della rivista National Geographic, Siffre riportò che il buio e l'isolamento della grotta, alla fine, tendevano a spingerlo verso la disperazione e il suicidio. Da questa esperienza si è concluso che il nostro orologio interno deve mantenere un ciclo di 25 ore e che il nostro zeitgeber è necessario per reimpostare l'orologio per la nostra solita giornata di 24 ore.

Peraltro, ricercatori di Harvard hanno recentemente dimostrato che nell‟uomo si possono avere cicli di almeno 23,5 ore il giorno ma anche di 24,65 ore, che è il naturale ciclo giorno-notte solare sul pianeta Marte. Il nucleo soprachiasmatico (NSC), difatti, imposta nell‟uomo l'orologio biologico a circa 24,2 ore e il tratto retino-ipotalamico permette alla luce di influenzarlo direttamente. La luce è chiamata, come già riportato, con una parola tedesca, “zeitgeber”, che significa che dà il tempo, poiché assesta l'orologio soprachiasmatico. Il nadir del ritmo è al primo mattino e il rallentamento nel ritmo circadiano prima del nadir servirebbe di aiuto al cervello per rimanere addormentati durante la notte, sino al restauro completo, evitando il risveglio prematuro. La ripresa il mattino facilita il risveglio e agisce, poi, lungo tutta la giornata, come contrappeso allo scarico progressivo di riattivazione dell'attività neuronale. In prima serata, dopo l‟apice circadiano, la fase di discesa aiuta l‟iniziazione del sonno. Questo modello spiega come la funzione cognitiva rimane relativamente costante per tutto lo stato di veglia. In definitiva, quindi, il tempismo del sonno è controllato dall'orologio circadiano, dall'omeostasi del sonno-veglia e nell'uomo, entro certi limiti, dal comportamento deliberato. Quando si è svegli, si è consapevoli e s‟interagisce con l‟ambiente, quando si dorme, invece, in gran parte, non si è pronti alla risposta. Ci sono molte differenze tra il cervello di veglia e quello del sonno ma la più importante risiede nella corteccia cerebrale. Difatti, essa, durante la veglia, si attiva e il modello di attività riflette la panoplia di continue interazioni ambientali. L‟esser desto può essere visto come un contesto di attività corticali su cui s‟integrano vari comportamenti adattativi, quali percezione, pianificazione, problem solving, memoria e coordinazione dei movimenti. Il sonno comprende due stati corticali differenti l'uno dall'altro, quello del sonno REM e quello del NREM (a onde lente).

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Da svegli, la corteccia si attiva sia con input sensoriali sia con output motori, che si disattivano, riducendosi notevolmente, nel sonno non-REM tramite la generazione di attività oscillatorie talamocorticali. Il sonno NREM è uno stato di riposo durante il quale l‟attività elettroencefalografica (EEG) mostra onde più alte e lente, rispetto alla veglia, riducendosi corrispondentemente sia il flusso sanguigno corticale sia l'uso di energia. Durante il sonno REM, invece, la corteccia si attiva, l'attività elettroencefalografica diventa quasi identica a quella della veglia ma gli input sensoriali e gli output motori dalla corteccia vengono inibiti. Il flusso sanguigno corticale e il dispendio energetico sono, però, simili a quelli da sveglio. Inoltre, il "comportamento" del sonno REM è quello della fabbrica dei sogni, anche quelli più complessi.

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Da sveglio la corteccia è mantenuta in uno stato attivo da influenze ascendenti eccitatorie, prevalentemente dell'ipotalamo posteriore, proencefalo basale, talamo aspecifico e nuclei monoaminergici del tronco cerebrale, tutte che ricevono gli input del risveglio dall‟attivazione del sistema reticolare ascendente della formazione reticolare pontina e mesencefalica. Le lesioni del ponte rostrale o del core mesencefalico reticolare risultano, con sequenzialmente, in una perdita prolungata di veglia e di comportamento cosciente, anche quando la corteccia sensoriale e lo input dai sistemi visivi e olfattivi sono intatti. Lo stesso vale se le lesioni interessano l'ipotalamo posteriore, le quali, sia negli animali sia nell‟uomo, producono uno stato prolungato di aresponsività. La formazione reticolare, com‟è noto, è filogeneticamente antica e comprende nuclei che ricevono input dai sistemi sensoriali, sia esterni sia interni. Questi nuclei comunicano rostralmente, in un modello di sovrapposizione, con l'ipotalamo, il talamo, il proencefalo basale e la corteccia cerebrale.

Le vie, coinvolte nel mantenimento dello stato di veglia, sono prevalentemente eccitatorie. Le vie ascendenti dell‟eccitazione cerebrale comprendono i neuroni del glutammato della formazione reticolare, i noradrenalinici del locus coeruleus, i serotoninergici del rafe mesencefalico, i colinergici acetilcolinici dei nuclei pontini e i dopaminergici della complessa area della sostanza tegmentale nigra-ventrale. Tutti questi gruppi neuronali proiettano l‟eccitazione alle aree del prosencefalo basale e del diencefalo, mentre quelli monoaminici del tronco cerebrale, del locus coeruleus, del rafe mesencefalico e dell‟area tegmentale della sostanza nigra ventrale, la proiettano direttamente al proencefalo limbico e alla corteccia cerebrale. La principale via del prosencefalo basale è costituita dai neuroni colinergici del nucleo basale, che proiettano l‟eccitazione sull‟intera corteccia. Anche i neuroni di glutammato dei nuclei intralaminari della linea mediana-talamica partecipano al risveglio e al mantenimento del comportamento di veglia. Un gruppo importante di queste proiezioni, dirette dall‟ipotalamo alla corteccia cerebrale, individuati da Saper C.B. nel nucleo tuberomammillare, produce l'istamina (Prog Brain Res. 2000;126:39-48). In via collaterale, il gruppo di Abrahamson E.E. ha scoperto un insieme interessante di neuroni dell'ipotalamo posteriore che partecipano, anch‟essi, ai meccanismi di eccitazione (Neuroreport. 2001;12:435-440) nella zona adiacente perifornicale e posteriore dell'ipotalamo. Essi producono glutammato e ipocretina, proiettando l‟eccitazione sia alle aree corticali sia a quelle sottocorticali con un ruolo importante nella regolazione comportamentale. A riprova dell‟importanza di questi gruppi diencefalici nell‟eccitazione e nel mantenimento dello stato di veglia, si deve riportare che la degenerazione patologica dei neuroni dell'ipotalamo posteriore ipocretinici e delle loro proiezioni determina la narcolessia. Il comportamento tipico dell‟uomo è di svegliarsi la mattina, dopo circa otto ore di sonno, e di rimanere attivo per circa 16 ore, secondo una ripetizione periodica di un ritmo biologico di 24 ore, per l‟appunto circadiano, generato da un orologio intrinseco con un meccanismo molecolare unico, regolato geneticamente. Come già precisato, anche se è provato che il sonno è un comportamento necessario, la sua funzione non è ancora chiaramente delucidata, pur essendo convinti che, almeno in parte, costituisca un processo di riparazione. Nello stato di veglia per tutta la giornata, si avverte una propensione crescente a dormire, che si esprime come stanchezza o sonnolenza, condizioni che rappresentano la conseguenza della pulsione del sonno omeostatico. Quest‟ultimo si contrappone all‟impulso circadiano di veglia e inizia a comporsi la mattina, con il tempo del risveglio, per continuare a crescere per tutta la giornata, venendo contrastato dall‟output in aumento del pacemaker circadiano, il nucleo soprachiasmatico (SCN) dell'ipotalamo, che promuove l'eccitazione. Mentre l‟unità omeostatica cresce nella tarda giornata, la produzione dello SCN aumenta e mantiene, così, lo stato di veglia, ma, avvicinandosi il tempo del sonno, si riduce l‟output circadiano, permettendo all‟impulso omeostatico di indurre l'insorgenza del sonno.

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Dati recenti indicano che l'accumulo di adenosina regionale rappresenta un elemento importante di questo processo non rimanendo chiara la funzione del sistema circadiano nell‟interazione con la scia di promozione dei percorsi di eccitazione.

Per decenni si sono misurati e registrarti i potenziali elettrici del cervello, come elettroencefalogrammi o EEG, e si sono identificate le onde alfa, beta, delta e theta. Sono state, così, definite variazioni diverse in tempi differenti in base all'apertura o alla chiusura degli occhi, alla veglia del soggetto, al suo stato di meditazione o di sopore. Però, ancora è scarsa l'informazione ricavata da tutto questo, potendosi, allo stato attuale delle conoscenze, affermare soltanto che il sonno è uno stato d‟incoscienza in cui il cervello è relativamente più sensibile agli stimoli interni, piuttosto che alle sollecitazioni esterne. E proprio il ciclo prevedibile del sonno e l'inversione della relativa insensibilità esterna sono le caratteristiche che aiutano a distinguere il sonno dagli altri stati d‟incoscienza. Il cervello diventa sempre meno sensibile agli stimoli ambientali visivi, uditivi e di altro tipo, percorrendo la transizione dalla veglia al sonno, considerata da alcuni la fase I^ del sonno stesso. Correntemente, però, ci si è distaccati dalla concezione storica che interpretava il sonno come uno stato passivo, avviato dal distacco dagli input sensoriali. Oggi, invece, esso è considerato come l‟attenuazione della consapevolezza sensoriale, ritenuta un fattore del dormire, poiché apre un meccanismo attivo di facilitazione del riconoscimento di tale distacco. Entrambi i fattori, l‟omeostatico, (fattore S) e quello circadiano, orologio biologico o pacemaker circadiano (fattore C), interagiscono nel determinismo della tempistica e della qualità e struttura del sonno e della veglia. Questo modello dei due processi è applicabile non solo per il ciclo sonno-veglia ma anche per la comprensione del pattern temporale di quasi ogni funzione neuroendocrina, fisiologica e psicologica. Il modello, inoltre, si è rivelato molto utile per comprendere una varietà di disturbi del sonno e può essere usato per interpretare apparenti anomalie ritmiche nella depressione, oltre a fornire un quadro per il suo trattamento terapeutico specifico.

L'orologio biologico interno ci aiuta a scandire il tempo sul nostro rotante pianeta con il vantaggio di regolare il sonno e la veglia nelle fasi appropriate per le funzioni e il comportamento che possono anticipare le transizioni tra giorno e notte e non semplicemente reagire a essi. Un orologio circadiano non solo genera un ciclo corrispondente al giorno solare ma si deve anche mantenere in un rapporto adeguato di fase con esso. Questo processo di sincronizzazione ottimale con l‟ambiente è chiamato trascinamento, ed è mediato da stimoli periodici, gli "zeitgebers" (luce, esercizio fisico, sonno, suono, pillole di melatonina), che agiscono sull‟orologio stesso. Il periodo endogeno del pacemaker circadiano in condizioni di tempo libero, come in una grotta o in un bunker, è noto come “τ” e la relazione fasica tra ritmo e zeitgeber stabile nel corso di trascinamento è definita come “ψ” (ad esempio la differenza tra la fase di un dato ritmo circadiano, come l‟insorgenza del sonno, e la fase di uno zeitgeber, come crepuscolo o alba). Le differenze individuali nel “τ” possono portare a diverse “ψ”. L'esempio più noto è quello delle persone con breve “τ” che rappresentano il cronotipo della “allodola”, mentre quelle con lunghi “τ” lo sono della "civetta".
Till Roenneberg e collaboratori dell‟University of Munich-Germany hanno svolto un‟indagine europea sulle abitudini del dormire di 25.000 abitanti dagli otto ai novant‟anni d‟età, (CurrBiol 2004;14:1038).
I ricercatori hanno calcolato la media dei mid-point di sonno dei giorni senza obbligo di lavoro di ogni persona, in altre parole, il tempo a metà strada tra il momento in cui andavano a dormire e quando si svegliavano.

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Tracciati i mid-point contro l'età di ognuno, hanno rilevato che i bambini tendono a dormire sempre più tardi con l‟avanzare dell‟età fino ai 20 anni circa quando si verificava un brusco spostamento delle abitudini di sonno, tanto da suggerire tale dato come marker di passaggio all‟adolescenza. Il viraggio delle abitudini del sonno rifletteva anche la tendenza generale delle femmine che sviluppano prima rispetto ai maschi. Difatti, le ragazze dello studio segnavano questo dato all‟età di 19,5 anni, mentre i ragazzi lo raggiungevano più tardi fino ai 20,9 anni. Si concorda, difatti, che la pubertà finisce quando si ferma la crescita delle ossa a circa 16 anni nelle femmine e a 17,5 nei maschi, mentre la fine dell'adolescenza riveste un concetto molto meno definito, facendo parte della fisiologia e psicologia sociale. Il sonno, di poi, anticipava sempre più sino a stabilizzarsi e non mostrare differenze di genere intorno ai cinquanta anni. Gli AA. definivano, così, il cronotipo secondo le famose due immagini della civetta che va a dormire tardi e si alza tardi e dell‟allodola che va a dormire presto e si alza presto. Il tipo intermedio, per così dire borghese, chiamato da alcuni anche colibrì, rappresenta la maggioranza delle persone ed ha le tendenze sia dell‟allodola sia della civetta. Tuttavia, qualunque siano le abitudini nel dormire, poiché esseri umani, siamo programmati per funzionare al meglio durante il giorno. Il nostro corpo non è progettato per essere attivo durante la notte. Non abbiamo, ad esempio, la visione notturna e decisamente le ore notturne per noi sono sempre tempi morti. Tamm S. e collaboratori dell‟University of Alberta in un loro studio su diciotto persone, a metà mattinieri e nottambuli, hanno dimostrato che i primi si sentivano particolarmente vitali durante la mattinata, raggiungendo l‟acme di attività neurale intorno alle 9.00 della mattina. Registravano, di poi, una diminuzione brusca con un sistema nervoso meno reattivo agli stimoli e con i muscoli privi di gran parte del loro vigore. Nei secondi, invece, il cervello sembrava divenire sempre più vivace nel corso della giornata, raggiungendo l‟acme di attività alle 21.00 circa, in cui i muscoli risultavano più forti e più pronti a reagire agli stimoli (Journal of Biological Rhythms 2009; 24(3):211-24).

Tuttavia, non è il “τ” l‟unico fattore che influenza la fase, ma sono determinanti anche la sensibilità alla luce, o intensità dello zeitgeber, quando e per quanto tempo una persona è esposta a una determinata lunghezza d‟onda e intensità di luce, e l'ampiezza del pacemaker circadiano. Lo zeitgeber più importante, difatti, è la luce che fornisce il segnale fotico per giorno e notte ed anche per le stagioni. L'orologio circadiano master, come detto, è sito nello SCN (suprachiasmatic nuclei) ed è costituito da due sistemi oscillatori accoppiati che rispondono all'alba e al crepuscolo. Il cambiamento del fotoperiodo con le stagioni è mimato in molte specie dalle variazioni della durata dell'attività e di riposo (α:ρ).

In particolare, tre sono le fasi principali importanti per la funzione dell‟orologio biologico:

  1. l'ingresso (zeitgebers, retina),
  2. lo SCN (pacemaker circadiano) con i geni dell‟orologio e i neurotrasmettitori/peptidi,
  3. i risultati di uscita con la sintesi pineale della melatonina, la termoregolazione, ecc.

Questi fattori, quindi, interagiscono con l‟omeostato sonno-veglia per regolamentare, sempre in tempo, la propensione e l'architettura del sonno stesso, ma anche fenomeni diversi come l'umore e la sintesi e la produzione di ormoni.

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Come detto, il sonno e la veglia costituiscono un tipico esempio di attività biologica con periodiche variazioni circadiane, come la temperatura corporea, la pressione arteriosa, la frequenza cardiaca, le increzioni ormonali ed altre variabili, che vanno incontro a ritmiche modificazioni nel corso delle 24 ore. Queste fluttuazioni periodiche, che dipendono da strutture nervose differenti, cioè dai cosiddetti oscillatori interni, vengono abitualmente sincronizzati su ritmi di ventiquattro ore. Tra i fattori ambientali che li influenzano, assumono, di poi, un ruolo determinante il contatto sociale e il ciclo giorno-notte. Il completo isolamento, che è in grado di eliminare l'azione dei sincronizzatori ambientali, porta gli oscillatori interni ad assumere ritmi diversi da quello delle ventiquattro ore e l'uomo, così detto free-running, tende a sincronizzarsi in modo preferenziale sul ritmo di venticinque ore, potendo anche desincronizzarsi. In tal modo, alcune sindromi cliniche, determinate da fattori esterni, possono essere comprese nei disturbi del ritmo sonno-veglia. Esse sono, ad esempio, il rapido cambiamento del fuso orario a seguito di voli trans meridiani e i turni di lavoro notturno a rotazione ed altre condizioni che sembrano, invece, avere una componente endogena, come quella del periodo di sonno ritardato e quella da ritmo sonno-veglia non di 24 ore. In tutti questi casi, indipendentemente dalle loro cause, si realizza uno sfasamento del ritmo sonno-veglia rispetto agli abituali sincronizzatori ambientali. L‟interessato non prende sonno quando lo desidera, quando ha necessità o si aspetterebbe di farlo, con peggioramento progressivo in ragione della cronicità del dato.

ARCHITETTURA DEL SONNO NORMALE

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Il sonno normale comprende la fase NREM (movimento oculare non-rapido) e quella REM (movimenti oculari rapidi). L‟American Academy of Sleep Medicine suddivide ulteriormente la prima NREM in stadi progressivamente più profondi: N1, N2 e N3 (SWS deep or delta-wave sleep).

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Man mano che progrediscono le fasi NREM, diventano necessari stimoli sempre più forti per determinare il risveglio. Lo stadio R del sonno (sonno REM), ha una componente tonica e una fasica, sotto l‟influsso del simpatico, ed è caratterizzata da movimenti rapidi degli occhi, spasmi muscolari e variabilità respiratoria.

La fase tonica REM è, invece, sotto l‟influenza del parasimpatico e si realizza senza movimenti oculari. La durata del periodo REM e la densità dei movimenti oculari aumentano durante il ciclo del sonno. Il sonno NREM inizia, di solito, nelle fasi più leggere N1 e N2 per approfondirsi progressivamente con il rallentamento delle onde delta, che aumentano di voltaggio. La fase N3, a onde lente, si presenta quando le onde delta superano il 20% all‟EEG. Il sonno REM segue al NREM e si verifica 4-5 volte nel corso di un normale periodo di sonno di otto ore. Il primo periodo REM può risultare inferiore ai dieci minuti, mentre l'ultimo può superare i sessanta. I cicli NREM-REM variano inizialmente dai 70-100 minuti, per poi arrivare, più tardi nella notte, ai 90-120. In genere, il sonno N3 è maggiormente presente nel primo terzo della notte, mentre quello REM predomina nell'ultimo terzo. Tale dato può tornare utile in clinica, dacché le parasonnie NREM, quali il sonnambulismo, si verificano, in genere, nel primo terzo della notte in concomitanza del sonno N3. Ciò contrasta con i RBD (disturbi del comportamento del sonno REM), che, in genere, si verificano nella seconda metà della notte.

Il VLPO (nucleo ventrolaterale preottico) dell'ipotalamo anteriore è riconosciuto quale "interruttore" biologico del sonno. Quest‟area si attiva durante il sonno e utilizza per il suo avvio i neurotrasmettitori inibitori GABA e la galanina, inibendo le regioni dell'eccitazione del cervello.

Il VLPO innerva e può inibire le regioni di promozione del risveglio del cervello, tra cui il nucleo tubero-mammillare, l'ipotalamo laterale, il locus coeruleus, il rafe dorsale, il nucleo laterodorsale tegmentale e il nucleo tegmentale pedunculo-pontino. Nell'ipotalamo laterale i neuroni d‟ipocretina (oressina) aiutano a stabilizzare questa condizione e, quando si perdono, ne può risultare la narcolessia. L'inibizione della regione tubero-infundibulare rappresenta un passo fondamentale per lo addormentarsi perché comporta la disconnessione funzionale tra il tronco cerebrale e il talamo e la corteccia più rostrale. Lo stato NREM è una funzione attiva che viene mantenuta anche attraverso le oscillazioni tra il talamo e la corteccia, intrecciandosi, così, un intricato complesso d‟interazioni e funzioni neuronali con interessamento, a vario titolo, di neuroni mediatori mono-adrenergici, serotoninergici e colinergici, che danno origine a tre sistemi di oscillazioni principali, fondentisi nel sonno e che hanno aperto il campo a diverse teorie interpretative di funzione dei vari centri cerebrali. I così detti “neuroni REM-on” inducono il sonno REM e sono quelli colinergici del mesencefao e ponte. Quelli dei nuclei PPT (pedunculo-pontino tegmentale) e LDT (tegmentale laterale dorsale) utilizzano l‟acetilcolina per attivare, tramite il talamo, la disincronia corticale, la quale, descritta anche come tensione a bassa frequenza mista, risulta il segno distintivo elettroencefalografico del sonno REM. Una caratteristica supplementare EEG del sonno REM sono le onde a dente di sega. I così detti "neuroni REM-off", inattivi durante il sonno REM, sono quelli mono-adrenergici del locus coeruleus e nel rafe mediano e utilizzano la noradrenalina, la serotonina, l‟istamina per inibire le cellule colinergiche REM-on e interrompere il sonno REM. Da notare, a tale proposito, che alcuni farmaci, come gli antidepressivi, aumentando la quantità di noradrenalina o serotonina, possono causare una soppressione farmacologica del sonno REM. Il sonno REM (fase R), come detto, è caratterizzato da atonia muscolare, attivazione corticale, desincronizzazione a basso voltaggio del segnale EEG e da rapidi movimenti oculari. Esso ha una componente tonica parasimpatica e una fasica simpatica, che caratterizza le contrazioni dei muscoli scheletrici, l‟aumento della variabilità della frequenza cardiaca, la dilatazione delle pupille e l‟aumento della frequenza respiratoria. Pur tuttavia, l‟atonia muscolare è presente in tutto il sonno REM, ad eccezione degli spasmi muscolari della componente fasica. La PET (tomografia a emissione di positroni di ossigeno) ha confermato che durante il sonno non-REM il flusso di sangue in tutto l‟encefalo diminuisce progressivamente e, di conseguenza, anche la sua richiesta metabolica. Pur tuttavia, nel sonno REM il flusso di sangue aumenta nel talamo, nei centri visivi primari e nella corteccia motrice e sensoriale, pur rimanendo relativamente ridotto nelle regioni associative prefrontali e parietali. L'aumento del flusso di sangue alle regioni visive primarie della corteccia può spiegare la natura viva del sogno REM, mentre la continua diminuzione del flusso di sangue alla corteccia prefrontale inferiore può spiegare l'accettazione acritica del sogno, anche a più bizzarro contenuto. I movimenti oculari REM sono, peraltro, simili a quelli di una persona che esegue la scansione di un'immagine visiva. Gli incubi, invece, possono verificarsi durante la fase quattro della SWS.

I PROCESSI CIRCADIANI NEL CONTROLLO SONNO - VEGLIA

Il livello di vigilanza si basa, come detto, su due componenti fisiologiche: una spinta innata omeostatica al sonno, in cui si costruisce la sonnolenza durante il giorno con picchi a destra prima di coricarsi, e l'orologio biologico che produce un ritmo circadiano in cui il sonno e la veglia si conformano al normale ciclo giornaliero di luce e oscurità, questo anche con picchi a destra prima di coricarsi (vedi figura in alto). Così, per tutto il giorno, queste due forze opposte aumentano corrispondentemente con qualche variazione, risultandone un livello normale di veglia di circa diciotto ore. Ci sono due variazioni durante il periodo di veglia: il segnale di avviso più forte alle ore 06:00 e 10:00, il momento in cui la maggior parte degli individui presenta il proprio più importante periodo di vigilanza. L‟unità omeostatica è più forte nel primo pomeriggio, consentendo di schiacciare, se necessario, un pisolino. Le due forze sono più lontane quando l'uscita di allarme del ritmo circadiano diminuisce nettamente al momento di coricarsi, con conseguente sonnolenza, che permette di addormentarsi. Come il sonno avanza, la spinta omeostatica del sonno diminuisce, così come il segnale di allarme con l'aiuto della melatonina della ghiandola pineale. Alla fine, il ritmo circadiano aumenta bruscamente l'uscita di allarme, provocando il risveglio del mattino. L'orologio circadiano con cronometraggio delle funzioni interne, delle oscillazioni della temperatura e del dispositivo di controllo enzimatico, lavorando in tandem con l‟adenosina, neurotrasmettitore inibente molti dei processi dell‟organismo associati alla veglia, si forma durante la giornata e ad alti livelli conduce alla sonnolenza. Negli animali diurni la sonnolenza si verifica quando il ritmo circadiano provoca il rilascio di melatonina, attestandosi, così, una graduale diminuzione della temperatura corporea con tempistica influenzata dal proprio cronotipo. Il ritmo circadiano determina, in effetti, il momento ideale di un periodo di sonno correttamente strutturato e di riparazione. La propensione omeostatica del sonno, definita dal bisogno di dormire, in funzione della quantità di tempo trascorso dall'ultimo episodio di sonno adeguato, deve essere bilanciata con gli elementi circadiani di sonno soddisfacente. Ciò avviene con l‟informazione all‟organismo, da parte del ritmo circadiano stesso, sulle necessità di sonno. L‟insonnia e i risvegli sono determinati principalmente dal ritmo circadiano, così che chi si sveglia regolarmente a una certa ora, di buon mattino, generalmente, non riesce a dormire molto oltre quel periodo di veglia normale, anche se ha accumulato un debito moderato di sonno.

LA FASPS E LE MUTAZIONI GENETICHE

Nel 2001 il genetista Ying-Hui Fu con i suoi collaboratori della Stanford University a Palo Alto, California ha identificato una mutazione in un gene chiamato Per2 negli individui con FASPS (familial advanced sleep-phase syndrome), che dormono normali otto ore, andando a letto prima, intorno alle sei o sette di sera, e svegliandosi alle tre o 4 del mattino. L‟Autore, di poi, avendo raccolto numerosi campioni di DNA da più di sessanta famiglie, nel 2005 ha scoperto un‟altra mutazione associata alla FASPS che sembra ledere la durata del sonno, piuttosto che il suo tempismo. La mutazione si trova nel gene DEC2, che codifica la formazione di una proteina che aiuta a spegnere l‟espressione di altri geni, inclusi alcuni che controllano il ritmo circadiano, l'orologio interno che regola il ciclo sonno-veglia. La mutazione si è documentata in appena due persone, una madre e sua figlia, che dormivano in media solo 6,25 ore, mentre il resto dei familiari dormiva per le più tipiche otto ore. Per confermare che questa mutazione accorcia davvero il periodo del sonno, i ricercatori hanno utilizzato topi ingegnerizzati, dotati della forma mutante del DEC2, dimostrando e riportando con tale scoperta su Science che gli animali dormivano circa un'ora di meno dei normali. Tali risultati, a loro detta, potrebbero portare a migliori cure per i disturbi del sonno. Di certo, la mancanza di sonno danneggia la salute e compromette le prestazioni. Il tempo totale di sonno abituale e la risposta omeostatica alla privazione sono caratteri quantitativi nell'uomo per i quali sono stati identificati loci genetici in organismi animali ma senza alcun potenziale genotipo e fenotipo umano corrispondente. Si è identificata, sino ad ora, una mutazione in un repressore trascrizionale (hDEC2-P385R), associata a un fenotipo umano di brevità del sonno. Peraltro, i profili di attività e le registrazioni del sonno dei topi transgenici, che trasportano questa mutazione, hanno mostrato un tempo di vigilanza maggiore e di sonno minore rispetto ai controlli in uno zeitgeber tempo e modo privazione del sonno-dipendente. Questi topi, in verità, rappresentano un modello di omeostasi del sonno umano che fornisce l'occasione per sondare l'effetto del sonno sulla salute fisica e mentale dell'uomo. Per quanto riguarda la temperatura corporea, sempre sotto il controllo ipotalamico, si registrano un suo aumento durante il giorno e una diminuzione durante la notte, essendo gli alti e i bassi speculari al ritmo del sonno stesso. Difatti, chi è più vigile in tarda serata presenta picchi di temperatura corporea in tarda sera, mentre chi lo è più al primo mattino li ha in prima serata.

LA MELATONINA E L'ACTIMETRIA

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a ghiandola pineale è un organo chiave per il mantenimento della regolazione endocrina del corpo (equilibrio ormonale), l'integrità del sistema immunitario e il ritmo circadiano. Sintetizza la melatonina (N-acetil-5 Metosstriptamine) dalla 5-HT assieme a molti altri neuropeptidi e funge da cronometrista del cervello, aiutando a governare il ciclo sonno-veglia. Nei pesci, uccelli, rettili, anfibi ha anche la proprietà, attraverso il rilascio dell‟ormone, di scandire i tempi biologici, i ritmi circadiani, i cambiamenti stagionali del comportamento riproduttivo, i ritmi stagionali della migrazione e l‟ibernazione. Nei mammiferi, compresi gli esseri umani, le sue proprietà sono ancora discusse e i suoi livelli circolanti rivelano i ritmi circadiani sotto il controllo dello SCN, corrispondendo i suoi livelli più elevati durante il buio, generalmente durante il sonno, tanto da esserle attribuita la funzione di indurlo. Pur tuttavia, l‟escissione della pineale, con consequenziale mancanza della melatonina, produce scarsi effetti negli uomini. Comunque, essa, con sua acme di secrezione durante la notte, è associata al controllo del ritmo circadiano e alla sincronizzazione del ciclo luce-oscurità. Con l‟inizio solito di secrezione 2-3 ore prima di coricarsi, essa resetta per feed back l'orologio biologico attraverso i suoi effetti sui recettori dello SCN e, quando assunta nel pomeriggio, può anticipare la fase dell'orologio interno rispondendo all‟obiettivo di indurre il sonno. Da ricordare che anche la prolattina, il testosterone, l‟ormone della crescita e l‟ormone corticotropo sono soggetti a questo ritmo circadiano con secrezione massima durante la notte.

La secrezione di melatonina segue, quindi, un ritmo giornaliero disciplinato dal master clock dell‟organismo e i suoi livelli, bassi durante il giorno, al tramonto, con il cessare della luce e l‟innesco dei segnali neurali che stimolano la pineale, inizia a invadere il torrente circolatorio. Essa, sintetizzata a partire dall‟amminoacido essenziale triptofano, derivato dalle proteine durante la digestione per opera degli enzimi proteolitici e convertito in serotonina, è coinvolta anche con l'umore. È degno di rilievo che la melatonina, oltre che estratta dalla pineale di bovini, si trova in natura in alcuni alimenti, anche se in piccole quantità. Avena, mais e riso ne sono i  vegetali più ricchi con 1.000 e 1.800 picogrammi per grammo. Il Ginger, i pomodori, le banane e l‟orzo ne contengono, invece, 500 picogrammi per grammo. Nella specie umana i livelli più elevati di melatonina si riscontrano nei bambini e si riducono progressivamente con l'età realizzando un possibile collegamento con l‟incremento della difficoltà a dormire. I giovani adulti sani e di mezza età, di solito, ne secernono circa 5-25 microgrammi ogni notte.

La melatonina può anche sopprimere la libido con l'inibizione della secrezione ipofisaria dell‟ormone LH (luteinizzante) e FSH (follicolo stimolante). In rapporto a tutte le sue funzioni di controllo del ritmo circadiano e delle funzioni neuroendocrine, quando s‟interrompono i tempi o l'intensità dei suoi picchi, come nell'invecchiamento, nello stress, nel jet-lag, vengono influenzate negativamente molte funzioni fisiologiche e mentali. La capacità di pensare con chiarezza, di ricordare fatti chiave e di prendere decisioni importanti può essere profondamente ostacolata e compromessa da queste alterazioni dell‟orologio biologico. La melatonina, peraltro, essendo anche uno degli ormoni che controllano il cronometro e il rilascio degli ormoni riproduttivi femminili, interviene anche nello stabilire l‟inizio della mestruazione, la frequenza e la durata del ciclo mestruale, la menopausa. Inoltre, si riconoscono alla melatonina forti proprietà antiossidanti e studi preliminari hanno suggerito che possa contribuire a rafforzare il sistema immunitario. I radicali liberi sono componenti chimici che hanno un elettrone spaiato e sono ritenuti normalmente responsabili di oltre la metà di tutti i danni dell‟organismo, provocando la perossidazione lipidica, il danno al DNA e l'ossidazione delle proteine. Sulla base della sua proprietà antiossidativa, eliminando i radicali liberi che danneggiano la cellula, secondo alcuni, l‟ormone può contribuire a prevenire o ritardare lo sviluppo di malattie cardiache, cancro e altre condizioni patologiche e, se associata ad alcuni farmaci contro il cancro, può distruggere le cellule maligne. Di fatto, la melatonina dimostrerebbe un‟efficacia nel proteggere le membrane cellulari dalla perossidazione lipidica due volte di più della vitamina “E” e nel neutralizzare i radicali idrossili cinque volte di più del glutatione. Ancora, la melatonina e l‟adenosina possono essere particolarmente importanti nel proteggere le cellule del cervello con bassa concentrazione di glutatione. Oltre al radicale ossidrile, la melatonina neutralizza il superossido, il perossido d‟idrogeno, acido ipocloroso. Inibisce la formazione di perossinitrito, bloccando l'enzima ossido nitrico sintetasi in alcuni tessuti cerebrali, aumenta l'espressione genica e l'attività degli enzimi antiossidanti glutatione perossidasi, superossido dismutasi e della catalasi.

Ma, in forma più inerente al ritmo sonno/veglia, la melatonina permette di poter stimare attendibilmente il buon risultato dell‟orologio circadiano. Difatti, tutte le specie che la producono lo fanno di notte. Il ritmo della melatonina nei campioni di saliva o sangue o urine, raccolti con luce fioca e con controllate condizioni di postura, fornisce, quindi, un indicatore ottimale delle fasi circadiane dell‟uomo. Il DLMO (Dim light melatonin onset)rappresenta il più facile marcatore dell'orologio del tempo del nostro organismo a nostra disposizione poiché può essere misurato nella saliva prima di coricarsi. Pur tuttavia, i metodi di dosaggio non sono ancora di facile e pronto impiego, anche se si propongono come interessanti applicazioni in clinica per la diagnosi e terapia dei disturbi del sonno.
In via collaterale l‟actimetria è un metodo di monitoraggio dei cicli di riposo-attività dell'uomo, relativamente non invasivo, non necessariamente correlato al sonno-veglia. Può considerarsi l'equivalente della ruota per far correre i criceti e topi nella biologia circadiana dell‟uomo, con vantaggi di misura per periodi più lunghi di tempo rispetto a quelli nella ricerca sul sonno. Inoltre, il monitoraggio di ventiquattro ore può rivelare modelli inusuali di riposo e di attività che forniscono informazioni molto diverse dall‟EEG del sonno (per esempio, tempi e durata dei sonnellini diurni). Tuttavia, l‟actimetria non rispecchia necessariamente le caratteristiche dell‟orologio circadiano in causa. Un buon principio della cronobiologia umana è che un sonno adeguato corrisponde a una maggiore attenzione e che lo stato cognitivo e l'umore migliorano in stato di piena veglia. Così, l‟actimetria può essere utilizzata per documentare cambiamenti nello stato di trascinamento correlati all‟efficacia di un dato trattamento farmaceutico o di altro tipo in particolari patologie come la depressione. In definitiva, l‟actimetria, essendo un metodo semplice, non invasivo e relativamente poco costoso, meriterebbe un uso maggiore in clinica. Esso prevede, difatti, la verifica obiettiva del cronotipo nel tempo di andare a letto e di svegliarsi e documenta le modifiche del ritmo del sonno-veglia durante una data malattia e dopo il trattamento. Un minimo di registrazione di una settimana è consigliabile per mettere a confronto il ritmo di lavoro e dei giorni liberi e per ridurre le variabili.

IL SONNO ALLE VARIE ETÀ

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Nel primo anno di vita si verificano rapidi e drammatici cambiamenti nell‟organizzazione del sonno, mentre dopo, durante l‟infanzia e l'adolescenza, si osservano variazioni nella sua architettura e durata.

I neonati dormono per periodi di 14-16 ore, complessivamente maggiori rispetto a qualsiasi altro gruppo di età. Le loro ore di sonno possono dividersi in periodi multipli. Nel corso dei primi mesi di vita diminuisce il periodo di sonno, attestandosi durante la notte a 5-6 mesi, con almeno un pisolino durante il giorno. Il sonno REM dei bambini rappresenta una percentuale maggiore del sonno totale, a scapito della fase N3. Fino a 3-4 mesi di età, i neonati passano dal risveglio al sonno REM ma, in seguito, cominciano a svegliarsi direttamente in transizione NREM. Nel complesso, i voltaggi elettrocorticali, registrati durante il sonno, rimangono alti, come avviene durante la veglia. I fusi del sonno iniziano ad apparire nel secondo mese di vita, con una densità superiore a quella osservata negli adulti. Dopo il primo anno iniziano a diminuire di densità e a progredire verso il modello dell‟adulto, mentre i complessi K si sviluppano entro il sesto mese di vita.

Negli adulti lo stadio N1 è considerato il passaggio dalla veglia al sonno. Periodi di eccitazione brevi all'interno del sonno si verificano al momento e durante l‟addormentamento, rappresentando, di solito, il 2-5% del tempo di sonno totale. Lo stadio N2 durante tutto il sonno rappresenta il 45-55% di tempo totale, mentre lo stadio N3 (delta o sonno a onde lente) occorre prevalentemente nel primo terzo della notte e rappresenta il 5-15% del tempo totale. Il REM rappresenta il 20-25% del sonno totale e accade in 4-5 episodi in tutta la notte. La quantità ottimale di sonno non è un concetto significativo, salvo che il periodo di quel sonno sia visto a proposito dei ritmi circadiani dell‟individuo. In effetti, il sonno di una persona è relativamente insufficiente e inadeguato quando si realizza al momento sbagliato della giornata. Peraltro, si dovrebbe dormire almeno sei ore prima che la temperatura del corpo raggiunga il minimo. In effetti, il tempo corretto è quando avvengono i seguenti due marcatori circadiani dopo la metà del sonno e prima del risveglio: la massima concentrazione di melatonina e il momento di minima temperatura corporea. Comunque, il bisogno di dormire per l‟uomo può variare secondo l‟età e individualmente per cui si considera adeguata la quantità di sonno quando non si avverte sonnolenza durante il giorno o non vi sono disfunzioni.

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Negli anziani, diminuisce la fase N3, mentre aumenta la N2, in via compensatoria. La forma delta del sonno (fasi 3 e 4), più profonda e più corroborante, diminuisce con l'età.

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La latenza di addormentarsi e il numero e la durata dei periodi di eccitazione durante la notte aumentano. Questo fa sì che spesso il tempo totale a letto aumenta, portando l‟anziano a lamentarsi d‟insonnia. La frammentazione del sonno con l'aumento dei risvegli può essere aggravata dal crescente numero di comorbidità, come l‟OSA, i disturbi muscolo-scheletrici, le malattie cardiopolmonari, prostatiche e urogenitali.

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Interessante è il dato della psichiatria Rhonda Rowland e suoi collaboratori dell‟University of California, San Diego, che, studiando oltre un milione di adulti, hanno rilevato che le persone che riportavano un sonno di sei - sette ore ogni notte vivevano più a lungo.

IL SALUTARE CUMULO DI SONNO/DIE

Patel SR e coll. della Division of Sleep Medicine, Brigham and Women's Hospital, Boston, Mass, sulla base della comune convinzione di buona salute con le ottimali 8 ore di sonno per notte e dei dati di alcuni studi per cui con meno di 7 ore il rischio di morte si abbassava, hanno esaminato prospetticamente l'associazione tra la durata del sonno e la mortalità in 82.969 donne del Nurses Health Study per una migliore comprensione nei meriti (Sleep. 2004 May 1;27(3):440-4). Durante i quattordici anni di questo studio (1986-2000), si sono registrate 5.409 morti. Il rischio di mortalità si è dimostrato più basso tra le infermiere con segnalazione di sette ore di sonno per notte, anche dopo aggiustamento per età, fumo, alcol, esercizio fisico, depressione, russamento, obesità, storia di cancro e malattie cardiovascolari. Chi dormiva meno di sei ore o più di sette mostrava, invece, associazione con un aumentato rischio di morte. Il rischio relativo di mortalità per un sonno di cinque ore o meno era 1,15 (IC 95% 1,02-1,29), per quello di sei ore 1.01 (IC95% 0,94-1,08), 1.00 per il gruppo di riferimento di sette ore, 1.12 (IC 95%, 1,05-1,20) per otto ore, 1,42 (95% CI, 1,27-1,58) per nove o più ore. I risultati, in effetti, confermavano che il rischio di mortalità nelle donne studiate era più basso per il gruppo con sonno tra le sei e le sette ore senza aggiungere altro nei riguardi dell‟associazione di altri fattori, come la depressione e lo stato socio-economico.

IL SOGNO

Il sogno corrisponde a un particolare stato di coscienza che ha affascinato da secoli l‟interesse degli uomini, rimanendo ancora oscura la ragione per cui si verifica. Tale dato di fatto continua a dare sempre spazio alla speculazione con interpretazioni governate da interessi, spesso non leciti, ma che attraggono ancora in modo ingannevole la popolazione. Internet, ad esempio, presenta molti siti dedicati all'interpretazione dei sogni. Il sogno, di fatto, è la percezione sensoriale d‟immagini e suoni durante il sonno, e costituisce, di norma, una sequenza che si percepisce più come una partecipazione apparente che come un‟osservazione distaccata.

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Questa funzione è stimolata dal ponte e si verifica come ricordi per l‟80% dei risvegli dal sonno REM e come esperienze isolate, per esempio cadute, solo per il 7% dal non-REM. Poiché si entra nel sonno REM per circa cinque volte in un periodo medio di otto ore di sonno, se si assume che sogniamo in ciascuno di essi, in un anno dovremmo avere 1.825 sogni. Pertanto, un 75enne avrebbe circa 136.875 sogni, di cui la maggior parte senza ricordo.
Il 25% del sonno notturno, o 2 ore di esso, è, comunque, speso per sognare.

Caratteristica dei sogni è che:

  • in essi possono essere incorporati stimoli esterni,
  • di solito ricorrono episodicamente 4-5 volte per notte, avvenendo in tempo reale,
  • si verificano nel sonno non-REM e REM essendo più frequenti e più lunghi nel REM,
  • le emozioni possono essere intense,
  • possono evolversi in "tempo reale",
  • i contenuti e l‟organizzazione sono di solito illogici,
  • le sensazioni sono a volte bizzarre,  i dettagli bizzarri sono accettati acriticamente,
  • le immagini oniriche sono difficili da ricordare,
  • sono presenti in qualche misura in ogni persona,
  • si associano a erezioni notturne in ragione del loro contenuto,
  • durante una transizione verso lo stato di veglia si può verificare confabulazione,
  • non si verifica, invece, sonnambulismo per ragioni non meglio note.

La PET ha rivelato che l'attività cerebrale è molto diversa nel sonno REM rispetto a quando si è svegli. I lobi frontali e la corteccia visiva primaria sono essenzialmente spenti durante il periodo REM, significando che si è tagliati fuori dal mondo esterno e dal pensiero razionale in modo da accettare i propri sogni, non importa quanto bizzarri essi siano. Al contrario l‟amigdala e l‟ippocampo del sistema limbico, preposti all‟emozione e alla memoria, sono molto attivi, come le aree visive del cervello.
I contenuti della maggior parte dei sogni riguardano la vita di tutti i giorni e in rapporto alla cultura individuale. L'aggressione è più comune rispetto all‟amicizia e spesso gli stimoli ambientali, durante il sogno, possono essere incorporati in esso. Non ricordiamo al risveglio i nostri sogni perché le aree del cervello del lobo frontale, preposte alla memoria, sono rimaste chiuse durante il sonno REM e i neurotrasmettitori sono anch‟essi notevolmente ridotti. È più probabile ricordarlo se ci si sveglia durante il suo corso e così, pure quelli vividi hanno maggiori probabilità di essere ricordati. Le occasioni di distrazione, legate agli impegni giornalieri al risveglio, tendono, peraltro, a far dimenticare i sogni e d‟altro canto il cervello sembra programmato per obliare la maggior parte di ciò che avviene durante il sonno.
Si possono distinguere vari tipi di sogno: 1) quello vivido, dettagliato, composto di sensazioni e percezioni di attività motorie sperimentate durante il periodo REM, 2) l‟immaginazione di sognare priva di percezioni sensoriali e di senso di attività motoria, più simile al pensiero diurno, verificantesi durante il sonno a onde lente, 3) il sonno lucido, in cui il soggetto controlla che cosa succede nel sogno stesso. Di fatto, la ricerca su una comprensione dei sogni è di migliaia di anni, eppure fino a oggi non vi è ancora accordo tra i ricercatori sul perché si sogna. Si sono proposte molte ipotesi sulle funzioni del sogno, soprattutto, durante la fase REM. Negli ultimi 100 anni hanno dominato tre teorie di ricerca: quella di fine del 19esimo secolo di Freud; quella degli anni 1950 della correlazione del sognare con la scoperta del rapido movimento degli occhi (REM) e l‟ultima degli anni 1970 relativa all‟innesco del sogno da parte dell‟attività neurale nel tronco encefalico.

Sigmund Freud, alla fine del 19esimo secolo, considerava il sogno la “royal road to the unconsciousness” e postulava che i sogni fossero l'espressione simbolica di desideri frustrati, spesso a contenuto sessuale, affondati nell‟inconscio della mente. La psicoanalisi, pertanto, raggiungendo la loro interpretazione, poteva permettere la slatentizzazione di questi desideri. Freud, così, poneva la chiave per la comprensione e la lotta dei problemi psicologici facendo raggiungere ed esporre il significato dei sogni latenti ai propri pazienti (Freud, S. "Introductory lectures on psycho-analysis." In Standard Edition Of The Complete Psychological Works Of Sigmund Freud, vol. 15, London: Hogarth Press, 1916-17, p. 153).

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Secondo tale classica teoria psicoanalitica, il sogno sarebbe, in definitiva, durante il sonno la realizzazione allucinatoria di un desiderio inappagato durante la vita diurna. Nel 1976 J. Allan Hobson e Robert McCarley, sfidando la teoria freudiana, basata sul subconscio, proposero la nuova teoria che ha cambiato la ricerca sui sogni (American Journal of Psychiatry, 134:1335-1348, 1977). La loro dottrina della sintesi di attivazione afferma, difatti, che le esperienze sensoriali sono fabbricate dalla corteccia cerebrale, come un mezzo per interpretare i segnali caotici che provengono dal ponte. Nel sonno REM le fibre colinergiche ascendenti PGO (ponto-geniculo-occipitali) determinano un maggiore stimolo al mesencefalo e alle strutture corticali proencefaliche, producendo i rapidi movimenti oculari. Quindi, il cervello, così attivato, sintetizzerebbe il sogno da queste informazioni, generate internamente. Si assumerebbe, ancora, che le strutture stesse, che inducono il sonno REM, genererebbero anche informazioni sensoriali. Tali dati, di possibile identificazione con criteri obiettivi, hanno portato alla rinascita d‟interesse per questo fenomeno. Quando gli episodi di sonno REM sono stati cronometrati per la loro durata e i soggetti svegliati a fare i loro rapporti prima di modificare o dimenticare la maggior parte di quanto realizzato, si è riscontrata un‟abbinazione tra il periodo ritenuto della narrazione del sogno con l‟estensione del REM antecedente il risveglio. Questa stretta correlazione tra sonno REM e l'esperienza sogno era alla base della prima serie di relazioni che descrivono la natura del sogno e cioè che è un fenomeno regolare ogni notte, piuttosto che occasionale, ed è un‟attività ad alta frequenza all'interno di ciascun periodo di sonno, verificandosi a intervalli di prevedibilità circa ogni 60-90 minuti in tutti gli esseri umani per tutta la durata della vita. Gli episodi di sonno REM e i sogni che li accompagnano si allungano progressivamente in tutta la notte, essendo il primo più breve di circa 10-12 minuti e gli altri progressivamente più prolungati sino a 15-20 minuti. I sogni al termine della notte durano fino ai 15 minuti, anche se possono essere vissuti come parecchie storie distinte a causa di risvegli con momentanea interruzione del sonno fino a che la notte non finisce. I soggetti normali riportano i sogni nel 50% dei casi di un risveglio antecedente la fine del primo periodo REM, mentre, nei casi di risvegli nell'ultimo periodo REM della notte, il tasso aumenta a circa il 99%. Quest‟aumento nella capacità di richiamo appare correlato con l‟intensificazione durante la notte con la vividezza delle immagini, colori ed emozioni. Secondo Hobson la funzione principale dei movimenti oculari rapidi (REM), associati con i sogni, è fisiologica e non psicologica. Difatti, durante tale periodo il cervello si attiva e "riscalda i suoi circuiti", anticipando le immagini, i suoni e le emozioni dello stato di veglia. Tale ipotesi offre molte spiegazioni e, come nel fare jogging, il nostro corpo non ricorda i passi di una corsa, ma si allena a farli, allo stesso modo non ci ricordiamo molti dei nostri sogni ma la nostra mente si prepara e ottimizza la loro consapevolezza cosciente. I sogni rappresenterebbero uno stato parallelo in cui la coscienza è sempre in funzione ma che è normalmente soppresso mentre la persona è sveglia. Peraltro, in termini evolutivi, il sonno REM, individuato negli esseri umani, in altri animali a sangue caldo e negli uccelli, sembra essere relativamente recente. Studi più moderni hanno suggerito che esso appare precocemente durante la vita e per l‟uomo nel suo terzo trimestre. La ricerca ha fornito anche la prova nel cervello del feto che potrebbe consistere, in un certo senso, il vedere le immagini molto prima che i suoi occhi si siano aperti. Tale dato di fatto porterebbe a concludere che lo stato REM possa aiutare il cervello a costruire le connessioni neurali, soprattutto nelle aree visive. Ciò non significa che i sogni non hanno un significato psicologico, dal momento che, a volte, riflettono i problemi attuali, le ansie e le speranze. Un recente studio di più di un migliaio di persone presso la Carnegie Mellon University di Harvard ha dimostrato forti distorsioni nel modo in cui le persone interpretavano i sogni. Così, per esempio, i soggetti collegavano maggiormente il significato negativo del sogno sulle persone che non amavano e quello positivo sulle predilette. La ricerca sui sogni lucidi ha suggerito, poi, che solo il 20 per cento dei sogni si riferisce a persone o luoghi che conosciamo e la maggior parte delle immagini è specifica di un unico sogno. Invero, il sogno lucido è la possibilità di guardare un sogno in qualità di osservatore senza svegliarsi e Hobson ha trovato sostegno nel sogno lucido per la sua tesi per i sogni, come una specie di esercizio cerebrale fisiologico. Peraltro, in uno studio pubblicato su Sleep, l‟Autore ha riferito che gli elementi REM e veglia erano entrambi evidenti nei sogni lucidi, soprattutto nelle aree frontali, che sono tranquille durante i sogni normali. Secondo Hobson questo dato suggerisce, in effetti, la presenza di due sistemi, che possono essere in esecuzione contemporaneamente. È importante considerare ai fini pratici, a tale proposito, che le applicazioni potenziali di tali studi possono portare a una più profonda comprensione delle malattie come la schizofrenia, categorizzata con fantasie che possono essere relative all‟attivazione anomala di uno stato sognante.
L‟ipotesi di Hobson considerava la funzione dei sogni probabilmente collegata a un segnale geneticamente determinato secondo un modello funzionale del cervello dinamico, progettato per costruire e testare i circuiti cerebrali che stanno alla base il nostro comportamento, tra cui cognizione e senso di attribuzione. In altre parole, il sogno sarebbe un meccanismo inteso a stimolare i circuiti neurali e questa stimolazione dovrebbe, in qualche modo, essere fondamentale per il normale funzionamento del cervello durante lo stato di veglia. Pur tuttavia, diverse evidenze suggeriscono che sognare è sicuramente qualcosa di più che un dato "geneticamente determinato". Mark Solms successivamente, mentre lavorava nel dipartimento di neurochirurgia in Johannesburg e Londra, avendo accesso a pazienti con lesioni cerebrali diverse, ipotizzò che i sogni fossero generati nel proencefalo e che il sonno REM e il sogno non fossero tra loro direttamente collegati (Behavioral and Brain Sciences. 2000, 23(6) pp. 793–1121). Iniziò, così, a interrogare i pazienti sui loro sogni, confermando che le lesioni del lobo parietale portavano ad abolire di sognare. Ciò in linea con la teoria di Hobson del 1977, senza, però, incontrare i casi di perdita di sognare nei danni del tronco cerebrale. Quest‟osservazione l‟ha portato a mettere in discussione la teoria prevalente di Hobson, per la quale il tronco cerebrale rappresentava la fonte dei segnali interpretati come sogni, e a suggerire che il sogno fosse una funzione di molte strutture cerebrali complesse, come convalida della teoria freudiana, attirandosi dure critiche dallo stesso Hobson. Di seguito Jie Zhang, combinando l‟ipotesi della sintesi di attivazione di Hobson con i risultati di Solms, propose la teoria dell‟attivazione continua del sognare, come risultato, al tempo stesso, di attivazione del cervello e della sintesi, considerando la presenza di meccanismi cerebrali diversi per il controllo del sogno e del sonno REM (Dynamical Psycology 2006-03-13). Ipotizzò, anche, che la funzione del sonno fosse di elaborare, codificare e trasferire i dati dalla memoria temporanea a quella a lungo termine, pure senza molte prove di appoggio a questo cosiddetto "consolidamento". Il sonno NREM svilupperebbe la memoria correlata alla coscienza (memoria dichiarativa), mentre quello REM la memoria inconscia (memoria procedurale). Durante il sonno REM, inoltre, la parte inconscia del cervello elaborerebbe la memoria procedurale e, intanto, il livello di attivazione nella parte cosciente del cervello scenderebbe a un livello molto basso, siccome gli input sensoriali sarebbero fondamentalmente disconnessi. In tal modo, s‟innescherebbe il meccanismo dell‟attivazione continua con generazione di un flusso di dati dai depositi di memoria verso la parte cosciente del cervello. Zhang propose che tale attivazione cerebrale fosse l'induttore di ogni sogno e che con il coinvolgimento del sistema associativo cerebrale il sognare potesse essere in seguito auto-gestito con il pensiero sognante fino al successivo impulso d‟inserimento della memoria. Questo spiegherebbe perché i sogni hanno caratteristiche sia della continuità (all'interno di un sogno) sia dei cambiamenti improvvisi (tra due sogni). Eugen Tarnow suggerì, per sua parte, che i sogni fossero eccitazioni sempre presenti nella memoria a lungo termine, anche durante la veglia, rielaborando la teoria freudiana, sostituendo l‟inconscio con il sistema di memoria a lungo termine e il “Dream Work” di Freud, con la struttura della memoria a lungo termine (Neuro-Psychoanalysis 2003). (5(2). Da notare che già nel 1886 W. Der Truam Robert, medico d‟Amburgo, per primo suggerì che i sogni fossero un bisogno con la funzione di cancellare le impressioni sensoriali interamente elaborate e le idee non pienamente sviluppate nel corso della giornata. Ad opera del sognare il materiale incompleto sarebbe rimosso o approfondito e compreso nella memoria (W. Der Traum als Naturnothwendigkeit erklärt. Zweite Auflage, Hamburg: Seippel, 1886). Tale idea è stata riproposta nel 1983 da Crick, F. e Mitchison, G. nella teoria del „reverse learning‟, in cui si afferma che i sogni sono come le operazioni di pulizia dei computer quando sono off-line con rimozione di nodi e di altri parassiti (Nature, 1983, 304:111-114). Pur tuttavia, la tesi opposta di Hennevin E. e Leconte P. per cui il sogno ha un valore d‟informazione e una funzione di consolidamento della memoria, è molto comune (Anne Psychol. 1971, 71: 489-519). I sogni sono il risultato dell‟attività spontanea dei neuroni, mentre il cervello durante il sonno è in una fase di consolidamento della memoria. Durante il sonno gli occhi sono chiusi in modo che il cervello, in qualche misura, si possa isolare dal mondo esterno. Inoltre, tutti i segnali provenienti dai sensi, tranne l'olfatto, devono passare attraverso il talamo prima di raggiungere la corteccia cerebrale e durante il sonno l'attività talamica è soppressa. Ciò significa che il cervello lavora, soprattutto, con i segnali interni provenienti da se stesso.

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In conclusione la teoria scientifica dominante è che il sonno ha una funzione di grande trasformazione della memoria, essendo da molti studi di ricerca che nelle sue varie fasi si svolgono diverse funzioni in relazione al suo processo. Resta ancora da capire se i sogni hanno una funzione specifica o sono semplicemente un sottoprodotto della lavorazione della memoria nel sonno e per questo e altre condizioni sono necessari nuove ricerche per individuare meglio queste funzioni.

L'IPNOSI

L'ipnosi, procedura praticata con varietà di metodi per la maggior parte riguardanti il rilassamento e nella quale il conduttore suggerisce cambiamenti nelle sensazioni, percezioni, pensieri, sentimenti o nel comportamento, costituisce ancora un enigma. La natura della sua risposta dipende dall‟impegno e dalle qualità della persona ipnotizzata, piuttosto che dalle capacità dell'ipnotizzatore. Peraltro, l‟ipnotizzato non può essere costretto ad agire contro volontà, può eseguire particolari prodezze, non ottiene aumento dell'accuratezza della memoria, non consegue una letterale ri-esperienza di eventi passati da tanto tempo, può usufruire efficacemente per molti problemi medici e psicologici. Nei riguardi della sua natura vi sono due opinioni:

  1. il coinvolgimento della dissociazione o una scissione nella coscienza in cui una parte della mente funziona in modo indipendente dal resto, come per presenza di osservatori nascosti,
  2. il controllo delle funzioni esecutive dei lobi frontali indebolito da una modificazione non dissociata dello stato di coscienza.

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Invero, i suoi effetti sono dall'interazione tra l'influenza sociale dell‟ipnotista e le abilità, le credenze e le aspettative del soggetto. La persona ipnotizzata si sottomette volentieri ai suggerimenti, secondo un modello di ruolo che può spiegare i "rapimenti alieni" e le "regressioni a vite passate".

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L‟uso dell‟ipnosi si è dimostrato efficace per: ridurre il dolore e il disconfortro nel trattamento del cancro, rimuovere verruche, ridurre lo stress, ridurre l‟uso di narcotici nel dolore postoperatorio, migliorare la concentrazione e le motivazioni degli atleti, diminuire l‟ansia e la paura nei malati terminali, ridurre la depressione dopo parto, modificare il comportamento nei disordini dietetici, eliminare incubi notturni, aiutare i malati d‟insonnia, ridurre la severità e la frequenza degli attacchi d‟asma bronchiale, eliminare o ridurre la balbuzie, diminuire l‟intensità e la frequenza della cefalea, sopprimere il riflesso del vomito nelle procedure odontoiatriche.

Notiziario Maggio 2010 N°5

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NOTIZIARIO Maggio 2010 N°5

A cura di Giuseppe Di Lascio

 

Con la collaborazione di:

Bagalino Alessia, Bauzulli Doriana, Di Lascio Alessandro, Di Lascio Susanna, Levi Della Vida Andrea, Melilli Simonetta, Pallotta Pasqualino, Sesana Giovanna, Stazzi Claudio, Zimmatore Elena

SONNO E SALUTE

I° parte: il sonno normale

Susanna Di Lascio
Psicologa
swanyba@gmail.com

DEFINIZIONE DEL SONNO E SUOI MODELLI ANTROPOLOGICI

Gli esseri umani trascorrono circa un terzo della loro vita dormendo, più tempo di quanto spendono per ogni altra attività. In altre parole, dormono per circa 122 giorni l'anno e un 75enne spende, dormendo, durante la sua vita un totale di circa venticinque anni.
Il sonno è il perfetto esempio di un ritmo ultradiano, cioè quello che si ripete in un periodo inferiore alle ventiquattro ore e dura, in genere, circa novanta minuti, per ripetersi quattro o cinque volte durante una notte. Esso, comunque, è definito sulla base delle osservazioni del comportamento individuale e delle sue attività fisiologiche e neurologiche. Dal punto di vista comportamentale, difatti, si presenta come uno stato di ridotta reattività e interazione con gli stimoli esterni. Pur tuttavia, sotto una prospettiva biologica, rappresenta un periodo fisiologico intenso con un forte carico di attività neurologiche.

imageGli studi antropologici suggeriscono che i modelli del sonno variano in modo significativo tra le differenti culture del pianeta. Le differenze più marcate si riscontrano tra le società che dispongono di fonti abbondanti di luce artificiale e tra quelle che non ne dispongono. Ad esempio, la gente potrebbe andare a dormire molto presto, dopo il tramonto, per poi svegliarsi più volte durante la notte, frammentando il sonno con periodi di veglia, magari della durata di diverse ore. I confini tra il sonno e la veglia si confondono in queste società e nelle corrispondenti abitudini alcuni osservatori ritengono che il sonno sia spesso diviso in due periodi principali, il primo caratterizzato principalmente da un sonno profondo e il secondo da sonno REM. Peraltro, alcune realtà di vita presentano un modello di frammentazione del sonno per cui si dorme in ogni momento del giorno e della notte per brevi periodi e in molti gruppi nomadi o di cacciatori-raccoglitori, si dorme all’aperto tutto il giorno o la notte, secondo le circostanze.

L’ampia disponibilità di luce artificiale nell’occidente industrializzato, a partire almeno dalla metà del 19° secolo, ha condotto a modelli del dormire notevolmente diversi dai periodi precedenti. In genere, coloro che dormono in modo più concentrato per tutta la notte vanno a coricarsi molto più tardi. Peraltro, in alcune società gli individui, generalmente, dormono insieme con almeno un’altra persona, ma a volte con molte, o con animali. In altre culture, poi, raramente si dorme con una persona qualsiasi a caso, ma solo in virtù di intimità, come nel caso del coniuge. Di poi, si registra un’ampia varietà di posizioni nel dormire. Alcuni dormono direttamente sul terreno, altri su una pelle o una coperta, altri su una piattaforma o su letti di tipo occidentale e, ancora, alcuni con coperte e/o cuscini, altri con poggiatesta semplici, altri, invece, senza nessun supporto per la testa. Queste scelte si basano su una serie di fattori, quali il clima, la protezione dai predatori, il tipo di alloggio, la tecnologia e l'incidenza di parassiti.

L’ATTIVITÀ DEL CERVELLO DURANTE IL SONNO

A tal punto è interessante premettere che il cervello, come organo metabolicamente più attivo del nostro organismo,:

 

  • costituisce il 2% del nostro peso corporeo,
  • esaurisce il 20% del totale nostro consumo di ossigeno a riposo,
  • ha un tasso metabolico globale per l'ossigeno simile a quello cardiaco o della corteccia renale non stressati,
  • dimostra variabilità di livello di attivazione regionale.

Inoltre, il cervello, che dipende strettamente dall’ossigeno e dal glucosio del momento,:

  • non ha riserve significative di questi elementi,
  • ha un flusso sanguigno auto-regolato sulla base della domanda loco-regionale,
  • presenta una captazione di glucosio non insulino-dipendente.

Ancora bisogna ricordare che la sua attività dipende dalla temperatura e:

  • tra i 37° e i 42° C, il tasso del suo metabolismo aumenta del 5% per ogni grado in più.

Infine, l’assorbimento di ossigeno e di glucosio è un’attivazione cerebrale loco-regionale dipendente con:

  • utilizzo loco-regionale dipendente,
  • autoregolazione locale.

Fino al 1930 non vi è stato alcun modo e strumento scientifico e obiettivo per misurare il comportamento del cervello durante il sonno e, solo dopo l'invenzione dell’elettroencefalografo con relativo EEG, è stato possibile registrarne la sua attività elettrica. Ogni giorno è noto che il sonno normale si compone di due forme diverse: quella dei movimenti oculari rapidi (REM) o "stato di sogno" e quella del movimento degli occhi non rapidi (NREM), che occupa circa il 75% del sonno e può essere descritta come quella di un cervello inattivo in un corpo mobile, mentre il sonno REM può essere descritto come un cervello attivo all'interno di un corpo immobile.
Peraltro, nella regolazione del sonno e dell’insonnia sono implicati due processi primari: il ritmo circadiano endogeno e il processo omeostatico. Il primo, cioè il ritmo circadiano, funziona come un orologio biologico del tempo, secondo un processo interno che dirige l’avvicendarsi dei periodi e della durata giornaliera dei cicli sonno-veglia. Il secondo, cioè il processo omeostatico, indipendente dal primo, regola la lunghezza e la profondità del sonno, regolando i tempi, la durata e la qualità del precedente periodo di sonno dell’individuo. Nel 1937 Alfred Lee Loomis e i suoi collaboratori scoprirono che, durante il sonno, le onde, generate dal cervello, divenivano lente e più grandi, scendendo di frequenza al crescere della loro lunghezza (Sci Mon 1937; 45(2): 191-192.). Quindi, sulla base dei reperti elettroencefalografici (EEG), definirono le caratteristiche del sonno, che rappresentavano lo spettro dalla veglia al sonno profondo, in cinque livelli (da A a E), (J Exp Psychol. 1937, 21: 127–44). Nel 1952 Aserinsky E., collocando gli elettrodi dello strumento elettroencefalografico vicino agli occhi del figlio Armond di otto anni, mentre dormiva, notò esplosioni di attività elettrica a intervalli regolari e nel 1953, insieme a Kleitman, coniò l'espressione REM dei 'Rapid Eye Movements' (Science 1953, 118: 273–274). Di poi, scoperto il sonno REM, come entità ben distinta, William Dement e Nathaniel Kleitman fornirono una riclassificazione del sonno in quattro fasi non-REM e REM (Electroencephalogr Clin Neurophysiol 1957, 9 (4): 673–90.). Nel 1957 sempre Dement e Kleitman, resisi conto che doveva esserci un legame tra il sonno REM e il sogno, testando cinque soggetti svegliati per cinque o quindici minuti nei periodi di sonno REM, potettero dimostrare la relazione tra sogno e la sua espansione con il periodo REM (J Exp Psychol. 1957;53:339–46). Nel 1968, Rechtschaffen e Kales registrarono altre quattro distinte fasi del sonno, standardizzando in un manuale di terminologia e tecniche un sistema di punteggio per le fasi del sonno dei soggetti umani, definendo, così, differenti attività del cervello che, prima del 1930, non erano state per niente ipotizzate (Rechtschaffen A, Kales A, editors. Los Angeles: Brain Information Service/Brain Research Institute, University of California; 1968. A manual of standardized terminology, techniques and scoring system of sleep stages in human subjects).
Nel 2004, l’AASM (American Academy of Sleep Medicine), infine, ha fornito una revisione con diversi cambiamenti, di cui il più significativo è stato la combinazione delle fasi tre e quattro in uno stadio N3. Il riesame è stato pubblicato nel 2007, come manuale AASM, con il punteggio del sonno e degli eventi associati, caratteristiche comunemente valutate dalla polisonnografia nei laboratori specializzati.

imageLe misurazioni effettuate in questo esame comprendono l’EEG delle onde cerebrali, l’elettroculografia (EOG) dei movimenti oculari e l'elettromiografia (EMG) dell’attività dei muscoli scheletrici. Così si è potuto definire che nell’uomo ogni ciclo di sonno dura in media 90-110 minuti e ogni fase può avere una fisiologia ben distinta. Si sono evidenziate, con lo studio dell’elettroencefalogramma, fasi alternate di sonno lento o sincronizzato, più lunghe e con periodici movimenti, e sonno paradosso o desincronizzato, con totale rilassamento muscolare ma irregolare attività cerebrale e movimenti rapidi dell'occhio. È in questa fase, detta anche REM, che avviene l'attività onirica. Sonno e sogno sono, in effetti, parte integrante della nostra vita quotidiana.

  • Ma quanto sappiamo veramente di loro?
  • Perché abbiamo bisogno di dormire?
  • È ragionevole attribuire un significato ai nostri sogni?
  • Ma essi hanno sempre un significato?
  • E quali sono le differenti prospettive culturali sui sogni?

LE FUNZIONI DEL SONNO

È stato evidenziato che se il sonno non fosse indispensabile, la biologia dovrebbe offrire l’esempio, non presente in natura, di:

  • specie animali che non dormono per niente,
  • animali che non hanno bisogno di recupero di sonno dopo essere stati svegli più a lungo del solito,
  • animali senza conseguenze gravi a causa della mancanza di sonno.

Invece dobbiamo prendere atto che:

  • il sonno è importante per tutti gli animali,
  • il sonno non è un attributo speciale di ordine superiore, caratteristico della funzione umana,
  • anche se necessario, non necessariamente deve corrispondere a grandi quantità,
  • non v’è nessuna correlazione tra la quantità di sonno e le dimensioni degli animali, il loro livello di attività, la loro temperatura corporea.

Pur tuttavia, anche dopo i numerosi studi fino ad oggi effettuati, le teorie, proposte per spiegare la funzione del sonno, sono ancora incomplete. La teoria del doppio processo della sua regolazione si basa sul principio di una funzione sia restaurativa sia conservativa, considerando che il metabolismo generale e cerebrale, nello stato di attività, comportano alti consumi di energia con perdita di glicogeno e di ATP (adenosintrifosfato), cui si correla innalzamento della temperatura corporea. Nel sonno Non REM, invece, s’instaura una riduzione dei consumi, con reintegro di ATP e glicogeno e abbassamento della temperatura. Nel sonno REM, con maggiore complessità, i consumi metabolici aumentati non si associano, però, a crescite della temperatura.
Secondo una prima ipotesi, quindi, detta teoria del restauro, conosciuta anche come del recupero o della restituzione, il sonno è essenziale per il rilancio e il ripristino dei processi fisiologici, che mantengono il corpo e la mente sana e ben funzionante. In effetti, l’omeostasi si sgretola come stabilità dell'ambiente interno di un organismo nello stato di veglia e il sonno interviene come riparatore per ripristinarla.
In rapporto a tale teoria sono stati proposti tre meccanismi principali:

  • la necessità di eliminare una sostanza esaurita, che si accumula nel corpo durante l'attività,
  • la necessità di effettuare un processo essenziale di sintesi chimica, che è inefficace o impossibile durante la veglia,
  • il bisogno di consentire il recupero di componenti o percorsi neurali, sfiancati durante la veglia.

Consequenziale a tali premesse ne deriva che la privazione del sonno deve produrre effetti nocivi, come peraltro sperimentato.
Ma quali e quanti sono gli squilibri interni e con quali modalità e mezzi il buon dormire ripristina l'equilibrio?
A tale quesito mancano ancora risposte esaurienti e scientificamente provate.
Questa teoria suggerisce, peraltro, che la fase NREM è importante per questo recupero fisico, organico, metabolico, mentre quella REM è fondamentale per quello delle funzioni mentali.
Da notare che il supporto a essa deriva da una dimostrazione scientifica, secondo la quale i periodi di aumento del sonno REM seguono ai periodi di privazione del sonno e d’intensa attività fisica. Peraltro, durante il sonno, aumenta anche il tasso di divisione cellulare e la sintesi delle proteine, a conferma della teoria stessa. Inoltre, il tempo totale di sonno aumenta durante le malattie e quello REM aumenta durante il recupero da lesione cerebrale, elettroshockterapia e sindrome da astinenza.
Confortano tale teoria gli studi di CM Shapiro e collaboratori del 1981, che hanno rilevato nei maratoneti un sonno di un’ora e mezzo più lungo del normale nelle due notti seguenti la gara di circa novantadue chilometri, con un allungamento del periodo SWS (Phys. Rev. B 24, 6661–6674-1981). Peraltro, i neonati trascorrono la maggior parte del loro tempo nel sonno REM. D’altro canto, J. A. Horne e A. Minard nel 1985 hanno dimostrato, come prova contraddittoria, che, quando i soggetti di studio erano sottoposti a un certo numero di compiti estenuanti, essi dormivano più velocemente, ma non più a lungo (Ergonomics. 1985 Mar;28(3):567–575).
In contrasto con la teoria di recupero, quella evolutiva, propugnta da Meddis R. (1979 - The evolution and function of sleep. In: D.A. Oakley and H.C. Plotkin (eds) Brain, Behaviour and Evolution, London: Methuen), conosciuta anche come la teoria adattativa del sonno, propone che esso si sia evoluto come una risposta di adattamento al ciclo giorno/notte, non come una risposta a qualche segnale interno fisiologico. Tale dato è legato direttamente alla sopravvivenza di Darwin della 'teoria del più forte'. Difatti, tutte le proprietà in nostro possesso costituiscono il risultato di ciò che è stato utile nel passato, per cui si dorme perché è utile per la nostra sopravvivenza o lo era un tempo. Essa suggerisce, difatti, che i periodi di attività e inattività si sono evoluti come strumento per conservare energia, quando la raccolta di cibo è stata completa o più difficile e, anche, per evitare il pericolo di predatori notturni o incidenti, rimanendo immobile. Pertanto, tutte le specie si sono adattate a dormire per i periodi in cui lo stato di veglia sarebbe più pericoloso. Il supporto a essa deriva dalla ricerca comparativa nelle diverse specie animali. Difatti, gli animali, fondamentalmente predatori, come orsi e leoni, dormono spesso tra le 12-15 ore ogni giorno. Invece, gli animali, che hanno molti predatori naturali, dimostrano solo brevi periodi di sonno, di solito sempre corrispondente a non più di quattro o cinque ore ogni giorno.
Quindi, è probabile che il sonno si sia evoluto per soddisfare, per molteplici necessità, una certa funzione primordiale, ancestrale. Di certo, confortano tale tesi:

  • l'assenza in natura di specie animali che non dormono per niente,
  • la necessità di sonno, come recupero di una condizione di veglia più lunga del solito,
  • le conseguenze gravi della mancanza di sonno,
  • il dato di fatto che l'area del cervello, che governa il sonno, è la più antica, dimostrando che tutti gli animali di ogni specie hanno bisogno di dormire,
  • la differenza negli schemi di sonno in diverse specie, il che suggerisce un adattamento evolutivo alle condizioni ambientali,
  • gli studi sulla privazione del sonno, che hanno dimostrato alcuni effetti fisici di entrambi le fasi REM e NREM.

imageInteressante è, peraltro, notare come negli animali si dimostrino notevoli variazioni per modalità e quantità di sonno, da due ore il giorno per le giraffe a venti per i pipistrelli. In generale, si riduce il tempo di sonno necessario, proporzionalmente al crescere della dimensione del corpo. I gatti sono una delle poche specie di animali che non hanno la maggior parte del loro sonno consolidata in un'unica sessione, preferendo, infatti, di distribuirlo in modo omogeneo per tutto l’arco della giornata. I mammiferi d'acqua, poi, tendono a dormire ad emisferi alterni del loro cervello, con uno che dorme e l'altro che rimane sveglio. Usano tale tecnica per poter respirare di continuo al di sopra dell'acqua e non affogare, non potendosi, quindi, addormentare per lunghi periodi. Essi, difatti, dormono per pochi secondi alla volta, come il delfino dell'India, o consentono solo a metà del proprio cervello di dormire in un dato momento, come il tursiope. Gli uccelli migratori sembrano anche seguire qusta modalità del dormire. Anche i pesci e i moscerini della frutta sembrano avere uno stato simile al sonno dei mammiferi. Questa alternanza di stato simile al sonno e la sua assenza è indicato come BRAC (Basic Rest and Activity Cycle). Dato che la moderna definizione del sonno si basa sui criteri EEG e, siccome un piccolo cervello impedisce la registrazione, tale condizione non può tecnicamente essere definita come sonno. Tuttavia, se i moscerini della frutta sono ripetutamente disturbati in modo che non possano riposare, mostrano quello che viene definito un rest rebound. Questo comportamento è sorprendentemente simile a quello presentato dai mammiferi e dagli uccelli, posti in condizioni simili. Inoltre, molti animali vanno in letargo durante l'inverno, condizione simile al sonno per conservare il calore del corpo e l’energia. Così pure, in contrapposizione all’ibernazione, altri animali presentano l’estivazione, andando in letargo per sfuggire al caldo dell'estate. I bovini, gli equini e gli ovini sono particolari, in quanto possono dormire in piedi, anche se per i bovini e gli ovini il sonno REM non si verificherebbe in tale posizione. Difatti, per il sonno REM gli animali devono essere sdraiati, poiché, dormendo in piedi, il sonno è solo parziale. Tuttavia, gli uccelli possono avere periodi di sonno REM, mentre sono appollaiati. In conclusione, anche se non è possibile definire un vero sonno, rettili, anfibi, pesci e insetti hanno cicli di inattività, rispondendo alle necessità della teoria del reintegro energetico-metabolico. Peraltro, anche nelle meduse, uno dei più semplici organismi pluricellulari con un sistema nervoso costituito da un assemblamento di pochi neuroni senza un organo cerebrale di per sé ma con sistema visivo complesso, si è dimostrata una quiescenza di circa 15 ore il giorno, secondo un modello diurno. Esse sono attive da sei a quindici ore durante il giorno, spostandosi 212 metri l’ora con la luce e dieci con l’oscurità della notte. Infine, secondo la teoria del consolidamento dell'informazione, che si basa su ricerche cognitive, le persone dormono al fine di elaborare le informazioni che sono state acquisite durante il giorno. Oltre alle informazioni di trasformazione dal giorno precedente, questa teoria sostiene, anche, che il sonno permette al cervello di prepararsi per il giorno a venire. Alcune ricerche suggeriscono, peraltro, che il sonno aiuta a consolidare ciò che abbiamo imparato durante la giornata, in memoria a lungo termine.
Il supporto a tale ipotesi nasce da una serie di casi di privazione del sonno, studiati per dimostrare che la mancanza di sonno determina un grave impatto sulla capacità di richiamare e ricordare le informazioni acquisite.
A tale proposito, Smith C. nel 1996 dimostrò che ratti, addestrati in un labirinto, dopo otto ore di attività con privazione di sonno REM, riducevano le prestazioni, rispetto ai controlli (Behav Brain Res 1996 78, 49-56). P. Leconte, E. Hennevin e V. Bloch dimostrarono che la velocità di esecuzione di un compito complesso dei ratti nel labirinto era legata al tempo trascorso in sonno REM. (Behavioural Brain Research 1995, 69, 1-2, 125-135).
In conformità a tale teoria gli studiosi dell’Est europeo hanno svolto i loro studi sull’ipnoterapia e C Smith e L Lapp dimostrarono che gli studenti universitari passavano più tempo in REM durante il periodo degli esami (Sleep 1991, 14, 325-330).
Altri autori si sono maggiormente e più particolareggiatamente soffermati sull’argomento. Hartman E.L. affermò che il sonno REM era un momento per ricompensare i neurotrasmettitori, utilizzati durante il giorno (New Haven, CT: Yale University Press). Stern, W. C. e Morgane PJ pensarono che il sonno REM permettesse al cervello di ripristinare i livelli dei neurotrasmettitori a '' impostazioni di origine” (Adv Sleep Res 197,41:1–131). Oswald I. ipotizzò che il sonno non-REM restaurasse il corpo, mentre il sonno REM ripristinasse il cervello, attraverso la sintesi proteica (Sleep 1980, Prog Brain Res 53,279-288). Secondo sempre tale Autore il sonno Slow Wave Sleep (SWS) avrebbe avuto il compito di aiutare il corpo stesso al recupero. Crick F. e Mitchison G. paragonarono il processo del sognare a un computer che era "off-line" durante il sogno o la fase REM del sonno (Nature, 1983,304:111-114). Durante questa fase, il cervello avrebbe dovuto decantare le informazioni raccolte durante il giorno, eliminando tutto il materiale indesiderato. Secondo tale modello, noi sogneremmo per dimenticare, secondo un processo di 'apprendimento inverso' o del 'disimparare'. Durante il sonno REM, i ricordi non desiderati verrebbero, così, eliminati, rendendo, più facile l’accesso ai ricordi più importanti. Horne J. A. nel 1988 nel suo testo “Why We Sleep: The Functions of Sleep in Humans and Other Animals. Oxford: Oxford University Press” fece distinzione tra il core del sonno (SWS & REM) e quello facoltativo (stadi 1-3). Stickgold R. nel 2005 concluse che il sonno REM era importante per consolidare la memoria procedurale, come il guidare una macchina, e il SWS fondamentale per il consolidamento della memoria semantica (conoscenze e significati) e la memoria episodica (eventi) (Nature. 2005 Oct 27;437(7063):1272-8).

Uno studio condotto da Gumustekin K. e coll. del Department of Physiology, Medical School, Ataturk University, Erzurum, Turkey [Int J Neurosci 2004;114(11): 1433-42.] nel 2004 ha dimostrato che la privazione di sonno e la nicotina ritardavano la guarigione delle ferite, mentre la supplementazione di selenio la accelerava.
Zager A. e coll. del Department of Psychobiology, Universidade Federal de Sa˜o Paulo, Brazil (Regulatory, Integrative and Comparative Physiology, 2007 293, R504-R509), sulla base che il sonno è essenziale per il corretto funzionamento di un gran numero di sistemi di difesa e che la sua privazione è riconosciuta condizione sempre più comune nella società moderna con danno a certi sistemi fisiologici, come la funzione immunitaria, hanno voluto indagare come la paradossa privazione del sonno per ventiquattro e novantasei ore e la sua restrizione per ventuno giorni e i rispettivi periodi di recupero di ventiquattro ore potessero incidere sull’attivazione immunitaria dei ratti. Le alterazioni, riscontrate durante la privazione del sonno, suggerivano, durante l’acuta privazione paradossa del sonno, solo lievi alterazioni dei parametri aspecifici immunitari, mentre, durante la restrizione cronica, un considerevole deterioramento nella risposta cellulare. Questi dati permetterebbero di affermare che da una parte la perdita di sonno altera la funzione immunitaria e che dall’altra le minacce immunitarie peggiorerebbero il sonno. Suggerirebbero anche che i mammiferi, dormendo più a lungo, investono sul sistema immunitario, in quanto si è dimostrata anche una più elevata conta di cellule bianche del sangue (Opp, Mark R. January 2009BMC Evolutionary Biology (BioMed Central Ltd.) 9 (8): 1471–2148).

D’altro canto, Jenni O. G. e coll. (Pediatrics, 2007 120, e769-e776) hanno registrato una crescita in peso e altezza, correlata al tempo passato a letto, in 305 bambini dagli uno ai dieci anni di età per un periodo di nove anni, costatando un’assenza di effetto sulla crescita in rapporto alle differenze di durata del sonno, sulla base della dimostrata influenza che il sonno, e più specificamente quello a onde lente (SWS), ha sui livelli dell'ormone della crescita negli adulti. Difatti, Van Cauter E., Leproult R., e Plat L. (American Medical Association, 2000,284, 861-868) hanno dimostrato che negli uomini, con alte percentuali di SWS (in media il 24%), corrispondono alte secrezioni di ormone della crescita, mentre esse sono basse in quelli con le percentuali poco elevate (media del 9%).

Peraltro, il sonno corrisponde alla fase anabolizzante del metabolismo e alla secrezione preferenziale degli ormoni anabolizzanti, oltre di quello della crescita. Da notare che la durata del sonno nelle specie animali si riscontra, in generale, inversamente proporzionale alla loro dimensione e direttamente collegata con il loro metabolismo basale. Il sonno dei ratti, a elevato metabolismo basale, dura, difatti, un massimo di quattordici ore il giorno, mentre quello degli elefanti e giraffe, con minore BMR (Basal Metabolic Rate), solo 3-4. Il sonno non-REM può rappresentare, in effetti, uno stato anabolico, contrassegnato da processi fisiologici di crescita e di ringiovanimento dell'organismo a carico del sistema nervoso, del sistema muscolo-scheletrico e del sistema immunitario. Lo stato di veglia può, invece, essere considerato come uno stato iperattivo, catabolico, ciclico, temporaneo, durante il quale l'organismo si può più agevolmente procurare nutrimento e si può riprodurre. Il sonno REM, presente in modo preponderante nei bambini, sembra, peraltro, essere importante per lo sviluppo del cervello. Da notare, anche, che nelle diverse specie si osserva che il tempo, speso dal neonato nel sonno REM, varia proporzionalmente alla sua immaturità.

Inoltre, vi sono numerose dimostrazioni che connettono il sonno alla memoria. Turner, T.H., Drummond, S. P. A. e coll. del San Diego State University, USA, hanno dimostrato, difatti, che la deprivazione di sonno compromette la memoria (Neuropsychology, 2007, 21, 787-795). E la memoria del lavoro è importante perché mantiene attive le informazioni per la sua evoluzione e supporta le funzioni cognitive di livello superiore, come il processo decisionale, il ragionamento e la memoria episodica. In definitiva, il meccanismo fisiologico del sonno è complesso e coinvolge tutto il sistema nervoso centrale, in particolare la sostanza reticolare del tronco encefalico (ponte e mesencefalo), sede d’interrelazioni inibitorie o eccitatorie con i centri superiori diencefalici, che determinano l'alternanza sonno-veglia. Si ritiene, infatti, che il sonno abbia una funzione rigenerativa sulle sinapsi corticali, essenzialmente legate all'apprendimento.

IL CICLO DEL SONNO

Il sonno, comunque, è un'attività fisiologica naturale che viene compiuta quotidianamente dagli esseri viventi, ma che è ancora avvolta da un alone di mistero e di oscurità. Negli ultimi trenta anni, grazie allo sviluppo delle tecniche di polisonnografia, le conoscenze su quest’affascinante comportamento della vita biologica si sono notevolmente allargate, ma resta ancora un diffuso scetticismo sulla reale possibilità di decifrare nitidamente il linguaggio del cervello che dorme. Il ritmo circadiano del sonno è uno dei diversi ritmi del nostro organismo, modulati dall'ipotalamo. La prima nota sui ritmi biologici risale al 4° secolo a. C, quando Androstene, capitano di una nave al servizio di Alessandro Magno, descrisse i movimenti diurni delle foglie dell'albero di tamarindo. Lo scienziato francese Jean-Jacques d'Ortous de Mairan nel 1700 osservò, di poi in tempi moderni, l’oscillazione circadiana del movimento delle foglie della pianta Mimosa pudica, che continuava anche quando le piante erano state isolate dagli stimoli esterni. Nel 1918, J.S. Szymanski dimostrò negli animali la capacità di mantenere i modelli di attività delle 24 ore, in assenza di stimoli esterni, come la luce e le variazioni di temperatura. Il termine circadiano fu coniato da Franz Halberg alla fine del 1950 e Joseph Takahashi scoprì nel 1994 la base genetica del ritmo circadiano dei roditori.

imageL’orologio primario circadiano dei mammiferi è situato nel NSC (nucleo soprachiasmatico), gruppo di cellule dell'ipotalamo, controllato geneticamente, la cui distruzione comporta la completa assenza di un ritmo regolare sonno-veglia. Il NSC riceve l’informazione dell'illuminazione attraverso gli occhi, per mezzo della retina, che contiene non solo i classici fotorecettori utilizzati per la visione, ma anche le cellule gangliari fotosensibili, che rispondono alla luce. Queste cellule, ricche del foto pigmento melanopsina, mandano segnali secondo un percorso nel tratto retino-ipotalamico, che arriva al NSC. Se le cellule di questo nucleo vengono rimosse e messe in cultura, esse mantengono il loro ritmo, in assenza di stimoli esterni. Pertanto, il NSC riceve le informazioni sulla lunghezza del giorno e della notte dalla retina, le interpreta e le trasferisce alla ghiandola pineale, piccola struttura, a forma di pigna, situata sull’epitalamo. La pineale secerne la melatonina con picchi notturni, fornendo le informazioni sulla lunghezza della notte.image

Notiziario Aprile 2010 N°4

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NOTIZIARIO Aprile 2010 N°4

A cura di Giuseppe Di Lascio

 

Con la collaborazione di:

Bagalino Alessia, Bauzulli Doriana, Di Lascio Alessandro, Di Lascio Susanna, Levi Della Vida Andrea, Melilli Simonetta, Pallotta Pasqualino, Sesana Giovanna, Stazzi Claudio, Zimmatore Elena

COMMEMORAZIONE


Massimo ChiarielloA Napoli, a fine marzo, è morto, dopo devastante cancro delle vie biliari, a 64 anni, Massimo Chiariello, direttore di cardiologia dell'Università Federico II, ex-presidente della Società Italiana di Cardiologia, figlio del senatore Alfonso, uno dei fondatori della clinica mediterranea, fratello del cardiochirurgo Gino Chiariello e di Paola Chiariello Condorelli, allievo di Mario Condorelli. Dopo la laurea e le esperienze sulle strategie di riduzione dell’IMA a Harvard e al Peter Bent Brigham Hospital con Eugene Braunwald e Peter Maroko, ha lavorato nel campo dell’ischemia/riperfusione, ponendo le basi fisiopatologiche delle sindromi coronariche acute e della restenosi dopo PCI, dedicandosi anche alla terapia genica e ai meccanismi molecolari coinvolti nella progressione della cardiomiopatia ipertrofica. Direttore negli ultimi anni del «Journal of cardiovascular medicine», organo ufficiale della Federazione italiana di cardiologia e della Società italiana di cardiochirurgia, ha pubblicato oltre 500 lavori scientifici. Robert Kloner dell’University of Southern California così lo ricorda: “Ricercatore estremamente brillante ed energico, con cui era divertente lavorare per un sorriso contagioso che contribuiva a mantenere l’entusiasmo nella ricerca scientifica. Era, peraltro, gentile e incoraggiante verso i giovani ricercatori e per tutto questo la cardiologia ha perso un grande leader di talento e di ricerca". Ciro Indolfi, direttore della divisione di cardiologia presso l'Università Magna Grecia in Italia, già borsista presso Chiariello, l’ha definito "scienziato brillante, clinico e mentore eccezionale, primo in Italia a introdurre l’ablazione trans catetere delle aritmie cardiache e tra i primi a eseguire i test di terapia genica per le malattie cardiovascolari", affermando di conservare "grandi ricordi e, in particolare, il suo attaccamento alla famiglia, i successi nella comunità scientifica e il coraggio nella malattia."  Il suo laboratorio di emodinamica, difatti, è stato riconosciuto nel 1990 tra le migliori strutture a livello mondiale. Convinto sostenitore della collaborazione internazionale, incoraggiava i suoi studenti a viaggiare e lavorare in tutto il mondo per riportare la loro esperienza in Italia. Fino alla fine, Chiariello si è attivamente interessato alla ricerca, discutendo dei nuovi progetti, pur essendo perfettamente consapevole del suo stato finale, ma mostrandosi molto sereno e lucido nel pensiero.  L’AMEC partecipa commossa al dolore della famiglia e si unisce al cordoglio di tutto il mondo scientifico.

Lucien CampeauLucien Campeau, del Montreal Heart Institute, Quebec, eminente cardiologo, pioniere della metodica coronarica trans radiale, è deceduto il 15 marzo all'età di 82 anni. Autore di circa 200 pubblicazioni scientifiche, è stato il primo, tra le sue realizzazioni più famose, a eseguire il cateterismo percutaneo trans-radiale coronarico nel 1989, diffusamente adottato in Europa e ora anche nel Nord America. È stato Presidente della commissione della Canadian Cardiovascular Society che ha definito la classificazione funzionale dell’angina nel 1972, utilizzata a livello internazionale. Negli anni 1960 e 1970, Campeau con i suoi collaboratori d’istituto ha sviluppato metodi per l’angiografia coronarica selettiva, per l’intervento di bypass e per il trapianto di cuore. Più di recente, ha contribuito alla ricerca per il trattamento dell’iperlipidemia nei pazienti coronaropatici con lo studio post-chirurgico CABG, in collaborazione con l’US National Heart, Lung, and Blood Institute. È stato Presidente dell’Association of Cardiologists of Quebec, della Society of Cardiology of Montreal, della Canadian Society of Cardiology e Governatore per il Quebec dell’American College of Cardiology.
Alcune delle sue numerose onorificenze e riconoscimenti includono il Prix Jean Lenègre, il Wilbert J. Keon Award, il Prix Carsley e l’Heart & Stroke Foundation of Quebec Heart Award. Gli è stato anche assegnato il Research Achievement Award dalla Canadian Cardiovascular Society ed è stato nominato "Cardiologue émérite 2004" dall’Association du Québec. Secondo quanto riferito dai colleghi dell'Istituto di Montreal, Campeau aveva la passione per la vela, lo sci e il golf, cosa che condivideva con gli amici.
L’AMEC si unisce alla testimonianza di dolore e lutto degli amici, della moglie Marielle e dei suoi quattro figli Michael, Alan, Mark e Stephen, in omaggio a questo illustre scienziato.

REVISIONE DELLE LINEE GUIDA PER LA DIAGNOSI E LO SCREENING DEL DIABETE

I dati IDF del 20° Congresso mondiale a Montreal hanno riportato l’aumento massiccio dei diabetici nel mondo, passati dai 30 milioni del 1985 ai quasi 300 milioni di oggi, con incremento, in meno di 20 anni, sino ai 350 milioni se non si adotteranno per tempo adeguate contromisure.

Peraltro, metà di essi ha un’età compresa tra i 20 e i 60 anni e la maggior parte deriva dai paesi a reddito medio - basso, tanto è vero che sette dei dieci paesi col più alto numero di malati appartengono a questa categoria.

Se non si pone un argine a tale fenomeno, nel 2030 i diabetici arriveranno a circa 435 milioni. In definitiva, il diabete appare oggi come: minaccia globale, colpendo circa il 7% della popolazione mondiale, è responsabile di circa quattro milioni di decessi l’anno, rappresenta la causa principale di malattie gravi come la cecità, l’insufficienza renale, l’infarto miocardico, l’ictus, le arteriopatie periferiche con le consequenziali amputazioni.

Si calcola che ogni dieci secondi una persona muore per cause legate al diabete e si prevede che l’indice di mortalità crescerà del 25% entro la fine del prossimo decennio. Secondo l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità), questa malattia potrebbe, per la prima volta in 200 anni, ridurre globalmente le aspettative di vita dell’uomo.

I dati epidemiologici evidenziano un aumento anche del diabete di tipo 1.

In Europa si prevede per i periodi:
1994 – 2000 un aumento dei casi pari al 18.3%
1994 - 2010 un aumento dei casi pari al 36%.

Non trascurabile, inoltre, è il suo gravoso costo sanitario e dispendio di risorse dedicate alle cure mediche, prevedendo per il 2010 un suo assorbimento di circa l’11,6% del totale della spesa sanitaria mondiale. Per molti versi questa malattia svilisce gli sforzi di prosperità di sviluppo economico delle nazioni, tenuto anche conto che quasi l’80% della spesa sanitaria per essa avviene nei paesi più ricchi e che i popoli dei paesi in via di sviluppo hanno scarsa possibilità di soddisfare le loro esigenze sanitarie. Si può concludere, quindi a buona ragione, che il diabete ha assunto il carattere di una vera e propria epidemia per la rapidità con cui si va diffondendo tra la popolazione, potendo affermare che in Italia ogni anno circa tre milioni di persone la sviluppano.

Secondo gli ultimi dati, difatti, il diabete colpisce il 5-6% degli italiani, mentre solo dieci anni fa interessava solo quattro italiani su 100.

L'impatto devastante sull’individuo, sulle famiglie, sui paesi e sulle economie non si arresta e i governi, le istituzioni e le associazioni scientifiche devono cooperare con la comunità mondiale per passare all'azione comune e sconfiggere la minaccia diabete nei tempi più brevi con ogni mezzo a loro disposizione.

Parita Patel e Macerollo A. dell’Ohio State University, Columbus, OH, USA hanno ribadito  in una recente recensione l'impostazione pratica delle linee guida per la diagnosi e lo screening del diabete, mossi dalla considerazione della validità sulla diagnosi tempestiva e corretto trattamento (Am Fam Physician. 2010; 81:863-870). Difatti, molte delle complicanze del diabete, come la nefropatia, retinopatia, neuropatia, malattie cardiovascolari, ictus e morte, possono essere ritardate o impedite con un trattamento adeguato della pressione arteriosa elevata, dei lipidi e del glucosio nel sangue. Di fatto, l’ADA (American Diabetes Association) ha aggiornato nel 2010 il sistema di classificazione eziologico e i criteri diagnostici per il diabete, introdotti nel 1997, definendolo di tipo 1, di tipo 2, autoimmune latente, dell'età adulta dei giovani e da cause varie (Diabetes Care. December 29, 2009; January 2010 Supplement). Il primo, associato all’obesità e all’insulino-resistenza, rappresenta circa il 90% al 95% di tutti i casi, il secondo, tipicamente associato alla carenza autoimmune mediata d’insulina, ha una prevalenza dal 5% al 10% circa. I criteri di diagnosi includono le misurazioni di emoglobina A1c (HbA1c), i livelli di glucosio nel sangue a digiuno o casuale o i risultati del test orale di tolleranza al glucosio. L'ADA definisce il diabete quando in due occasioni separate i livelli di glicemia sono almeno 126 mg/dL dopo un digiuno di otto ore. Altri criteri sono quelli del livello di glicemia di almeno 200 mg/dL in presenza di poliuria, polidipsia, perdita di peso, stanchezza o altri sintomi caratteristici del diabete. I test glicemici casuali possono essere utilizzati per lo screening e la diagnosi ma la loro sensibilità raggiunge solo il 39% - 55%. Test diagnostico di prima linea è il carico orale di tolleranza al glucosio, in cui il paziente, a digiuno da otto ore, riceve 75 g di glucosio. Si fa diagnosi di diabete se la glicemia supera 199 mg/dL e di alterata glicemia a digiuno se compresa da 140 a 199 mg/dl dopo due ore dal carico. L’ADA ha anche definito l’alterata glicemia a digiuno in caso di glicemia tra 100 e 125 mg/dL. L’HbA1c, che non richiede il digiuno, è utile sia per la diagnosi sia per lo screening del diabete, diagnosticato con livelli di almeno 6,5% in due occasioni separate.

Pur tuttavia, la bassa sensibilità e l'interferenza con differenze di razza, la presenza di anemia e l’uso di farmaci diversi comportano tutti limitazioni alla sua comprensione. Per il diabete gestazionale è importante notare che il test di screening con glucosio di 50 g (Glucola; Diagnostica Ames, Elkhart, Indiana) è il più comunemente eseguito. Comunque, il test orale di tolleranza al glucosio con 75 o 100-g si rende necessario per la conferma del risultato positivo di un test di screening. La cheto acidosi diabetica è, in genere, più frequente nel diabete di tipo 1, ma, a volte, si presenta anche nel tipo 2 e, soprattutto, nei pazienti obesi e di colore. Questa condizione è diagnosticata con una glicemia superiore ai 250 mg/dL, un pH arterioso di 7.3 o inferiore e una chetonemia moderata. È importante ricordare che la maggior parte delle linee guida attuali raccomanda lo screening del diabete nei pazienti con ipertensione o iperlipidemia. La misurazione dei livelli di peptide “C” può facilitare il tipo di classificazione del diabete o la decisione di cura insulinica. La determinazione degli autoanticorpi contro le cellule insulari, l’insulina, il GADA (glutamic acid decarboxylase), la tirosina fosfatasi (IA-2α e IA-2β) e gli altri marcatori di distruzione immuno-mediata delle cellule-β può anche tornare di utilità. Pur tuttavia, la disponibilità dei test anticorpali è limitata dai costi e dal problema del loro valore predittivo.

In definitiva, le raccomandazioni chiave per la pratica clinica e il livello di rating delle evidenze di accompagnamento sono:

  • Lo screening del diabete dovrebbe essere eseguito nei pazienti con pressione arteriosa sostenuta superiore a 135/80 mmHg (livello di evidenza A).
  • Lo screening del diabete dovrebbe essere eseguito nei pazienti con ipertensione o iperlipidemia (livello di evidenza, B).
  • I calcolatori di rischio possono essere utilizzati per identificare i pazienti che non hanno bisogno di ulteriori controlli per il diabete (livello di evidenza, C).
  • La diagnosi di diabete può essere fatta quando il valore dell’HbA1c è maggiore di 6,5% in due occasioni separate (livello di evidenza, C).
  • Per i pazienti ad aumentato rischio di diabete, la consulenza è raccomandata in materia di strategie efficaci, tra cui la perdita di peso e l’esercizio fisico, per ridurre il rischio (livello di evidenza C).

Il giudizio clinico, sulla base del fenotipo del paziente, la sua storia, la presentazione e le analisi specifiche di laboratorio, è il modo migliore di gestione della malattia con la spiegazione razionale del presupposto per lo screening, come, peraltro, per qualsiasi altra condizione. Il trattamento precoce migliora i risultati microvascolari.

In un editoriale Jeff Unger della Catalina Research Institute di Chino, in California, ha descritto il LADA (diabete autoimmune latente negli adulti), come forma lentamente progressiva in età avanzata al momento della diagnosi, con autoanticorpi anti pancreas e la mancanza di un obbligo assoluto d’insulina al momento della diagnosi stessa. Nel LADA la funzione delle cellule beta è più preservata rispetto al diabete di tipo 1 classico, ma vi è anche una tendenza a una sua perdita rapida e progressiva che richiede intervento intensivo con insulina. I medici di famiglia, in particolare, dovrebbero essere consapevoli del fatto che circa il 10 per cento del diabete tipo 2 ha la LADA. In definitiva si può concludere che, sulla base dell’eziologia, il diabete mellito è classificato in tipo 1, tipo 2, autoimmune latente, dell'età adulta dei giovani e per cause varie. La diagnosi si basa sulla misurazione del livello dell’A1C, la glicemia a digiuno o casuale o il test di tolleranza al glucosio orale. Anche se ci sono orientamenti contrastanti, molti concordano sul fatto che i pazienti con ipertensione o iperlipidemia devono essere sottoposti a screening per il diabete. I calcolatori di rischio del diabete hanno un alto valore predittivo negativo e aiutano a definire i pazienti che non rischiano di avere la malattia. I test che possono agevolare a stabilirne il tipo o la continua necessità d’insulina sono quelli riflettenti la funzione delle cellule-β, come i livelli del peptide C e dei marcatori di distruzione immuno-mediata delle cellule-β, come gli autoanticorpi contro le cellule insulari, l'insulina, l'acido glutammico decarbossilasi, la tirosina fosfatasi (IA-2a e IA-2beta). L'esame degli anticorpi, però, è limitato dalla sua disponibilità, dai suoi costi e dal loro valore predittivo.

LE RACCOMANDAZIONE “ADA” 2010 DEL DIABETE

Le novità introdotte dalle recenti linee guida dell’ADA (American Diabetes Association) si possono riassumere nei seguenti capitoli:

  • Inserimento di una sezione sul diabete, correlato alla fibrosi cistica nei "Principi di assistenza medica nel diabete", trae spunto dal fatto che le nuove evidenze hanno dimostrato che la diagnosi precoce della comorbidità in tal senso e il trattamento aggressivo con insulina riducono il divario di mortalità rispetto ai pazienti con una sola patologia, azzerando anche la differenza di sesso nei tassi di mortalità.
  • L’A1c è utile per la diagnosi del diabete, con una soglia del 6,5%.
  • La sezione in precedenza denominata "La diagnosi di pre-diabete" è stata ora chiamata "Categorie di aumentato rischio per il diabete", che include una gamma di A1c dal 5,7% al 6,4%, come pure un’alterata glicemia a digiuno e una ridotta tolleranza al glucosio.
  • La sezione "individuazione e diagnosi di GDM [diabete mellito gestazionale]" include una discussione di possibili futuri cambiamenti in questa diagnosi, secondo il consenso internazionale. Le raccomandazioni sullo screening del diabete gestazionale sono quelle di utilizzare l'analisi del fattore di rischio e un carico orale di glucosio, se opportuno. Le donne con diagnosi di diabete gestazionale dovrebbero essere sottoposte a screening per il diabete sei e dodici settimane dopo il parto e dovrebbero avere lo screening periodico futuro per il possibile successivo sviluppo di diabete o prediabete.
  • Ampia revisione si è praticata nella sezione " Educazione sull’autogestione del diabete", basata su nuovi elementi. Difatti, gli obiettivi di formazione sull’autogestione della malattia sono di migliorare l'adesione agli standard di cura, di educare i pazienti per quanto riguarda gli adeguati obiettivi glicemici e di aumentare la percentuale di pazienti che raggiungono i livelli target dell’A1c.
  • Ampia revisione è stata praticata nella sezione "Gli agenti antipiastrinici", sulla base dei recenti studi che suggeriscono che nei pazienti a basso o moderato rischio l'aspirina è di dubbio beneficio per la prevenzione primaria delle malattie cardiovascolari. La raccomandazione rivisitata è quella di considerare il trattamento con aspirina come strategia di prevenzione primaria nei pazienti con diabete ad aumentato rischio cardiovascolare, definito come un rischio a dieci anni superiore al 10%. Ad aumentato rischio cardiovascolare sono anche gli uomini più anziani dei cinquanta anni o donne di età superiore ai sessanta anni con almeno un ulteriore fattore di rischio maggiore.
  • La fotografia del fondo oculare può essere utilizzata come strategia di screening per la retinopatia, come descritto nella sezione " Screening e trattamento della retinopatia ". Tuttavia, anche se quella di alta qualità fa rilevare la maggior parte di retinopatie diabetiche clinicamente significative, non dovrebbe sostituire il primo esame completo a occhi dilatati. L’esame della retina deve essere eseguito annualmente, o almeno ogni 2 o tre anni, nei pazienti a basso rischio, con esito normale nella precedente visita.
  • Ampia revisione riporta la sezione "Cura del diabete in ospedale" con discussione dei benefici del controllo glicemico molto stretto nei pazienti critici.
  • Ampia anche la revisione nella sezione "Strategie per il miglioramento della cura del diabete", basate ora su nuovi elementi di prova. Le strategie di successo per migliorare la cura del diabete risiedono, comunque, nell’autogestione e auto misurazione e controllo dei livelli di A1c, dei lipidi e della pressione sanguigna.

Le pratiche più efficaci sono: una priorità istituzionale per la qualità delle cure, il coinvolgimento di tutto il personale nelle loro iniziative, l’incentivazione e l’educazione dei pazienti e l’utilizzo degli strumenti elettronici. Comprensibilmente, la gestione ottimale del diabete richiede un approccio sistematico organizzato e il coinvolgimento di un team coordinato di professionisti sanitari che lavorano in un ambiente dove la qualità delle cure rappresenta una priorità".

attuali criteri per la diagnosi di diabete

  • L’HbA1c deve corrispondere a ≥ 6,5%. Il test deve essere eseguito in un laboratorio con metodo NGSP (National Glicoemoglobina Standardization Program), certificato e standardizzato secondo l’analisi DCCT (Diabetes Control and Complications Trial).
  • La glicemia a digiuno deve essere ≥ 126 mg/dl a digiuno (7,0 mmol/l) ed è definita come glicemia in assenza di assunzione calorica da almeno otto ore.
  • La glicemia a due h deve essere ≥ 200 mg / dl (11.1 mmol/l) nel corso di un test di tolleranza al glucosio orale (OGTT). Il test deve essere eseguito come descritto dall’Organizzazione Mondiale della Sanità con un carico di glucosio contenente l'equivalente di 75 g di glucosio anidro, disciolti in acqua.
  • Una casuale glicemia plasmatica ≥ 200 mg / dl (11.1 mmol / l) definisce il paziente con i sintomi classici d’iperglicemia o di crisi iperglicemica.

Test per il diabete in pazienti asintomatici

  • Adulti asintomatici di qualsiasi età, in sovrappeso o obesi (BMI ≥ 25 kg/m2) e che hanno uno o più fattori di rischio per il diabete, devono eseguire test per individuare la malattia e valutarne il rischio in futuro. In quelli, senza questi fattori di rischio, il controllo dovrebbe iniziare all'età di quarantacinque anni. (B)
  • Se i valori sono normali, è bene ripetere i test almeno con tre anni d’intervallo. (E)
  • Per verificare il diabete o per valutarne il rischio in futuro, l’A1C, la FPG (glicemia a digiuno) o la glicemia a 2-h con OGTT di 75-g sono test appropriati. (B)
  • Negli individuati a maggior rischio per futuro diabete, vanno precisate le altre possibili malattie cardiovascolari (MCV) e i fattori di rischio, eventualmente da trattare. (B)

Individuazione e diagnosi di diabete mellito gestazionale

  • Fare esami per il GDM (diabete mellito gestazionale), analizzando i fattori di rischio e in caso eseguire l'OGTT. (C)
  • Le donne con GDM dovrebbero essere tutte sottoposte a screening per il diabete 6-12 settimane dopo il parto e dovrebbero essere seguite con lo screening per il successivo sviluppo di diabete o pre-diabete. (E)

Prevenzione del diabete di tipo 2

  • I pazienti con IGT (A), IFG (E), o un A1c di 5,7-6,4% (E) devono essere indirizzati a un programma efficace di sostegno continuo per la perdita di peso del 5-10% e di aumento per almeno 150 min/settimana di attività fisica moderata, come il camminare.

  • La consulenza nel follow-up sembra importante per il successo. (B)
  • Oltre al sostegno della consulenza sullo stile di vita, la metformina può essere iniziata nei casi di rischio molto elevato di sviluppo del diabete (combinazione di IFG e IGT più altri fattori di rischio, quali l’A1C> 6%, l'ipertensione, il basso colesterolo HDL, i trigliceridi elevati o storia familiare di diabete in un parente di primo grado), negli obesi e in caso di sessanta anni e oltre di età. (E)
  • Il monitoraggio per lo sviluppo di diabete nei pazienti con pre-diabete deve essere eseguito ogni anno. (E)

Controllo del glucosio

  • L'auto-monitoraggio della glicemia (SMBG) deve essere effettuato tre o più volte al giorno nei casi di terapia con iniezioni multiple d’insulina o terapia di pompa insulinica. (A)
  • Per i pazienti che usano iniezioni d’insulina meno frequenti, la terapia non insulinica o quella nutrizionale (MNT) da sola, lo SMBG può essere utile guida per il successo della terapia. (E)
  • Per raggiungere gli obiettivi di glicemia post-prandiale, lo SMBG postprandiale può essere opportuno. (E)
  • Quando si prescrive lo SMBG, bisogna garantirsi che i pazienti ricevano un'istruzione iniziale, e la valutazione del follow-up di routine della tecnica e che acquisiscano capacità di utilizzare i dati per regolare la terapia. (E)
  • Il monitoraggio continuo del glucosio (CGM), combinato con i regimi di terapia insulinica intensiva, può risultare uno strumento utile per abbassare l’A1C nei diabetici tipo 1, selezionati, d’età maggiore ai venticinque anni. (A)
  • Anche se le prove sulla riduzione dell’A1C sono meno forti nei bambini, adolescenti e giovani adulti, il CGM può essere utile in questi gruppi e il successo è correlato all’adesione di utilizzare questo dispositivo. (C)
  • Il CGM può essere uno strumento complementare allo SMBG nei casi di non consapevolezza dell’ipoglicemia e/o frequenti episodi d’ipoglicemia. (E)

A1C

  • Valutare l’A1C almeno due volte all'anno nei pazienti che sono a target del trattamento e con controllo glicemico stabile. (E)
  • Eseguire la prova A1C trimestralmente in pazienti che hanno cambiato terapia o che non rispettano gli obiettivi glicemici. (E)
  • L’uso di test point-of-care per l’A1C permette decisioni tempestive sui cambiamenti della terapia, quando necessario. (E)

Obiettivi glicemici negli adulti

  • L’abbassamento dell’A1C al di sotto o intorno al 7% ha dimostrato di ridurre le complicanze microvascolari e neuropatiche nel diabete di tipo 1 e di tipo 2. Pertanto, per la prevenzione delle malattie del microcircolo, l'obiettivo A1C per gli adulti e per le donne non gravide, in generale, è <7%. (A)
  • Nel diabete di tipo 1 e di tipo 2, trial randomizzati e controllati di trattamento glicemico standard versus quello intensivo non hanno mostrato differenze significative delle MCV durante la parte randomizzata delle prove. Il follow-up a lungo termine del DCCT e delle coorti dell’UKPDS (UK Prospective Diabetes Study) suggerisce che il trattamento con l’obiettivo di A1C al di sotto o intorno al 7%, negli anni subito dopo la diagnosi, è associato a riduzione a lungo termine del rischio di malattia macrovascolare. Pertanto, fino a quando non vi saranno maggiori prove a disposizione, l'obiettivo generale di <7% sembra ragionevole per la riduzione del rischio macrovascolare. (B)
  • L'analisi dei sottogruppi di sperimentazioni cliniche come il DCCT e UKPDS e le prove di proteinuria, ridotta nel processo ADVANCE, indicano un vantaggio, piccolo ma incrementale, nei termini dei risultati micro vascolari, con i valori di A1C più vicini alla normalità. Pertanto, per i singoli pazienti selezionati, i providers potrebbero ragionevolmente suggerire obiettivi di A1C ancora più bassi di <7%, pur di ottenere assenza di significative ipoglicemie o di altri effetti avversi dal trattamento. Tali pazienti potrebbero includere quelli con breve durata del diabete, con aspettativa di lunga vita e senza MCV significativa. (B)
  • Al contrario, obiettivi meno rigorosi di A1C, rispetto a <7%, possono essere appropriati per i pazienti con una storia d’ipoglicemia grave, aspettativa di vita limitata, avanzate complicanze microvascolari e macrovascolari o comorbidità estese e quelli con diabete di lunga data in cui il generale obiettivo sia difficile da raggiungere, nonostante l’istruzione all’auto-gestione, il monitoraggio del glucosio appropriato, le dosi efficaci e multiple di agenti ipoglicemizzanti, tra cui l'insulina. (C)

MAGGIORE IMPEGNO SUL PREDIABETE

Linda S Geiss e coll. del Centers for Disease Control and Prevention, Atlanta, GA, sulle premesse che meno del 10% degli adulti statunitensi con livelli di glicemia più alti del normale, ma non abbastanza per essere diabetici, è consapevole dell’alto rischio di sviluppare la malattia, potendo, invece  ridurlo attraverso modifiche dello stile di vita che includono i cambiamenti della dieta, l’aumento dell'attività fisica e la perdita di peso, hanno definito che  il primo passo per convincere la gente a fare qualcosa di vantaggioso consiste nella identificazione efficace delle persone a rischio e accrescerne la consapevolezza con programmi di modifica dello stile di vita (Am J Prev Med doi:10.1016/j.amepre.2009.12.029). Gli studiosi hanno, così, scoperto che quasi il 30% dei 1.402 adulti, intervistati nel National Health and Nutrition Examination Survey 2005-2006, aveva il pre-diabete e che solo il 7,3% ne era a conoscenza. Peraltro, anche se la maggioranza degli intervistati aveva effettivamente avuto contatto con un medico durante l'anno precedente, solo un terzo dei prediabetici adulti aveva ricevuto consigli dagli operatori sanitari su come migliorare i propri comportamenti. Il consiglio del medico è, invece, fondamentale ed è la chiave per modificare i comportamenti. Difatti, circa il 75% delle persone, consigliate da un medico di adottare sani stili di vita, aveva cercato di farlo, rispetto a circa il 50% del totale.

SINDROME METABOLICA: Definizione al capolinea?

Una nuova definizione, comune a un certo numero di organizzazioni scientifiche, è stata individuata per i criteri specifici di diagnosi clinica della sindrome metabolica, in rapporto ad un inasprimento delle differenze derivate dalla definizione, sino a poco tempo fa adottata. Il documento, redatto da autori appartenenti alle più prestigiose associazioni scientifiche che s’interessano della sindrome, rappresenta il tentativo di rendere la definizione globale, segnando un passo avanti per non continuare a confondere quanti lavorano in questo campo. In particolare, la nuova definizione snellisce le differenze legate all'obesità addominale, definita con la misura della circonferenza addominale, uno dei cinque criteri per la diagnosi della sindrome. Ora, i criteri si basano sulla popolazione e le definizioni specifiche per ciascun paese, rimanendo, peraltro, le differenze regionali.

Tre elementi anomali su cinque sono sufficienti per definire la sindrome, considerando che per la circonferenza della vita si attendono ulteriori dati di soglia nazionali o regionali.

Da notare al proposito che l'ADA, American Diabetes Association, per questioni scientifiche irrisolte con le altre associazioni, tra cui l'AHA, si è dissociata da questa dichiarazione. In particolare, l'ADA, così come l'Associazione europea per lo studio del Diabete (EASD), ha contestato il modo con cui la sindrome metabolica è caratterizzata come fattore di rischio per le malattie cardiache o il diabete, sostenendo che non vi è alcuna necessità della sua diagnosi, in quanto l'accento deve essere posto sul trattamento aggressivo dei fattori di rischio individuali. Nel 2005, in effetti, l'ADA e l’EASD si erano già dichiarate congiuntamente critiche sulla valutazione della sindrome metabolica, come sindrome autonoma, e sulla sua utilità clinica.

ORLISTAT VENDUTO SENZA CONTROLLO

L’associazione Altroconsumo, a seguito di un’inchiesta su cinquantotto farmacie, nove parafarmacie e tre corner ipermercati di sei città italiane, ha potuto verificare che il farmaco orlistat, di recente libera vendita in Europa, potrebbe essere acquistato facilmente senza controllo. Difatti, il 47% dei farmacisti ha permesso di ottenere il farmaco senza altro aggiungere, se non il suo costo. Questo farmaco, primo a essere venduto in Europa senza ricetta medica per combattere l’obesità, è disponibile di recente anche in Italia, non come SOP, ossia con libera vendita ma divieto di pubblicità, al dosaggio di 60 mg. Da notare che la FDA statunitense nell’agosto 2009 ha posto le basi di uno studio sulla sicurezza del farmaco, venduto in USA contro l’obesità nella formula di OTC, ossia con libera vendita con pubblicità, in rapporto a trentadue segnalazioni di grave epatopatia tra il 1999 e il 2008. In ventisette pazienti è stato necessario il ricovero ospedaliero. Al 30 giugno 2009, comunque, il database del gruppo interregionale di farmacovigilanza riportava tre segnalazioni di reazioni avverse epatiche da orlistat. Peraltro, come ulteriore commento a quanto riportato, si deve ribadire che, oltre alla possibile epatotossicità, vanno considerati anche tutti i problemi dell’automedicazione. Emerge molto chiara la perplessità di un uso scorretto del farmaco a danno del paziente in una malattia come l’obesità, densa di problematiche e comorbidità, tanto da essere considerata, al momento attuale, una malattia epidemica ad alto rischio e a elevato costo.

ALLARME NUBE DA ERUZIONE VULCANICA

L’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) ha diramato un comunicato nei riguardi del rischio potenziale per la salute da parte delle particelle di cenere seguite all’eruzione del vulcano Eyjafjallajökull in Islanda.
Le persone con asma e altre malattie croniche respiratorie, come l'enfisema o la bronchite, possono essere più sensibili alle irritazioni se la cenere è nella bassa atmosfera o in alte concentrazioni. Difatti, la nube di cenere, derivante dall'esplosione, contiene particelle molto piccole di vetro, ma, finché rimane in atmosfera, è improbabile che possa causare effetti indesiderati sulla salute.
Le piccole particelle di dimensioni inferiori ai dieci micron sono le più pericolose perché possono penetrare più in profondità nei polmoni e le stime attuali indicano che circa il 25% sono di tale grandezza. Peraltro, esse possono variare da paese a paese, secondo il vento e della temperatura dell'aria. Comunque, in caso di sintomi d’irritazione di gola e respiratori all’aperto è consigliabile il rientro in luoghi chiusi, evitando l’intenso esercizio fisico.

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NOTIZIARIO Marzo 2010 N°3

A cura di Giuseppe Di Lascio

 

Con la collaborazione di:

Bagalino Alessia, Bauzulli Doriana, Di Lascio Alessandro, Di Lascio Susanna, Levi Della Vida Andrea, Melilli Simonetta, Pallotta Pasqualino, Sesana Giovanna, Stazzi Claudio, Zimmatore Elena

FOSFORO SERICO COME MARKER DI RISCHIO CARDIOVASCOLARE

Ravi Dhingra e coll. del Framingham Heart Study, sulle basi della dimostrazione di studi sperimentali sui topi, che, privi dei geni che regolano il metabolismo del fosforo, sviluppano invecchiamento precoce, l'arteriosclerosi, e calcificazione vascolare, considerando che, allo stesso modo, i pazienti con malattia renale cronica, o postinfanfartuati, ma con funzionalità renale normale, presentano un'associazione tra i livelli di fosforo elevato con tutte le cause di mortalità e/o un aumento di eventi cardiovascolari, hanno voluto rispondere al quesito se, in una comunità campione, senza alta prevalenza di una malattia renale cronica o infarto miocardico, i livelli serici di fosforo potessero rispondere a un aumento di malattia cardiovascolare sopra un range di riferimento (Arch Intern Med 2007; 167:8-79-885). A tale proposito, gli AA. hanno raccolto prospetticamente, nel corso di un follow-up medio di 16 anni, informazioni su 3.368 partecipanti allo studio Framingham Offspring, inclusa la fosforemia basale, la calcemia, oltre l'incidenza di malattia cardiovascolare. L'aumento dei livelli serici di fosforo si è associato a un aumentato rischio di eventi cardiovascolari, 524 dei quali si è verificato durante il periodo di studio, fino anche dopo aggiustamento per i prestabiliti fattori di rischio, i livelli di PCR, la velocità di filtrazione glomerulare (F.G.) e gli altri marcatori della malattia renale. I quartili di fosforemia più alti presentavano il rischio di malattia cardiovascolare del 50% maggiore rispetto al quartile più basso. Peraltro, le persone con funzionalità renale normale hanno presentato un rischio aumentato della stessa entità del campione globale. Da notare, che i livelli serici di calcio non hanno dimostrato alcuna associazione con il rischio cardiovascolare. Come possibile spiegazione si può avanzare che l'iperfosforemia potrebbe inibire la sintesi di vitamina D, la cui inadeguatezza favorisce la malattia vascolare e la calcificazione coronarica. Ma potrebbe, la stessa iperfosforemia, promuovere direttamente la malattia vascolare secondo una sua proprietà di facilitare la deposizione minerale nelle cellule muscolari lisce vascolari con consequenziale calcificazione coronarica. Ma anche i livelli di ormone paratiroideo, secondariamente aumentati per l'iperfosforemia, possono causare uno stato pro-infiammatorio.

INTEGRAZIONI DI CALCIO/VITAMINA "D" ED EVENTI CARDIOVASCOLARI

J udith Hsia e coll. della George Washington University, Washington, hanno valutato il rischio di eventi coronarici e cerebrovascolari nel trial randomizzato del Women's Health Initiative di calcio e vitamina D su 36.282 donne in postmenopausa dai 50 ai 79 anni di età, di 40 sedi cliniche, trattate con 500 mg di carbonato di calcio e 200 UI di vitamina D due volte il giorno o placebo (Circulation. 2007;115:846-854). Durante i sette anni di follow-up, l'infarto miocardico o la morte per malattia coronarica sono stati confermati in 499 donne del gruppo del calcio/vitamina D e in 475 del gruppo placebo (HR 1.04; IC 95%, 0,92-1,18). L'ictus è stato confermato in 362 donne assegnate al calcio/vitamina D e in 377 del gruppo placebo (HR 0.95; IC 95%, 0,82 a 1,10). Nelle analisi dei sottogruppi, le donne con più elevata assunzione di calcio totale (dieta più supplementi) al basale non hanno presentato un rischio più alto di eventi coronarici (P = 0.91 per confronto) o d'ictus (p = 0.14 per confronto), se assegnato al gruppo di calcio/vitamina D. In conclusione, il trattamento per un periodo di sette anni di calcio/vitamina D non ha dimostrato aumento né diminuzione del rischio coronarico o cerebrovascolare in donne sane in postmenopausa.

IPOVITAMINOSI "D" E FATTORI DI RISCHIO CV

David Martins e coll. della Charles R Drew University of Medicine and Science hanno utilizzato i dati NHANES, raccolti tra il 1988 e il 1994 per valutare il legame tra i livelli di vitamina D e i fattori di rischio cardiovascolare (Arch Int Med 2007; 167:1159-1165). La prevalenza corretta per obesità, diabete, elevati livelli serici di trigliceridi e pressione alta sono risultati significativamente più elevati nel quartile più basso della 25-idrossivitamina D serica rispetto a quelli del quartile più alto e le donne, gli anziani e le minoranze etniche hanno dimostrato livelli più bassi di vitamina. Nel complesso, più della metà di quasi tutti i sottogruppi esaminati mostrava livelli insufficienti di 25-idrossivitamina D, anche per gli standard attuali (<30 ng/mL).

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CARENZA DI VITAMINA D ASSOCIATA CON UN AUMENTO DELLA MORTALITÀ

Harald Dobnig e coll. del Medical University of Graz, Austria), prendendo atto che il 50% - 60% delle persone non hanno lo status di vitamina D soddisfacente, in ragione probabilmente a fattori come l'urbanizzazione, le nuove tendenze demografiche, la ridotta attività all'aperto, l'inquinamento atmosferico e l'oscuramento globale e che la produzione cutanea di vitamina D diminuisce con l'età, ribadendo che recenti studi hanno mostrato l'associazione tra i livelli di bassa 25 (OH) D con importanti fattori di rischio cardiovascolare, sostenendo i risultati precedenti che hanno dimostrato gli effetti positivi della vitamina D e suoi analoghi sulla fibrinolisi, lipidi nel sangue, trombogenicità, rigenerazione endoteliale e la crescita delle cellule muscolari liscie, insieme di fattori che sostengono fortemente gli effetti benefici della 25-idrossivitamina D sul sistema cardiovascolare, peraltro, indipendenti del metabolismo del calcio, osservando che ci sono pochi studi sull'associazione della vitamina D endogena con il grado di mortalità totale e cardiovascolare, hanno eseguito uno studio prospettico di coorte su 3.258 pazienti, arruolati per angiografia coronarica nello studio LURIC, seguiti per una media di 7,7 anni (Arch Intern Med 2008; 168:1340-1349). Durante lo studio sono deceduti 737 soggetti (22,6%), di cui 463 per cause cardiovascolari. I risultati durante il follow -up hanno mostrato che i due quartili inferiori di 25-idrossivitamina D basale (in media, 7,6 e 13,3 ng/mL) e, soprattutto quelli nel quartile più basso, presentavano un rischio significativamente più elevato di mortalità per tutte le cause.

Simili risultati si sono ottenuti per la mortalità cardiovascolare, approssimativamente raddoppiata nel quartile più basso rispetto a quello più alto, mentre i livelli minimi di 25-idrossivitamina D erano significativamente correlati con gli indicatori d'infiammazione (CRP e IL-6), con lo stress ossidativo (livelli dei fosfolipidi del siero e del glutatione) e con le cellule di adesione (livelli di molecole di adesione delle cellule vascolari-1 e di molecole di adesione intercellulare-1). Tali risultati hanno dimostrato che un basso livello di 25-idrossivitamina D può essere considerato un indicatore di rischio per tutte le cause di mortalità nelle donne e negli uomini, a prescindere dal grado di malattia coronarica visto all'angiografia. Peraltro, l'associazione elevata con i marker dell'infiammazione nello studio suggerisce proprietà anti-infiammatorie della vitamina "D" e le conseguenze legate allo stress ossidativo e a una maggiore adesione delle cellule suggeriscono che i bassi livelli di vitamina D possono influenzare negativamente la funzione vascolare biologica in molteplici modi. Ma potrebbero invocarsi altri meccanismi riguardanti gli effetti sulla mortalità relativa al basso livello di vitamina D comprendenti le MMP (metalloproteinasi di matrice) che hanno dimostrato di influenzare la produzione e la stabilità della placca, la maggiore suscettibilità alle calcificazioni arteriose o un aumento del messaggero renina-espressione di RNA.

CARENZA DI VITAMINA D: FATTORE DI RISCHIO PER IL CUORE?

Thomas Wang e coll. del Massachusetts General Hospital, Boston, sulla base che non meno da un terzo alla metà degli adulti anziani sani presenta una carenza di vitamina “D”, hanno studiato prospetticamente la relazione tra lo stato di essa per l'incidenza di eventi cardiovascolari in 1.739 persone prive di malattia cardiovascolare basale, di razza bianca, ambulatoriali, di età media di 59 anni; donne per il 55%, facenti parte del Framingham Offspring Study (Circulation. 2008;117:503-511).

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Il 28% aveva livelli inferiori ai 15 ng/ml e il 9% livelli inferiori ai 10 ng/mL, soglie che caratterizzano i diversi gradi di carenza della vitamina. Durante un follow-up medio di 5.4 anni, 120 individui hanno sviluppato un primo evento cardiovascolare e, dopo aggiustamento per i tradizionali fattori di rischio, gli individui con livelli di 25-OH D inferiori ai 15 ng/mL avevano un aumentato rischio d'incidente di eventi cardiovascolari rispetto a quelli con livelli di 25-OH D superiori ai 15 ng/mL.

Il rischio maggiore, associato a carenza di vitamina, è stato particolarmente evidente tra gli individui affetti da ipertensione, nei quali i livelli di 25-OH D inferiori ai 15 ng/mL erano associati a un duplice rischio di eventi cardiovascolari, mentre non vi era alcuna correlazione nei partecipanti senza ipertensione.

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MAGGIORI EVIDENZE SULL'AUMENTO DI MORTALITÀ IN CARENZA DI VITAMINA "D"

Michal L Melamed e coll. dell'Albert Einstein College of Medicine, Bronx, NY hanno seguito 13.331 adulti, dai 20 anni e oltre, (Arch Intern Med 2008; 168: 1629-1637) per esplorare l'associazione tra livelli di vitamina "D" e mortalità per tutte le cause, per il cancro e per gli accidenti cardiovascolari nella popolazione generale del NHANES III (Third National Health and Nutrition Examination Survey NHANES). I livelli di vitamina dei partecipanti sono stati raccolti tra il 1988 e il 1994 e gli individui sono stati seguiti per la mortalità passivamente sino al 2000. L'età, il sesso femminile, la razza non bianca, il diabete, il fumo in corso e il maggiore indice di massa corporea (IMC) sono risultati indipendentemente associati a un livello carenziale più elevato di vitamina (quartile inferiore di 25 [OH]D <17,8 ng/mL). Durante 8,7 anni di follow-up, ci sono state 1.806 morti, di cui 777 per malattia cardiovascolare e, dopo aggiustamento multivariato, il quartile più basso rispetto al più alto di vitamina (> 32,1 ng/mL) ha presentato un rapporto di tasso di mortalità di 1,26 (IC 95% 1,08-1,46) con un rischio attribuibile alla popolazione del 3,1%. Il rapporto del tasso di mortalità cardiovascolare tra il più basso quartile vs il più alto è stato 1,20 (IC 95% 0,87-1,64) e 0,91 per la mortalità per cancro (IC 95% 0,62-1,31). In conclusione i quartili con i più bassi livelli di vitamina "D" presentavano un rischio di mortalità per tutte le cause del 26% più elevato e un simile rischio di mortalità aumentato per malattia cardiovascolare, sebbene quest'ultimo non fosse statisticamente significativo. Non si evidenziava, invece, un'associazione tra bassi livelli di vitamina e la mortalità per cancro o altre cause di morte. Il rischio di mortalità per i quartili più bassi di vitamina "D" è stato più evidente in coloro senza malattia cardiovascolare all'inizio dello studio, rispetto a coloro che la dichiaravano nell'anamnesi, suggerendo che, forse, il ruolo della vitamina "D" nella malattia cardiovascolare si realizza prima che la malattia sia stabilita. Inoltre, come in altri studi, gli AA. hanno trovato che in alcuni sottogruppi dello studio, in particolare nelle donne, i livelli molto elevati di vitamina potevano essere dannosi, portando a consigliare 'livelli ottimali' con controlli periodici nella cura dell'osteoporosi, dell'obesità e delle minoranze etniche. Il consiglio più sensato, per chi vuole garantire il livello ottimale di vitamina, comunque, rimane quello di spendere dai 10 ai 15 minuti il giorno al sole e di mangiare cibi arricchiti, come il latte e pesce grasso.

ADOLESCENTI CON BASSA VITAMINA "D" PIÙ PREDISPOSTI AI FATTORI DI RISCHIO CARDIOVASCOLARE

Jared P Reis e coll. del Johns Hopkins Medical Institutions, Baltimore, sulla base che crescenti evidenze indicano la carenza di vitamina D negli adulti, ma non negli adolescenti, come possibile aumento del rischio d'ipertensione, diabete e malattia cardiovascolare, hanno analizzato i dati di 3.577 adolescenti dai 12 ai 19 anni, nel 51% maschi, che hanno partecipato al NHANES 2001-2004 (National Health and Nutrition Examination Survey) (AHA 49th Annual Conference on Cardiovascular Disease Epidemiology and Prevention; March 11, 2009; Palm Harbor).

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Gli adolescenti presentavano 25 (OH) D media nel siero di 24,8 ng/mL e quelli con i livelli nel quartile più basso (<15 ng / mL) dimostravano, con maggiore probabilità, la sindrome metabolica, l'iperglicemia e l'ipertensione, rispetto a quelli con i livelli nel quartile più alto (> 26 ng / mL).
La media dei livelli di vitamina è stata più bassa negli afro-americani (15,5 ng /mL), intermedia negli americani del Messico (21,5 ng/mL) e più alta nei bianchi (28,0 ng/mL), probabilmente per la differente presenza di melanina nella pelle. Bassi livelli di vitamina sono stati, anche, fortemente associati con il sovrappeso e l'obesità addominale (p <0,001 per entrambi), probabilmente per sequestro della sostanza nel tessuto adiposo. Secondo alcune ricerche, la carenza di vitamina negli adulti e negli adolescenti è aumentata considerevolmente negli ultimi 20 anni, come, peraltro, riportato nel marzo 2009 dal National Health and Nutrition Examination Survey 1988-1994 and 2001-2006 negli Stati Uniti. I dati di tale studio hanno riportato che la prevalenza d'ipovitaminosi 25 (OH) D nel siero, sotto gli 11 ng/mL, è passata dal 2,6% del 1988 – 1994 al 9,2% del 2005-2006. La prevalenza nel corso del periodo 2001-2006 è salita al 28% sino al 40% in caso di definizione di soglie di 20 ng/ml e al 70% sino all'80% in caso di cutoff di 30 ng/ml. L'American Academy of Pediatrics, in ragione di ciò, raccomanda, infatti, di seguito un apporto giornaliero di vitamina pari a 400 UI, che può derivare dal consumo di latte, pesce azzurro o cibi fortificati o dall'esposizione dai 10 ai 15 minuti al sole. Da notare, però, che altri esperti suggeriscono fabbisogni di almeno 1000 UI il giorno.

LEGAME GENETICO TRA LA VITAMINA "D" E SCOMPENSO

Robert Simpson e coll. dell'University of Michigan, Ann Arbor, MI, sulla base della grande quantità d'informazioni attuali sull'importanza della vitamina "D" per la salute cardiovascolare e della presenza nel tessuto cardiaco del recettore per la sostanza, per cui l'ipovitaminosi è stata associata in studi precedenti a maggiori rischi di malattie coronariche, influenzando, anche, la gravità e la progressione dell'insufficienza cardiaca congestizia, tenuto conto che l'enzima CYP27B1 è responsabile della bioattivazione della vitamina, ipotizzando che nello scompenso cardiaco ci sarebbe maggiore probabilità di incontrare una sua variante genetica, una mutazione che inibisce l'enzima e, di conseguenza, che ne riduce la conversione in ormone attivo, hanno selezionato i profili genetici di 617 persone, analizzando i polimorfismi funzionali di cinque geni candidati-CYP27B1, CYP24A1, VDR, REN, e ACE, coinvolti nella regolazione della produzione della vitamina e della sua attivazione (Pharmacogenetics 2009; 10:1789-1797). Dei 617 soggetti, 205 erano ipertesi con insufficienza cardiaca congestizia, 206 solo ipertesi e 206 sono serviti come controlli per età e sesso. L'analisi di regressione ha dimostrato che un polimorfismo di un singolo nucleotide (SNP) in CYP27B1 si è associato negli ipertesi con insufficienza cardiaca congestizia, mentre negli ipertesi omozigoti per l'allele C dello SNP rs4646536 si riscontrava un aumento più del doppio del rischio d'insufficienza cardiaca congestizia, (Odds Ratio 2.14, IC 95% 1,05-4,39). Per il rs4646536 il genotipo omozigote CC era presente nel 12,7% degli individui con ipertensione e insufficienza cardiaca e nell'8,7% di quelli con sola ipertensione senza chiari meccanismi di associazione delle due condizioni. I ricercatori, comunque, facendo notare che i partecipanti allo studio erano prevalentemente di razza bianca, hanno sollecitato ulteriori studi in diversi gruppi etnici per una conferma che porterebbe a considerare attentamente le mutazioni genetiche del CYP27B1 e permetterebbe di conoscere più adeguatamente il rischio dell'insufficienza cardiaca. A tale proposito, lo studio VITAL (Vitamin D and Omega-3 Trial), sponsorizzato dal National Institutes of Health ed i cui risultati sono attesi per il 2014, è in corso con l'obiettivo di valutare se la supplementazione di vitamina D e/o acidi grassi omega-3- in 20.000 soggetti può ridurre il rischio di sviluppare malattie cardiache, ictus o cancro.

LO STUDIO WHI CAD

Andrea Z. LaCroix e coll. del Fred Hutchinson Cancer Research Center, Seattle, Washington, hanno condotto lo studio "The Women's Health Initiative Calcium–Vitamin D Randomized Controlled Trial" su 36.282 donne in post-menopausa, dai 51 agli 82 anni, provenienti da 40 centri clinici statunitensi, assegnate a 1.000 mg di carbonato di calcio elementare e 400 UI di vitamina D3 il giorno o placebo per un follow-up medio di 7,0 anni ((J Gerontol A Biol Sci Med Sci. 2009 May;64(5):559-67). Lo HR per la mortalità totale era 0,91 (IC 95% 0,83-1,01), con 744 decessi in donne randomizzate a malattia coronarica vs 807 decessi nel gruppo placebo. Lo HR è stato nella direzione della riduzione del rischio, non significativa per l'ictus e la mortalità per cancro, ma vicino l'unità per la malattia coronarica e per altre cause di morte. Lo HR per la mortalità totale era 0,89 in 29.942 donne di età inferiore ai 70 anni (IC, 95% 0,79-1,01) e 0,95 in 6.340 donne di età compresa tra 70 e oltre (IC, 95% 0,80-1,12; valore di p per l'età d'interazione = ,10 ). Nessuna interazione statisticamente significativa è stata osservata per tutte le caratteristiche di base e gli effetti del trattamento non variavano significativamente da stagione a stagione. Nello studio la supplementazione non ha avuto un effetto statisticamente significativo sulla mortalità, ma i risultati hanno confermato la possibilità che gli integratori usati hanno potuto ridurre i tassi di mortalità nelle donne in post-menopausa. Questi dati, in effetti, non possono allo stato attuale fornire né particolare sostegno, né smentire le raccomandazioni per una maggiore dose di supplementazione di vitamina "D" per ridurre il cancro o la mortalità totale.

IPOVITAMINOSI "D" RAZZA E MORTALITÀ CARDIOVASCOLARE

Kevin Fiscella e coll. dell'University of Rochester School of Medicine, NY, considerando che le persone di colore hanno bassi livelli di vitamina "D" e che gli afro-americani hanno più alti tassi di malattie cardiovascolari rispetto alla popolazione bianca, hanno condotto uno studio retrospettivo di coorte, analizzando l'associazione di 25 (OH) D serica con i livelli di mortalità cardiovascolare e osservando il possibile contributo dei livelli della vitamina alla disparità tra neri e bianchi sulla mortalità cardiovascolare (Ann Fam Med 2010; 8:11-18).

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A tal fine, hanno usato i dati di base del National Health and Nutrition Examination Survey, raccolti su 15.363 persone tra il 1988 e il 1994 (NHANES III) e i dati sulla mortalità da causa specifica fino al 2001 del National Death Index. I risultati hanno mostrato che i soggetti con 25 (OH) D nel quartile più basso (in media 13,9 ng/mL), rispetto a quelli dei tre quartili più alti (in media 21,6, 28,4 e 41,6 ng/mL), avevano un maggiore rischio aggiustato di morte cardiovascolare. Si documentava, peraltro, un effetto soglia con riduzione minima del numero di decessi cardiovascolari sopra il 25° percentile, mentre il quartile più basso aveva un rischio aggiustato di mortalità cardiovascolare del 40% in più, rispetto agli altri tre quartili di 25 (OH) D (IC 95% 16% -69%, p = 0,001). Il rapporto tra razza e mortalità cardiovascolare e il potenziale effetto di mediazione della 25 (OH) D sono stati esaminati in una serie di modelli codificati. Nel modello di regolazione solo per le variabili esterne (età, sesso, mese e regione), i neri hanno dimostrato una mortalità cardiovascolare significativamente più alta rispetto ai bianchi (rapporto tra tasso d'incidenti [IRR] 1,38). Quando è stata aggiunta la 25 (OH) D, c'è stata una significativa riduzione di circa il 60% del rischio associato con la razza nera (IRR 1,14) e, quando si sono sommati al modello la 25 (OH) D e il reddito, l'aumento del rischio nei neri è stato completamente eliminato (IRR 1,01), dimostrandosi, così, per questi due fattori una separata azione di effetto sulla mortalità cardiovascolare nei neri.

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Bisogna considerare che, se vi sono limitati studi randomizzati e controllati per quanto riguarda l'impatto della supplementazione di vitamina D sulle malattie cardiovascolari, esistono meta-analisi di studi clinici randomizzati sulla supplementazione di vitamina "D" per altri scopi, come ad esempio il miglioramento della densità ossea e la riduzione delle fratture, con abbassamento della mortalità per tutte le cause. Altri studi hanno, anche, suggerito che la supplementazione della vitamina può essere associata a riduzioni della pressione arteriosa sistolica e della proteinuria tra i pazienti con malattia renale cronica, suggerendo che le statine rappresentano analoghi della vitamina D. Ci sono, difatti, molti studi che collegano i bassi livelli di vitamina "D" al diabete, all'ipertensione e alle malattie vascolari periferiche, tutti driver delle malattie cardiovascolari. Sulla base anche di tale studio, pur considerando che le raccomandazioni attuali consigliano un apporto di vitamina di 400 unità giornaliere, si può prendere atto che le dosi possono essere molto più elevate per avere un effetto più deciso sulla prevenzione cardiovascolare.

STATINA E LIVELLI DI VITAMINA "D"

José Luis Pérez-Castrillón e coll. del Department Internal Medicine, Rio Hortega Universitary Hospital, C/ Dulzaina Spain, con l'obiettivo di valutare la risposta del colesterolo e dei trigliceridi all'atorvastatina in base ai livelli di vitamina "D", hanno studiato 63 pazienti dai 37 ai 79 anni, 40 uomini e 23 femmine tutte in menopausa, con infarto miocardico acuto trattato con dosi basse (10–20 mg) e alte (40–80 mg) di atorvastatina, raggruppati in ordine ai valori inadeguati (<30 nmol / L), insufficienti (30-50 nmol / L) e normali (> 50 nmol/L) di 25-idrossivitamina D (25-OHD) (Int J Endocrinol. 2010; 2010: 320721). Nei pazienti con 25-OHD <30 nmol/L non ci sono state variazioni significative nei livelli di colesterolo totale (173 ± 47 mg/dL verso 164 ± 51 mg/dL), dei trigliceridi (151 ± 49 mg/dl verso 177 ± 94 mg/dL), del colesterolo LDL (111 ± 48 mg/dl verso 92 ± 45 mg/dL), mentre nei pazienti con carenti (30-50 nmol/L) e con normalità (> 50 nmol/L) si è registrata una buona risposta all'atorvastatina. Per il C-HDL si è registrato un aumento in tutti i gruppi.

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I dati suggeriscono, pertanto, che, per ottenere livelli lipidici ottimali con l'atorvastatina nei pazienti con infarto miocardico acuto, le concentrazioni di vitamina "D" devono essere > 30 nmol/L e, quindi, il suo dosaggio dovrebbe essere previsto nei casi sospetti.

LA VITAMINA "D" RIDUCE IL LAVORO CARDIACO?

Robert K. Scragg e coll. dell'University of Auckland hanno esaminato i dati di oltre 27.000 adulti, che hanno preso parte al National Health and Nutrition Examination Surveys condotto tra il 1988 al 1994 e dal 2001 al 2006, per verificare se la vitamina "D" può proteggere contro le malattie cardiovascolari (Am J Cardiol 2010). I partecipanti con 25 (OH) D, di 10 ng/ml o meno nel siero, hanno dimostrato una frequenza cardiaca significativamente più rapida di 2,1 battiti al minuto con pressione arteriosa sistolica più alta di 1,9 mmHg, rispetto ai controlli con vitamina "D" di riferimento (almeno 35 ng/mL).
Per i soggetti con 25 (OH) D di 10-14,9 ng/ml, il corrispondente aumento della pressione sistolica era di 1,7 mm Hg. Nei soggetti con livelli di 10 ng/ml o meno il RPP (rate pressure product) aggiustato era più alto di 408, rispetto al gruppo di riferimento. Per quelli con livelli di 10-14,9 ng/mL, lo RPP era, invece, superiore del 245. Si dedurrebbe, quindi, che il cuore, nel caso di alti livelli di vitamina "D", si usura meno precocemente, lavorando in modo più efficiente a frequenza molto più bassa e risparmiandosi, pertanto, di spingere il sangue contro l'alta pressione aortica, rispetto al caso dei bassi livelli di vitamina.

SUPPLEMENTAZIONE DI CALCIO/VITAMINA "D" ED EVENTI CARDIOVASCOLARI

Judith Hsia e coll. del Department of Medicine, George Washington University, sulle premesse che la calcificazione vascolare o valvolare corrisponde ad aumentato rischio di eventi coronarici senza certezza della loro relazione con il consumo di calcio, hanno voluto valutare tale condizione nel Women's Health Initiative randomized trial (Circulation. 2007;115:846-854.). Hanno, così, randomizzato 36.282 donne in postmenopausa dai 50 ai 79 anni, trattate con carbonato di calcio 500 mg e vitamina D 200 UI due volte il giorno oppure con placebo. Durante i 7 anni di follow-up, l'infarto miocardico o la morte coronarica sono stati confermati in 499 donne del gruppo del calcio/vitamina "D" e in 475 assegnate al placebo (Hazard Ratio, 1.04; I.C. 95%= 0,92-1,18). L'ictus è stato confermato in 362 donne del gruppo calcio/vitamina "D" e in 377 assegnate al placebo (Hazard Ratio, 0.95; I.C. 95%, 0,82 a 1,10). Nelle analisi dei sottogruppi le donne con più elevata assunzione di calcio totale al basale (dieta più supplementi) non sono state a più alto rischio di eventi coronarici (P = 0.91 per interazione) o ictus (p = 0.14 per interazione), se assegnate al gruppo del calcio/vitamina D. In conclusione, la somministrazione di calcio/vitamina D non ha aumentato né diminuito il rischio coronarico o cerebrovascolare in donne sane in postmenopausa per un uso di 7 anni. Possibili spiegazioni potrebbero consistere in: (1) il background del calcio ha ridotto la capacità d'identificare l'effetto del trattamento; (2) la dose di vitamina è stata insufficiente; (3) la scarsa aderenza ai farmaci in studio ha attenuato qualsiasi effetto del trattamento; (4) la concomitante terapia ormonale in post-menopausa ha interferito con gli effetti del trattamento; (5) il progetto originale aveva la finalità di valutare gli effetti del calcio/vitamina per le fratture ma non per le malattie cardiovascolari; (6) il calcio e la vitamina non influiscono, di fatto, sul rischio cardiovascolare.

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Una limitazione dello studio è stata, di fatto, che le donne sono state autorizzate a continuare la loro supplementazione di calcio, proprio perché sarebbe stato non etico vietare l'uso concomitante del calcio per il lungo periodo del trial. Il consumo di calcio di base (dieta più integratori) è stato equilibrato tra i gruppi di trattamento e nessuna interazione significativa è stata osservata tra il consumo di calcio e la malattia coronarica e l'ictus.

È, DUNQUE, CERTO IL LEGAME DELLA VITAMINA "D" CON LE MALATTIE CARDIOVASCOLARI?

L'entusiasmo, derivato dall'ipotesi che la carenza di vitamina "D" potrebbe svolgere un ruolo nello sviluppo delle malattie cardiovascolari, ha stimolato, come descritto, un sempre crescente numero di ricercatori a raccomandare il largo uso della sua supplementazione nella popolazione generale, spesso a dosaggi superiori, rispetto a quelle storicamente raccomandate da parte delle autorità sanitarie.
In un primo documento Lu Wang e coll. del Brigham and Women's Hospital, Boston, hanno esaminato la letteratura scientifica alla ricerca specifica di documentazione relativa alla problematica, identificando sei studi prospettici che dimostrano le riduzioni di successivi eventi cardiovascolari tra gli adulti, tenendo la vitamina "D" al basale e altri quattro studi clinici controllati randomizzati con la vitamina "D" vs placebo (Ann Intern Med 2010; 152:315-323). Combinando insieme tutti i dati degli studi, è emerso che la supplementazione di vitamina "D" si è associata a una lieve riduzione, statisticamente non significativa, di eventi cardiovascolari (Rischio Relativo 0,90, IC 95% 0,77-1,05).
In un secondo documento Anastassios G Pittas e colleghi del Tufts Medical Center, Boston, hanno esaminato gli studi anglosassoni relativi ai livelli serici di 25 [OH] D e gli esiti cardiometabolici (Ann Intern Med 2010; 152:307-314.). In 10 studi la supplementazione di vitamina "D" è stata associata a una riduzione non significativa della pressione arteriosa sistolica, ma non ha avuto effetti evidenti sulla pressione arteriosa diastolica. L'incidente di malattia cardiovascolare si è correlato con la concentrazione di vitamina in cinque su sette analisi, ma non è stato riscontrato in quattro prove supplementari. Tre dei sei studi hanno riportato una maggiore incidenza di diabete nei gruppi con basso stato di vitamina "D" vs l'alto, ma otto non hanno trovato alcun collegamento tra la vitamina e la glicemia o l'incidente di diabete. Nel complesso, gli AA. concludono che l'associazione tra stato della vitamina "D" e gli esiti cardiometabolici è un dato ancora incerto.
In effetti, sono disponibili ancora pochi studi e, peraltro, con una notevole eterogeneità impedendo, per ora, conclusioni definitive.

Eliseo Guallar e Edgar R Miller della Johns Hopkins Bloomberg School of Public Health, Baltimore in un editoriale concordano sul fatto che le prove a sostegno della supplementazione di vitamina "D", per migliorare la salute cardiovascolare, rimangono incerte, ma sostengono, anche; che le prove a favore sono di gran lunga più promettenti rispetto ad altre vitamine o integratori minerali (Ann Intern Med 2010; 152:327-329).

LO STUDIO VITAL

IL National Institutes of Health ha sponsorizzato lo studio VITAL (the VITamin D and OmegA-3 TriaL) in cui verranno studiati per cinque anni 20.000, tra donne di età dai 65 anni e oltre e uomini dai 60 e oltre, senza storia di cancro, malattie di cuore o ictus, per verificare se 2000 UI di vitamina D e/o 1 g di olio di pesce (grassi omega-3) possano ridurre il rischio di sviluppare queste malattie.

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