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notiziario Dicembre 2010 N°12

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NOTIZIARIO Dicembre 2010 N°12

A cura di Giuseppe Di Lascio

 

Con la collaborazione di:

Bagalino Alessia, Bauzulli Doriana, Di Lascio Alessandro, Di Lascio Susanna, Levi Della Vida Andrea, Melilli Simonetta, Pallotta Pasqualino, Sesana Giovanna, Stazzi Claudio, Zimmatore Elena

SONNO E SALUTE

I disturbi del sonno

III^ parte

Giuseppe Di Lascio – Susanna Di Lascio

Imprinting stagionale dell’orologio circadiano

I fattori ambientali e, in particolare, la foto illuminazione sono in grado di influenzare notevolmente lo sviluppo neurale, potendo riorganizzare l'orologio biologico maturo del nucleo soprachiasmatico (SCN). Però, non essendo noto l’effetto del diverso fotoperiodo stagionale sull'orologio circadiano dei mammiferi, Christopher M  Ciarleglio e collaboratori della Vanderbilt University, Nashville, Tennessee – USA, hanno studiato il comportamento differenziale di topi di laboratorio (Nature Neuroscience, 2010; DOI: 10.1038/n.2699) nei meriti.I topolini, appena nati, sono stati mantenuti a cicli di un inverno artificiale o di luce estiva. Una volta maturi, sono stati posti al buio costante, osservando i loro comportamenti di attività. In tal modo, si è rilevato che i soggetti nati in inverno, indipendentemente dal fatto che fossero stati mantenuti in un ciclo di luce invernale o fossero stati spostati a un ciclo estivo dopo lo svezzamento, dimostravano un rallentamento consistente del loro periodo di attività giornaliera. Di poi, l’orologio master biologico cerebrale mostrava un pattern simile, con un rallentamento dell’attività dei geni coinvolti nella sua gestione nei topini nati in inverno, a differenza di quelli nati nel ciclo estivo. L'imprinting riguardava, quindi, sia il comportamento dell'animale stesso sia il ciclismo dei neuroni del master clock biologico. Inoltre, l'imprinting di attività del gene nei topini appena nati ha mostrato, più tardi nella vita, effetti drammatici ai cambiamenti di stagione sulla reazione dell'orologio biologico. Difatti, l’orologio biologico e il comportamento dei topi nati d'estate restavano stabili e in linea con il momento del crepuscolo, mentre quelli dei topi nati in inverno variavano notevolmente, una volta collocati in un ciclo di luce d'estate. In sostanza, i topini allevati nel ciclo invernale mostravano una risposta esagerata ai cambiamenti stagionali, in modo sorprendentemente simile ai malati del disturbo affettivo stagionale. È già noto, peraltro, che l'orologio biologico regola l'umore negli esseri umani e questo studio condurrebbe, di fatto, ad aggiungere che le variazioni stagionali del ciclo giorno/notte possano influenzare la personalità degli uomini, avendo un effetto su un certo numero di disturbi comportamentali, in virtù di una biologia stagionale e non di certo dell’astrologia. Negli esseri umani, gli studi, condotti negli emisferi sia a nord sia a sud del pianeta, hanno confermato che è la stagione invernale, e non il mese di nascita, che porta ad aumentare il rischio della schizofrenia. Ci sono, poi, molti possibili fattori stagionali che potrebbero influenzare lo sviluppo del cervello, tra cui l'esposizione al virus influenzale. Lo studio di Ciarleglio, però,dimostra che il ciclo stagionale della luce può influenzare lo sviluppo di una sua funzione specifica. Studi precedenti avevano già dimostrato, peraltro, che la luce può influenzare lo sviluppo di altre parti cerebrali, come il sistema visivo. Questo lavoro dimostra che ciò è vero anche per l'orologio biologico.

Durata del sonno e livelli di leptina, equilibrio neurovegetativo, regolazione del glucosio, del cortisolo e della tireotropina

La leptina, ormone rilasciato dagli adipociti, fornisce informazioni circa lo stato di energia ai centri di controllo nel cervello. Negli esseri umani, poi, le sue concentrazioni circolanti sono sensibili ai cambiamenti acuti del bilancio energetico, derivanti dall’aumentato o ridotto apporto calorico. L'ascesa notturna dei suoi livelli è dovuta in parte all'ingestione del pasto diurno. Pur tuttavia, costituisce prova che il sonno di per sé incide sulla sua regolamentazione quando esso si verifica di giorno nei soggetti trattati con nutrizione enterale continua con persistenza dell’elevazione dell’ormone.Peraltro, i più importanti sistemi ormonali, che interagiscono con la leptina e con la regolazione del sonno, sono l'asse ipotalamo-ipofisi-surrene e il sistema insulare, che controlla il glucosio. I glucocorticoidi negli esseri umani stimolano l'assunzione di cibo e la leptina e i livelli di cortisolo nelle 24 ore seguono percorsi speculari. Oltre alla loro relazione temporale inversa, forti interrelazioni sono state, inoltre, riportate tra la leptina e l'asse ipotalamo-ipofisi-surrene. Ancora, alcuni studi sulla totale o parziale privazione acuta del sonno hanno anche dimostrato un aumento dei livelli di catecolamine urinarie e plasmatiche per cui, essendo il rilascio della leptina inibito dall’attività del sistema nervoso simpatico, è possibile che la limitazione del sonno possa portare a ridurre i suoi livelli. Di fatto, la cortisolemia serale risulta elevata nei soggetti sottoposti a perdita di sonno sperimentale, così come negli insonni. Parallelamente, sono state segnalate variazioni diurne e pulsatili tra TSH e leptina in giovani adulti sani. In effetti, il profilo delle 24 ore del TSH plasmatico è notevolmente influenzato dalla privazione acuta di sonno totale, come pure da ricorrenti sue parziali riduzioni. L'insulina, peraltro, agisce in sinergia con il cortisolo nella regolazione della produzione di leptina con effetti ipnotici, quando somministrata nei roditori a livello centrale. È anche noto che il sonno gioca un ruolo importante nel bilancio energetico. Difatti, nei roditori la scarsità di cibo o la fame comporta una riduzione del sonno e, viceversa. La sua privazione totale, invece, causa l’iperfagia.L'identificazione dei neuropeptidi ipotalamici eccitatori, ipocretine o orexine, con potenti effetti di promozione del risveglio e di stimolo dell'assunzione di cibo in determinate condizioni, ha fornito anche una base molecolare per la comprensione delle interazioni tra la regolamentazione dell’alimentazione e del sonno. Sulla base della crescente evidenza del legame tra sonno e comportamenti alimentari, recenti studi sui roditori hanno indicato come l'attività neuronale dell’l’ipocretina e il rilascio dell’ipocretina-1 sono stimolate dalla privazione del sonno.

Karine Spiegel e collaboratori dell’University of Chicago, hanno, per l’appunto, misurato il profilo di 24 ore dei livelli di leptina in condizioni di restrizione del sonno e durante la sua estensione in giovani adulti sani, sotto controllo dell'apporto calorico e del dispendio energetico (The Journal of Clinical Endocrinology & Metabolism Vol. 89, No. 11 5762-5771). In particolare, lo studio ha valutato l'impatto della durata del sonno sui profili delle 24 ore dei livelli di leptina, sull'equilibrio simpatico-vagale, sul cortisolo, sul TSH, sul glucosio e sulle concentrazioni d’insulina in soggetti studiati dopo 6 giorni di restrizione di 4 ore di sonno e dopo 6 giorni di estensione di 12 ore in tempi diversi, in condizioni standard di 8 ore prima di coricarsi. I risultati hanno, così, dimostrano, in modo inequivocabile, che la durata del sonno ha un forte impatto sui livelli della leptina e sull’equilibrio simpatico-vagale cardiaco, sul cortisolo, sul TSH e sul metabolismo dei carboidrati.

Il legame biochimico tra orologio biologico e diabete

Eric Zhang e collaboratori dell’University of California di San Diego, hanno scoperto che il criptocromo, proteina chiave che regola l'orologio biologico dei mammiferi, interviene anche nella produzione di glucosio nel fegato e che, modulandone i livelli, si può migliorare la salute dei topi diabetici (Nature Medicine, 2010; DOI: 10.1038/n.2214). Fino ad ora, il criptocromo era conosciuto come proteina chiave all'interno del nucleo delle cellule, che attiva e disattiva i geni in modo ritmico nell'orologio biologico delle piante ed anche, di poi, dei moscerini della frutta e dei mammiferi. Ora, sorprendentemente i ricercatori hanno svelato una sua nuova funzione, mai prevista al di fuori del nucleo. Era, difatti, già noto che i topi, con orologi biologici non ottimali, tendono a sviluppare il diabete e l’obesità con un rapporto di reciprocità tra il ritmo circadiano e il mantenimento di un costante rifornimento di glucosio nel corpo. Il pensiero comune, però, era che il nostro metabolismo è regolato principalmente dagli ormoni che vengono rilasciati dal pancreas durante il digiuno o l'alimentazione. Questo lavoro porta oggi ad affermare che anche l'orologio biologico regola, come questi ormoni, il metabolismo. Ciò potrebbe spiegare, quindi, il motivo per cui i lavoratori turnisti, i cui orologi biologici sono spesso fuori fase, presentano un rischio maggiore di obesità e di resistenza all'insulina. Tale funzione aggiuntiva del criptocromo nelle cellule dei mammiferi disciplina, pertanto, il processo di gluconeogenesi con cui il nostro organismo può fornire un flusso costante di glucosio, permettendo al nostro cervello e al resto degli organi e delle cellule l’ottimale funzione. Difatti, da svegli e mangiando si assicura un sufficiente rifornimento di glucosio, ma da addormentati o nel digiuno, per mantenere i suoi livelli necessari, bisogna ricorrere al glicogeno immagazzinato nel fegato. Tale meccanismo molecolare del criptocromo si è evoluto per coordinare il nostro metabolismo energetico di concerto con la nostra attività diurna e i livelli di alimentazione. I ricercatori, in conformità a queste considerazioni, hanno avanzato con sequenzialmente l’ipotesi di sviluppo d’interessanti nuovi trattamenti per il diabete,modulando i livelli di criptocromo nel fegato. 

I cibi grassi della gravida fanno i bambini obesi

M. Suter P e collaboratori del Baylor College of Medicine di Houston hanno studiato tre gruppi di primati macaco giapponesi,  nutrendo un primo gruppo di controllo con una dieta al 12% di grassi, il secondo ad alto contenuto al 35% e il terzo fino a cinque anni con dieta ricca di grassi e poi riportato a quella normale dei controlli  (the FASEB Journal, 2010; DOI: 10.1096/fj.10-172080). Ogni gruppo ha mantenuto la dieta specifica prima del concepimento e per tutta la gravidanza. La prole del gruppo con dieta ad alto contenuto di grassi sviluppava, così, una steatosi epatica analcolica, sperimentava cambiamenti negli istoni, l'insieme di proteine che avvolgono tutto intorno al DNA, e presentava un alterato profilo metabolico e dei ritmi circadiani. I risultati, inoltre, dimostravano che i geni del fegato fetale, responsabili di dirigere i ritmi circadiani con l’appetito e l'assunzione di cibo e, in particolare, il Npas2, regolatore chiave del sistema circadiano, governato a sua volta dai cambiamenti nel codice dell'istone fetale, nei nati dalle madri in dieta ricca di grassi erano alterati. La normalizzazione della dieta della madre, sia in stato di gravidanza sia in allattamento o anche dopo la nascita della prole, aiutava a ripristinare parzialmente la macchina circadiana verso la normalità, diminuendo, forse, il rischio di malattie infantili legate all'obesità.Peraltro, i ricercatori avevano già recentemente pubblicato una serie di studi sulla Gazzetta FASEB, dimostrando che il tipo di alimentazione della madre incideva sul peso dei suoi figli per tutta la vita.La dieta della madre durante la gravidanza deve sicuramente influenzare i meccanismi del sonno dei figli, attraverso processi genetici che controllano il ciclo del sonno. Ciò deve, quindi, rappresentare un preciso campanello d'allarme per le donne incinte. 

Traffico notturno ed alterazioni del sonno

Come più volte ribadito, l’OMS, sulla base della definizione di salute, rispondente non semplicemente alla semplice assenza di malattia o infermità ma a uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, in ragione anche dell’ambiente in cui si vive, riconoscendo il suo godimento come uno dei fondamentali diritti di ogni cittadino, considerando il rumore ambientale una minaccia e un impattonegativo nei meriti, al fine di sostenere gli sforzi degli Stati membri, nel 1999 ha rilasciato linee guida, rivalutate nel 2006.

La revisione dei dati disponibili ha portato a precise conclusioni.

  • Il sonno è una necessità biologica e il disturbo del sonno si associa a effetti negativi sulla salute.
  • Gli effetti biologici del rumore, mentre si dorme, sono le interruzioni del sonno con variazioni delle sue modalità e del risveglio e aumento della frequenza cardiaca.
  • L'esposizione al rumore notturno è causa di disturbi del sonno auto-percepiti, aumento nel consumo dei farmaci e dei movimenti del corpo, insonnia.

In effetti, il rumore, inducente i disturbi del sonno e stimato come un problema di salute in sé, deve essere anche considerato causa diulteriori conseguenze sulla salute e sul benessere individuale.

Esso, di solito definito come un qualsiasi tipo di suono irritante e invadente, oggi giorno, ha assunto, invero, un importante valore in campo socio sanitario, come preoccupazione ambientale d’inquinamento acustico. Tale condizione viene definita propriamente dalla legge n. 447/1995 art. 2, detta anche legge quadro sull'isolamento acustico. Essa, difatti riporta: “'introduzione di rumore nell'ambiente abitativo o esterno, tale da provocare fastidio o disturbo al riposo e alle attività umane, pericolo per la salute, deterioramento degli ecosistemi, dei beni materiali, dei monumenti, dell'ambiente abitativo o esterno o tale da interferire con le normali funzioni degli ambienti stessi”. Peraltro, una distinzione tecnica e oggettiva tra un segnale acustico, nel suo senso più ampio, e un rumore deriva dalle caratteristiche particolari, sia nel tempo sia nella frequenza del primo, che di solito mancano nel secondo. Il rumore tende, comunque, a evocare le risposte fisiologiche caratteristiche dello stress, portando diversi ricercatori a prendere in considerazione l'ipotesi che l'esposizione a lungo termine a esso contribuisce alla genesi di malattie gravi. In effetti, l’esposizione al rumore si associa all’elevata probabilità di effetti nocivi alla salute dell’uomo che, oltre a quelli psicosociali del semplice fastidio, dei disturbi del sonno e delle compromissioni delle normali attività quotidiane, comprendono anche quelli fisici sul sistema neuroendocrino, cardiovascolare, nervoso autonomo e centrale. Tra tutti, quelli sull’apparato cardiovascolare rappresentano, di certo, i più suggestivi e i più preminenti. Esistono, peraltro, numerose evidenze sull’associazione tra l’esposizione al rumore e la morbilità cardiovascolare. Peraltro, sembrerebbe che gli effetti cardiovascolari siano mediati dall’attivazione del sistema adrenergico nella sua componente alfa e beta recettoriale. Diversi studi hanno, peraltro, riportato un aumento della frequenza cardiaca, della pressione arteriosa, dell’escrezione urinaria di catecolamine, delle resistenze vascolari periferiche nelle persone sottoposte a inquinamento acustico. Gli studi, condotti con una gamma d’intensità sino ai 115 dBA, hanno riguardato sia il rumore acuto sia quello cronico, sia il continuo sia l’intermittente, sia quello di derivazione industriale sia il così detto “rumore bianco”, sia quello da traffico cittadino.

In effetti, le conseguenze del rumore sull’apparato acustico dell’uomo sono ben note da alcuni decenni ma sono divenuti un bisogno di studio da quando il traffico motorizzato ha invaso sempre più l’ambiente urbano, contribuendo, così, a un più elevato livello d’inquinamento. A tal proposito e dal punto di vista sanitario, si deve notare che fino alla fine degli anni settanta, o giù di lì, la ricerca attiva sugli effetti pericolosi del rumore del traffico sulle persone si è concentrata per lo più su argomenti uditivo-correlati, per poi approfondirsi progressivamente sui problemi e dimensioni della salute più in generale. Il rumore ambientale è un tema, ormai, di preoccupazione continua e crescente, definito, soprattutto, come fastidio e disturbo del sonno con i suoi effetti nel contesto  sociale delle persone. In contemporanea, i ricercatori hanno proteso, da qualche tempo, i loro sforzi per sviluppare modelli analoghi, idonei per predire il grado di fastidio delle persone nella loro esposizione a sorgenti diverse di rumore. In effetti, la valutazione del grado di rumorosità, causata da un cambiamento nel livello sonoro, contiene due componenti: la prima, di tipo cognitivo, che riguarda le aspettative per il suono di soddisfare alcune caratteristiche di un ambiente ideale; la seconda, sostanzialmente emotiva, che è correlata al cambiamento di umore della persona esposta.In conformità a quanto sopra, ne è derivato che i governi, soprattutto del mondo industrializzato, da qualche tempo, sollecitano misure idonee per controllare e ridurre l’inquinamento acustico nella società globalizzata. Tra gli effetti diretti e più evidenti del rumore sui soggetti svegli, il disturbo è, in generale, quello che interferisce negativamente con la comunicazione vocale individuale, con la capacità di concentrazione e, di conseguenza, con le prestazioni dei compiti. Le variabili che influenzano il giudizio soggettivo di una situazione in cui prevale il rumore da traffico, possono, però, anche contribuire a causare disturbi del sonno durante la notte, con consequenziali effetti negativi per il giorno successivo. I bambini, che hanno una soglia più elevata degli adulti per il risveglio, considerati spesso meno sensibili al rumore notturno, sembrano, però, altrettanto più reattivi. Peraltro, passando più tempo a letto, sono anche più esposti ai livelli di rumore notturno, per cui devono essere considerati una classe ad alto rischio. Inoltre, poiché con il passare dell'età la struttura del sonno diventa più frammentata, gli anziani offrono sempre piùvulnerabilità al disturbo, come pure le donne in gravidanza e le persone malate, costituendo così anch’essi gruppi a maggior rischio. Di poi, i lavoratori turnisti sono anch’essi naturalmente a maggior rischio, poiché la struttura del loro sonno è sotto stress a causa degli adattamenti del ritmo circadiano. Secondo quanto riportato dall'OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità), nell'Unione Europea ben nove cittadini su dieci sono esposti a rumori superiori ai 65 decibel (dB) e in Italia numerose ricerche testimoniano prudentemente gli effetti dannosi del rumore sull'organismo. Si calcola, difatti, che 40 milioni di persone sono esposti ogni giorno a livelli alti d’inquinamento acustico con i consequenziali danni ben riconosciuti all'udito e ad altri organi e apparati, tra cui il cardiovascolare e più recentemente il sistema immunitario e neuroendocrino. I principali provvedimenti legislativi italiani contro l'inquinamento acustico sono:

  1. la L. 447 del 26 ottobre 1995;
  2. il DPCM 14 Novembre 1997;
  3. il Decreto del Ministero dell'Ambiente del 16 marzo 1998;
  4. il D.Leg. n. 194 del 19 agosto 2005.

Il primo è la legge quadro sull'inquinamento acustico che fornisce anche la sua definizione. Il secondo concerne la determinazione dei valori limite delle sorgenti sonore, dichiarando trascurabile il rumore inferiore ai 50 dB (A) di giorno e ai 40 dB(A) di notte, misurato a finestre aperte, nonché il rumore ambientale inferiore ai 35 dB(A) di giorno e ai 25 dB(A) di notte, misurato a finestre chiuse. La normativa non si limita a fissare i valori soglia in termini assoluti, ma prevede anche i valori relativi e differenziali. In particolare, definisce il criterio dei 3 decibel sopra il rumore di fondo, il cui volume varia da zona a zona. Il terzo riguarda le tecniche di rilevamento e di misurazione dell'inquinamento acustico. Il quarto è relativo all’attuazione della direttiva 2002/49/CE per la determinazione e la gestione del rumore ambientale. Riguardo a quanto riportato, tutte le attività rumorose non possono superare il limite della normale tollerabilità di ogni cittadino che desidera quiete e riposo, come stabilito dalle citate disposizioni di legge. Inoltre, tutte le sorgenti rumorose devono essere acusticamente isolate in modo che suoni e vibrazioni non si trasmettano alle vicine abitazioni.In genere, si conviene che l'esposizione ai rumori superiori ai 90 decibel per otto ore il giorno e per molti anni provoca una perdita uditiva permanente.A tale riguardo, è da notare che i giovani di oggi, in particolare, risultano sempre più esposti ai livelli sonori traumatizzanti, in rapporto alle sofisticate tecnologie di ascolto musicale in HiFi e in discoteca, dove possono essere superati i 110 decibel per una o più ore, mentre il limite massimo di legge è di 95 decibel. Poi, nell'ascoltoin cuffia con i walkman ad alto volume, il livello di pressione sonora può superare i 110 decibel, per cui, con tempi di esposizione di più ore il giorno, la sordità permanente diviene molto probabile. Lo stress acustico può sommarsi, così, agli effetti della stanchezza fisica, dell'assunzione di alcolici e contribuire sensibilmente al verificarsi d’incidenti di ogni tipo, spesso mortali. Conviene, quindi, alternare l'esposizione al rumore di alto grado con pause di abbassamento dello stress uditivo. Per quanto riguarda l’ambiente, in attesa che i comuni provvedano alla zonizzazione acustica, si dovrebbero applicare i seguenti limiti di accettabilità provvisori, come derivati dall’articolo 6, comma 1, del DPCM 1/3/91.

Tali valori risultano oggi giorno ampiamente superati, soprattutto in particolari zone industriali e cittadine, come riportato da Legambiente per alcune zone di Roma, anche recentemente.

Come già detto, il rumore influisce in modo rilevante su molti aspetti della vita quotidiana, dal benessere psicofisico delle persone, al lavoro, al valore dei terreni e degli immobili. Gli effetti riscontrati sono riportati come trauma acustico, danno, disturbo, fastidio o annoyance. Il primo comporta la perdita di udito in seguito a elevatissime pressioni acustiche, prodotte da fenomeni esplosivi che provocano la rottura della membrana timpanica o il danneggiamento della catena degli ossicini. Il danno, invece, è rappresentato da ogni alterazione, anche parzialmente non reversibile, dell’apparato uditivo, consequenziale all’esposizione quotidiana di livelli di rumore superiori agli 80 dB per tempi prolungati (da 10 a 30 anni). Il disturbo e l’annoyance sono, infine, due patologie che influiscono sulla salute psichica del soggetto esposto, prima che fisica. Il primo si configura come un’alterazione reversibile delle condizioni psicofisiche, mentre la seconda è un effetto di fastidio che diventa un grave stress e che si realizza per la combinazione di fattori di natura fisica, psichica e sociale, modificando la performance socio-ambientale della persona. L’inquinamento acustico, peraltro, non ha effetto solo sull’apparato uditivo, ma anche su altre funzioni dell’organismo e, in particolare, sul sistema cardiovascolare, rivestendo un ruolo di grande importanza a livello del benessere sociale. 

Dalla figura si evince, difatti, che 40 dB Lnight, outside è l’equivalente più basso rilevato per il LOAEL (lowest observed adverse effect) per il rumore notturno. Oltre i 55 db, gli effetti cardiovascolari diventano imaggiori problemi di sanità pubblica, che rischiano, di essere meno dipendenti dalla natura del rumore. Un esame più attento del preciso impatto è doveroso nelrange compreso tra 30 e 55 dB, perché molto dipende dalle circostanze dettagliate di ogni singolo caso.

Dal punto di vista scientifico, il miglior criterio per la scelta di un indicatore del grado del rumore è la sua capacità di prevedere un effetto che, se a lungo termine, come i disturbi cardiovascolari, dovrebbe essere correlato a una situazione acustica di un lungo periodo,come la media annuale del livello di rumore notturno esterno (Lnight,  outside). Per gli effetti istantanei, come i disturbi del sonno, i migliori indicatori sono quelli con il massimo livello per ogni evento (LAmax), come ad esempio il passaggio di un camion, di un aereo o di un treno. L’indicatore Lnight, outside adottato dall’END (Environmental Noise Directive) è un indicatore di scelta, sia per l’uso scientifico sia per l'impiego pratico.Tra gli indicatori ora utilizzati ai fini regolamentari, il LAeq (Aweighted equivalent sound pressure level) e il LAmax sono utili per prevedere gli effetti istantanei o entro poco tempo sulla salute. 

Dietro la scorta di tali dati, le linee guida europee sul rumore notturno raccomandano valori soglia per la tutela della salute pubblica come di seguito:

NNG (Night noise guideline) Lnight, outside= 40 dB; IT (Interim target) Lnight, outside= 55 dB.

A proposito di quanto riportato, bisogna, inoltre, considerare che in Italia, nell’arco del decennio 1997-2006, gli autoveicoli sono aumentati quasi del 25% e, soprattutto, i motocicli del 107%, le autovetture del 17%, gli autoveicoli speciali del 67%, mentre i motocarri sono diminuiti del 15%.

Di fatto, il tasso di motorizzazione dell’Italia è uno dei più alti del mondo con un trend in costante crescita. La figura su riportata dimostra, infatti, che nel periodo 1991- 2003 il numero di auto circolanti per abitante è cresciuto in misura superiore al prodotto interno lordo pro-capite. 

L’incremento, invece, è stato più consistente nei primi anni novanta e si è stabilizzato nell’intervallo 1993-1994, in corrispondenza della crisi economica del 1993, ritornando a salire in modo costante dopo il 1995.

A tale proposito non meraviglia come l’Italia vanti un parco macchine consistente. Difatti, secondo i dati su esposti con 591 auto per 1.000 abitanti si pone nell’Unione Europea al secondo posto dopo il Lussemburgo (646) e nettamente sopra la media europea (459.). 

Traffico notturno e performance cognitiva il mattino

Eva-Maria Elmenhorst e collaboratori delGerman Aerospace Center Institute of Aerospace Medicine in Cologne, Germany, sulla base che L'American Academy of Sleep Medicine ha riportato che il rumore del traffico, insieme alla luce intensa e alle temperature estreme, rappresenta una delle cause di disturbo del sonno ambientale con consequenziale insonnia e sonnolenza diurna, hanno studiato con polisonnografia 72 persone di età media di 40 anni per 11 notti consecutive, sottoposte in laboratorio al rumore registrato del traffico di aeroplani, automobili e treni (2010, in San Antonio, Texas, at SLEEP 2010, the 24th annual meeting of the Associated Professional Sleep Societies)Il disegno dello studio comprendeva anche una notte di controllo, libera dal rumore del traffico. I risultati indicavano che il tempo medio di reazione su un compito di vigilanza psicomotoria il mattino subiva un rallentamento significativo di 3,6 ms dopo l'esposizione al rumore di traffico, registrato durante il sonno. La riduzione dei tempi di reazione era, poi, direttamente e significativamente correlata con un aumento sia del livello di frequenza sia di pressione sonora degli eventi di rumore notturno. Il rumore dei treni causava la più alta probabilità di risveglio e di eccitazione, seguito dal traffico automobilistico e dal rumore degli aerei. In conformità a tali risultati, gli AA concludevano che il loro studio riproponeva l'importanza di preservare un’ottimale igiene del sonno, in termini di un ambiente tranquillo e sano per dormire indisturbati, soprattutto nel caso di bambini, turnisti, anziani e malati cronici. Da notare a riguardo, che il rumore bianco,così chiamato in analogia alla luce bianca e prodotto combinando insieme tutte le diverse frequenze del suono, viene, talvolta, utilizzato per soffocare altri suoni e alzare la soglia di eccitazione, in modo che il sonno risulti meno disturbato.

Inquinamento acustico ambientale e salute nella provincia di Roma

Torre, G.L. e collaboratori del Laboratorio di epidemiologia e biostatistica, Istituto d’igiene Università Sacro Cuore di Roma,allo scopo di analizzare la relazione tra esposizione al rumore ambientale e lo stato di salute percepito dalla popolazione, hanno studiato, in un contesto trasversale, una popolazione di Castelnuovo di Porto in provincia di Roma (Journal of Public Health. 2007; 15(5): 339-344). La scelta della zona con 7.695 abitanti è stata motivata dalla sua notevole esposizione all'inquinamento acustico per la sua vicinanza all’autostrada del sole e alla provinciale via tiberina,due importanti infrastrutture stradali ad alta densità di traffico, sia pesante sia leggero, ma anche alla linea ferroviaria Roma - Firenze con treni ad alta velocità e servizio molto frequente. Gli AA. hanno arruolato 159 persone, 81 maschi e 78 femmine, di età media 41,28 anni, al fine di valutare l'impatto acustico delle infrastrutture viarie e ferroviarie sulla qualità abitativa di vita (QOL). Hanno, così, rilevato sulla scala di salute mentale un punteggio significativamente peggiore in quelle persone molto esposte al rumore con livello superiore ai 65 dBA, secondo un’associazione inversa sia all'analisi univariata con punteggi medi di 66,4 vs 68,9 sia alla multivariata con beta = - 4,779; p <0,05. In un loro precedente studio caso-controllo, condotto nella città di Roma presso il centro dell’ipertensione del Policlinico Gemelli su 161 casi e 40 controlli, di cui 101 maschi e 100 femmine, di età media di 55,65 + 12,66 e 47,08 + 14,64 rispettivamente, gli AA. avevano rilevato, nell’analisi multivariata con aggiustamento per le possibili variabili confondenti, come età, sesso, attività lavorativa, un rischio d’ipertensione aumentato di quasi 3 volte con l’uso di sale (OR = 2,76; IC 95%: 1.18-6.48) e del doppio con l’esposizione a un livello di rumore superiore ai 65 dBA (OR = 2.09;IC 95%: 1.01 – 4.47). Inoltre, tale rischio si mostrava dimezzato in caso di pratica di attività fisica congrua (OR = 0.49; IC 95%: 0.23 – 1.00).

Sonnolenza alla guida e incidenti della strada

La sonnolenza rappresenta, invero, una causa comune degli incidenti stradali nel frequente mancato riconoscimento dei propri limiti alla guida.

I dati, relativi a tale condizione, indicano che ogni anno sono circa 1,2 milioni i morti in tutto il mondo, 23-34.000.000 i feriti, con particolare preoccupante incremento nei paesi in via di sviluppo. In sostanza, attualmente, si contano 3.300 morti e oltre 66.000 feriti gravi il giorno e oltre 163.000 bambini sotto i 15 anni muoiono sulle strade e 1,5 milioni riportano ferite. Gli incidenti stradali sono, peraltro, la principale causa di morte per gli uomini di età dai 15 ai 44 in tutto il mondo. Il CDCin USA riporta che la sonnolenza alla guidacorrispondea100.000incidenti stradali, con 71 mila feriti e 1.500morti ogni anno a livello nazionale. Un sondaggio americano del 2009 di Sleep riportava che un pilota su tre aveva condotto una guida compromessa dalla sonnolenza nel corso dell'ultimo mese e un 20% aveva ammesso di essersi addirittura addormentato al volante. Secondo l’AAA Foundation for Traffic Safety, un incidente stradale mortale su sei, uno su otto che avevano causato lesioni e uno su quattordici, con richiesta del traino del veicolo, erano stati determinati da un autista assonnato. Questo perché spesso si tende a sottovalutare gli effetti negativi associati alla fatica e alla privazione del sonno e, di converso, a sopravvalutare le capacità al volante. Secondo i risultati di un sondaggio telefonico AAA del dicembre 2010, il 41% dei conducenti intervistati ha dichiarato di essersi addormentato o assopito al volante a un certo punto della loro vita. L’11%, corrispondente a migliaia di autisti in tutta la nazione, ha riferito il dato durante l'ultimo anno, compresi i casi in cui hanno dormito per più di un minuto su una strada a più corsie. Lo studio ha anche annotato che la sonnolenza durante la guida contribuiva al 16,5% degli incidenti mortali degli Stati Uniti, tasso significativamente più alto rispetto alle stime precedenti. I risultati dellAAA, svolti su 2.000 persone, indicavano anche che gli adolescenti e gli uomini erano molto più portati ad addormentarsi durante la guida, rispetto agli altri gruppi. In particolare, al momento dell'indagine gli uomini erano sonnolenti nel 61%, rispetto alle donne, e il gruppo dai 16 ai 24 anni nel 78%, rispetto al gruppo dai 40 a i59 anni. Il sondaggio ha anche indicato che i conducenti sonnolenti, prima di salire sui loro veicoli, spesso non riuscivano a capire quanto fossero stanchi e il 70% circa dichiarava di sentirsi abbastanza sveglio perché guidasse, ma poi doveva lottare per rimanere cosciente.

Il rapporto Aci-Istat sull’incidentalità stradale del 2009 ha riportato 590 incidenti stradali giornalieri in Italia con 12 morti e 842 feriti. Dati, comunque, minori del 2008 con un calo del -10,3% di morti, del -1,1% dei sinistri e del -1,6 per cento dei feriti. Le circostanze con maggiori probabilità sono state il mese di luglio, le ore 18, la notte per la maggiore pericolosità, il week-end, il sabato come frequenza più alta di morti, i giovani sotto i 25 anni, le strade urbane, quelle extraurbane per la maggiore gravità, mentre le autostrade per la maggiore sicurezza. Più di un italiano su due ha riferito distrazione alla guida, secondo l’indagine Ipsos. Inoltre, recenti studi hanno dimostrato che l’OSA, patologia di cui soffrono oltre 1.600.000 italiani, provoca il 29% degli incidenti che interessano la rete autostradale. In particolare, l’Istituto Superiore di Sanità ha recentemente quantificato i costi annuali socio-sanitari da incidenti stradali attribuibili a questa patologia in circa 840.000.000 di euro. Dati, sicuramente sottostimati per le difficoltà a riconoscere nella sonnolenza la causa dell’incidente, soprattutto se questo è mortale. D’altro canto, la perdita di sonno tende a compromettere le prestazioni umane come l'alcol.Dopo una veglia di 18 ore, le prestazioni fisiche e mentali in molte attività subiscono un limite, come quando si realizza un BAC (contenuto di alcol nel sangue) di 0,05. Dopo 23 ore continue, le persone lavorano così male, come se avessero un tasso alcolemico di 0,12. Charles A. Lindbergh, che compì la prima traversata aerea dell'Oceano Atlantico in solitario e senza scalo, trasmise:

“la mia mente si apre e si chiude ... Cerco di lasciare una palpebra chiusa nel momento in cui ho aperto l’altra per mia volontà. Ma lo sforzo è troppo grande. Il sonno è vincente. Tutto il mio corpo sordamente sostiene che niente, niente può raggiungere una condizione della vita così desiderabile come il sonno. La mia mente sta perdendo la risoluzione e il controllo”.

Il 18 agosto 1993, un aereo militare si schiantò mentre tentava di atterrare alla US Naval Air Station, a Guantanamo Bay di Cuba. L'aereo, un cargo Douglas DC-8-61, si distrusse nell’impatto a terra e s’incendiò. Sulla base dei dati scientifici relativi al sonno e ai ritmi circadiani, la NASA Ames Fatigue Countermeasures Program identificò tre fattori con il ruolo di fatica, in seguito portati a quattro:

  1. la perdita di sonno acuta e suo debito cumulativo,
  2. le ore continuate di veglia,
  3. l'ora del giorno e gli effetti circadiani,
  4. la presenza di disturbi del sonno.

Stephen Tregear e collaboratori del MANILA Consulting Group, McLean, VA hanno di recente eseguito una revisione sistematica della letteratura sul possibile aumentato rischio di sinistri da parte degli autisti di autoveicoli commerciali con apnea ostruttiva nel sonno (OSA) (J Clin Sleep Med 2009;5(6):573-581). Da tale analisi è risultato che i malati erano chiaramente a maggior rischio d’incidente con un tasso medio tra 1,21 e 4,89. Le caratteristiche che potevano predire il sinistro negli autisti con OSA erano l’IMC, l’indice di apnea- ipopnea, la saturazione di ossigeno e la sonnolenza diurna. Bisogna ipotizzare che gli autisti possano travisare i livelli di sonnolenza per prevenire la revoca della licenza di guida, mentre chi ne è consapevole può sviluppare strategie di compensazione. Inoltre, i conducenti spesso ignorano o vogliono fingere di non sapere che la sonnolenza è un rilevante rischio. Dai risultati di questa revisione derivano importanti implicazioni, sia per gli autisti commerciali sia per quelli no. Difatti, diventando l’OSA sempre più prevalente per l’invecchiamento demografico della popolazione e per l’avanzare epidemico dell’obesità, bisogna considerare sempre più attentamente il rischio di chi guida. 

Dovrebbe essere possibile predire il rischio d’incidente con l'uso di semplici misure, come l’indice di massa corporea o l’ossimetria. Per la sonnolenza soggettiva, invece, non è applicabile una sua valutazione, sia perché il conducente non riconosce la sua sonnolenza e sia perché il ricorso all’autodenuncia della sonnolenza è inaffidabile probabilmente per il timore di perdere la propria sussistenza lavorativa.

Deprivazione di sonno, ormoni e metabolismo negli atleti

Eve Van Cauter e collaboratori dell'Università di Chicago Medical School hanno studiato gli effetti di tre diversi periodi di sonno in 11 uomini di età dai 18 ai 27 anni (Lancet.1999 Oct 23;354(9188):1435-9.).Per le prime tre notti i partecipanti dormivano otto ore per notte, quattro per le seguenti sei e 12 per le ultime sette. I risultati hanno mostrato che, dopo il periodo di privazione del sonno di quattro ore per notte, il metabolismo del glucosio era meno efficiente e i livelli di cortisolo erano alti. In particolare, la tolleranza al glucosio era più bassa nella condizione di debito di sonno, rispetto a quella del buon riposo (p <0,02) e così pure le concentrazioni di tireotropina (p <0,01). Le concentrazioni di cortisolo serali erano aumentate (p = 0,0001) e così pure l'attività del sistema nervoso simpatico (p <0,02).

Il dato è stato collegato ai disturbi della memoria, all'insulino-resistenza, legata all'età, e al compromesso recupero degli atleti. Dopo solo una settimana di tale restrizione, i giovani sani avevano livelli di glucosio anormale e hanno mostrato un rapido deterioramento delle funzioni dell’organismo come quella che si riscontra nei soggetti anziani con patologie croniche legate all'età. Questo studio appare particolarmente interessante per la dimostrazione che la privazione del sonno può avere un impatto fisiologico negativo critico per le prestazioni atletiche, interessando il metabolismo dell’ormone dello stress, il cortisolo, e il glucosio, con diminuzione dell'attività dell’ormone della crescita, attivo durante la riparazione dei tessuti e della glicogeno sintesi. Per gli atleti di resistenza, in effetti, il glucosio e il glicogeno rappresentano le principali fonti di energia e, quindi, è particolarmente importante poter immagazzinare il glucosio nel muscolo e nel fegato.  Nella deprivazione del sonno può realizzarsi un più lento deposito di glicogeno, con scarso stoccaggio del carburante di un atleta nella necessità di eventi della durata di oltre i 90 minuti. Inoltre, gli elevati livelli di cortisolo possono interferire con la riparazione e la crescita dei tessuti, potendo impedire di rispondere alla formazione ginnica pesante e portare pregiudizio al sovrallenamento. È l'alternanza di adattamento e di recupero che porta l'atleta a un più elevato livello di fitness. Atleti di alto livello devono rendersi conto che maggiore è l'intensità dell’allenamento e dello sforzo, maggiore è la necessità del recupero previsto. Il monitoraggio degli allenamenti, tramite un registro, prestando attenzione a come ci si sente e a quanto ci si è spinti, è estremamente utile per determinare le esigenze di recupero, modificando di conseguenza il programma di formazione.

Insonnia e ipertensione

Xu M e collaboratori della School of Psychology, Laval University, Quebec, QC, Canada, considerando che le attività del sistema nervoso simpatico e dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene (IIS), che elevano il rischio cardiovascolare, intervengono attivamente nell’ipervigilanza dell’insonnia, hanno voluto esaminare il legame tra insonnia e ipertensione e gli effetti dei farmaci β-bloccanti (Jounal of sleep and sleep disorders research,2010, Vol. 33). Hanno, quindi arruolato 54 soggetti con diagnosi primaria d’insonnia, 27 con comorbidità d’ipertensione, di cui 7 in trattamento con beta-bloccanti, e 27 senza, abbinati per età, sesso e indice di massa corporea. Le analisi hanno rivelato differenze significative tra il gruppo d’ipertesi e non, in ragione del % S3, S4 (3.5% vs. 7.3%) e del REML (REM sleep latency) (60.9 vs. 94.4 min), P < 0.05.Non si sono registrate, invece, differenze significative su altre variabili. All'interno del gruppo degli ipertesi, quelli con uso di β-bloccanti tendevano ad avere un minor numero di risvegli (2 vs 3.4), meno tempo di veglia nel sonno (WASO = Wake After Sleep Onset)(48,7 vs 76,5 min), TWT (total wake time) (58,9 vs 94,1 min) e una migliore SE (sleep efficiency) (86,8 vs 79,5%), senza raggiungere la significatività. Gli AA con il loro studio erano in grado di concludere che l'ipertensione può contribuire a compromettere ulteriormente il dormire dei pazienti con insonnia, modificando il sonno a onde lente e quello REM, potendo indirettamente incidere sull’asse IIS. Comunque, l’asserzione che i beta-bloccanti possano potenzialmente attenuare l’insonnia negli ipertesi andrebbe suffragata da ulteriori e più ampie indagini.

Prevalenza e significato dell’insonnia nella sindrome metabolica

Lanfranchi PA e collaboratori della Medicine, Sacré-Coeur Hospital, Montreal, QC - Canada, sulle premesse di studi a prova di un legame tra disturbi del sonno e la sindrome metabolica (SM), hanno cercato di valutare la prevalenza d’insonnia in 66 casi, di età dai 33 ai 69 anni, di cui 26 femmine, senza nota malattia coronarica e di altre importanti comorbidità (Jounal of sleep and sleep disorders research,2010, Vol. 33). Il 24%, 16 soggetti, ha presentato insonnia persistente, 7, il 10,6%, hanno avuto sintomi d’insonnia sporadica senza soddisfare i criteri del DSM-IV-R, 8, il 12%, erano trattati per OSA e 8, il 12%, avevano i sintomi della sindrome delle gambe senza riposo. Nessuna differenza di età, indice di massa corporea, circonferenza vita, glicemia a digiuno, profilo lipidico completo e di pressione arteriosa a riposo si osservava nei casi d’insonnia (n = 16), rispetto a quelli senza disturbi del sonno (n = 27). Tuttavia, i soggetti con insonnia mostravano alti livelli di hs-CRP, rispetto ai ben dormienti (3.6 ± 1.9 mg/dl vs 2,7 ± 2,9 mg/dl, p = 0,05). In conclusione, l'insonnia si rilevava molto frequente nei malati di S.M. con associato maggior grado d’indice d’infiammazione, rispetto a quelli senza disturbi del sonno.

Per evitare l’infarto lavora meno e dormi di più 

Ying Liu e collaboratori del National Cancer Center, Tokyo hanno arruolato 260 uomini tra i 40 e i 79 di età, ricoverati con infarto miocardico nel periodo 1996-1998 e 445 uomini di controllo senza infarto, di pari età e luogo di residenza, reclutati dai registri residenti (Occupational and Environmental Medicine,200259 , 447-451).

Tutti i partecipanti hanno dettagliatamente riferito le ore di lavoro settimanale, i giorni di riposo e le ore di sonno giornaliere entro il mese e nel corso dell'anno passati. Si sono definiti anche i potenziali fattori di rischio coronarico, come lo stile di vita, il peso, l’ipertensione, la colesterolemia e il diabete.

Gli AA hanno trovato una diretta relazione tra il numero di ore lavorate e il rischio di avere un infarto miocardico, sia nell'ultimo anno sia nell'ultimo mese. Difatti, il lavoro superiore alle 61 ore settimanali aumentava del doppio il rischio d’infarto, rispetto alle ore lavorative inferiori alle 40.Peraltro, il sonno inferiore alle 5 ore giornaliere per più di due volte a settimana corrispondeva a un rischio 2-3 volte maggiore d’infarto miocardico. La frequente mancanza di sonno e qualche giorno di riposo nel recente passato si associavano con un rischio superiore a quello dell'anno passato, suggerendo che la privazione del sonno e la mancanza di riposo in un passato molto recente potesse esercitare un effetto trigger sull’insorgenza dell’infarto stesso. Le associazioni, peraltro, si sono mantenute anche dopo aggiustamento per altri fattori di rischio cardiovascolare. Tale studio ha sollecitato gli Autori a raccomandare un limite di 40 ore o meno di lavoro settimanale e a dormire a sufficienza, in occasione di lavoro prolungato, con almeno 2 giorni di riposo mensili.

La macchina cerebrale dei sogni 

De Gennaro L. e collaboratori del Dipartimento di Psicologia - Sapienza Università di Roma, adottando una strategia innovativa con l’uso delle recenti tecniche di neuro immagini, sono riusciti a misurare gli aspetti microstrutturali di volume e densità della sostanza grigia dell’amigdala e dell’ippocampo, mettendoli in relazione con le caratteristiche dei sogni che i pazienti erano in grado di ricordare (Human brain mapping 2010 Aug  ISSN:  1097-0193). Hanno dimostrato, così, che i parametri volumetrici e ultrastrutturali di queste strutture cerebrali erano in grado di predire gli aspetti qualitativi dei sogni. In particolare, i ricercatori hanno indirizzato i loro studi sulla neurobiologia di chi ricorda o non i sogni, di chi li esprime con alcune piuttosto che con altre caratteristiche qualitative, invece di descrivere la neurobiologia attuale del sogno.

La DTI (Diffusion Tensor Imaging), tecnica di visualizzazione cerebrale con informazione quantitativa anche dei livelli d’integrità/rarefazione tessutale, MD (Mean Diffusivity), ha, di fatto, permesso di focalizzare lo studio sul volume dell’amigdala e dell’ippocampo, specifiche componenti del sistema limbico, rispettivamente deputate alla regolazione delle emozioni e alla formazione delle memorie. Sulla base dell’ipotesi che le funzioni di veglia di tali strutture non differiscono nel sonno, assumendo un ruolo simile nella più specifica attività mentale del sogno, misurando i loro parametri ultrastrutturali in 34 persone normali, dai 20 e 70 anni, hanno ottenuto la registrazione contemporanea dei loro sogni per due settimane consecutive. Si è acquisita, in tal modo, la prima osservazione, anche se preliminare, della connessione tra un centro nervoso e alcune basilari dimensioni qualitative dei sogni. I ricercatori, peraltro, stanno continuando le loro ricerche sul comportamento della dopamina nel morbo di Parkinson, valutando gli aspetti quantitativi e qualitativi dei resoconti dei sogni, in rapporto alle misure ultrastrutturali della corteccia cerebrale e delle strutture sottocorticali. 

 

 

 

 

Notiziario Novembre 2010 N°11

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NOTIZIARIO Novembre 2010 N°11

A cura di Giuseppe Di Lascio

 

Con la collaborazione di:

Bagalino Alessia, Bauzulli Doriana, Di Lascio Alessandro, Di Lascio Susanna, Levi Della Vida Andrea, Melilli Simonetta, Pallotta Pasqualino, Sesana Giovanna, Stazzi Claudio, Zimmatore Elena

 

SONNO E SALUTE

I disturbi del sonno

II^ parte

Giuseppe Di Lascio – Susanna Di Lascio

 

Deprivazione del sonno ed espressione emotiva

Els van der Helm e collaboratori del Department of Psychology University of California, Berkeley, CA hanno voluto studiare l'impatto della privazione del sonno sull’espressività facciale delle emozioni umane su trentasette soggetti sani, di cui 21 femmine, di età tra i 18 e i 25 anni, randomizzati 17 al gruppo controllo e 20 a quello di privazione del sonno (Sleep. 2010 March 1; 33(3): 335–342). Quando deprivati del sonno, si rilevava un calo marcato e significativo nel riconoscimento delle espressioni affettive, soprattutto nelle femmine e per le condizioni di felicità e di rabbia. Gli AA., così, concludevano che il loro studio suggeriva che la perdita di sonno alterava il sistema affettivo dell’individuo, interrompendo l'individuazione di spunti salienti affettivi nella vita sociale.

Privazione di sonno, spia di sonnambulismo

Antonio Zadra e collaboratori della Faculty of psycology of Université de Montréal, in Quebec hanno studiato 40 pazienti, di cui 10 con un disturbo del sonno in concomitanza di movimenti periodici delle gambe (Ann Neurol. Published online March 19, 2008). La privazione del sonno non solo aumentava il numero totale degli episodi comportamentali, ma anche la proporzione di pazienti con almeno 1 episodio complesso - da 5, come in 5 pazienti al basale, a 22 in 14 casi durante il sonno di recupero.  Ciò avrebbe significato che la persona manifestava un qualche tipo di comportamento motorio insolito, per cui poteva sedere sul letto, giocare con le lenzuola, indicare le pareti, cercare di alzarsi. Il sonnambulismo, o questo comportamento di movimento notturno, si verificava, infatti, in genere durante la fase 3 o 4 del sonno, detta anche SWS (slow-wave sleep) che è, anche, la fase del sonno più profondo e compensa la maggior parte di una sua privazione. Nello studio, in effetti, si è verificato un aumento significativo del tempo trascorso in SWS durante il recupero, rispetto al sonno basale. I sonnambuli, secondo gli AA, hanno problemi del mantenimento del sonno profondo e per una qualche ragione il loro cervello cerca di passare dal sonno a onde lente al risveglio, rimanendo intrappolati tra queste due condizioni. Sulla base dei risultati del loro studio i ricercatori hanno sostenuto che i sonnambuli soffrono di una disfunzione del meccanismo responsabile della generazione dello SWS stabile. In effetti, questi pazienti hanno spesso tanti piccoli micro - risvegli durante il sonno a onde lente. In occasione di deprivazione, poi, si hanno anche molto più di questi bassi risvegli e in alcuni di loro si potrà sviluppare un episodio completo. Tale condizione, presente nel 4% circa della popolazione adulta, in sua qualsiasi forma assume, pertanto, dignità di possibile strumento di diagnosi di sonnambulismo, soprattutto sul piano medico-legale.

 

Conseguenze metaboliche della restrizione cronica di sonno

Buxton OM e collaboratori del Department of Medicine, Brigham and Women’s Hospital, Boston, MA, sulle premesse dell’associazione tra disturbi del sonno e metabolismo del glucosio, hanno voluto testare l'ipotesi meccanicistica che la restrizione del sonno prolungata in combinazione con il disallineamento circadiano, come accade con il lavoro notturno,possa alterare il metabolismo del glucosio (Jounal of sleep and sleep disorders research,2010, Vol. 33). Hanno, quindi, arruolato per 39 giorni 12 adulti sani, al 50% femmine, di età 22,9 ± 0,8, BMI 24,2 ± 0,9 kg/m2. Rispetto al basale, la restrizione di sonno ha aumentato significativamente il picco di glucosio post-prandiale di 5,2 ± 3,9 mg/dL (P <0,01), l'AUC (Area Under Curve)è aumentata in tutti i soggetti in media 2606 ± 295 mg, con P <0,0001, rimanendo i valori più elevati rispetto al basale per oltre 3 ore.Con la limitazione di sonno c'è stata anche una tendenza all’aumento medio di glucosio a digiuno (2,8 ± 1,5 mg / dl, p = 0.08, NS), mentre ilivelli d’insulina sono rimasti invariati rispetto il basale (NS). Come risposta a un pasto standard, i livelli d’insulina hanno dimostrato un picco postprandiale più basso di 29 ± 8 U/ml (P <.01) e l'AUC è stato inferiore di 1.993 ± 587 uU (P <.001), mentre le risposte di glucosio e d’insulina al pasto standard (picco e AUC) non sono state differenti significativamente tra il sonno di recupero e quelle del sonno pieno di base. Tali dati hanno permesso agli AA di concludere che la limitazione e il disallineamento circadiano del sonno per 2,5 settimane avevano provocato un aumento della risposta glicemica e una riduzione della secrezione d’insulina al pasto standard, presumibilmente a causa di un’inadeguata risposta delle cellule beta pancreatiche e che tali effetti potevano essere alla base del rischio elevato di diabete in condizioni di deprivazione cronica di sonno e suo disallineamento circadiano.

Durata del sonno e sensibilità insulinica

Orfeu M Buxton e collaboratori del Department of Medicine, Brigham and Women's Hospital, Boston, MA, considerando che negli USA la durata media del sonno è scesa sotto le 7 ore per notte con un calo durante il secolo scorso di circa 2 ore a notte e negli ultimi 40 anni di più di 1 h il giorno, che la riduzione e la scarsa qualità del dormire si è dimostrata associata in studi trasversali e longitudinali con l’aumento del rischio di obesità, diabete, ipertensione, malattie cardiovascolari, sindrome metabolica e mortalità precoce, che la restrizione del sonno di breve durata (4 ore per notte per 1 settimana in un ambiente di laboratorio), si è dimostrata alterare la tolleranza al glucosio con meccanismi non chiari, hanno voluto verificare l'ipotesi che la restrizione del sonno nei soggetti sani potesse ridurre la sensibilità all'insulina, come valutato dal clamp iperinsulinemico-euglicemico, studiando le relazioni tra i cambiamenti della sensibilità all'insulina, del cortisolo, delle catecolamine e il sonno a onde lente, testando anche la capacità del modafinil, che aumenta la vigilanza durante la veglia nel migliorare gli effetti negativi della restrizione del sonno sulla sensibilità all'insulina. La sensibilità all'insulina in 20 uomini sani, di età dai 20 ai 35 anni e BMI dai 20 ai 30 kg/m2 si è ridotta del 20 ± 24% dopo restrizione del sonno (P = 0,001), senza alterazioni significative nella risposta secretoria insulinica. Allo stesso modo, si è ridotta dell’11 ± 5.5% (P <0,04) la sensibilità all'insulina, valutata con clamping. I risultati, peraltro, non sono stati influenzati dal trattamento con modafinil e i cambiamenti nella sensibilità all'insulina non correlavano con quelli del cortisolo salivare (aumento del 51 ± 8% con restrizione del sonno, P <0,02), delle catecolamine urinarie o del sonno a onde lente. Lo studio ribadiva, quindi, che la restrizione del sonno, 5 ore/notte per 1 settimana, riduceva in modo significativo la sensibilità all'insulina, aumentando le preoccupazioni circa gli effetti della cronica mancanza di sonno sulle patologie connesse all'insulinoresistenza.

Sforzi per la perdita di peso vanificati dal poco sonno

Arlet V.Nedeltcheva e collaboratori dell’University of Chicago, Illinois, sulle premesse che cambiamenti neuroendocrini associati alla riduzione del sonno suggeriscono la compromissione dell'efficacia degli interventi dietetici comunemente usati, hanno voluto esaminare quest’aspetto valutando i cambiamenti dei livelli di leptina, grelina, cortisolo circolante, adrenalina, noradrenalina, ormoni tiroidei e ormone della crescita in rapporto alla perdita di sonno (Ann Intern Med. 2010;153:435-441, 475-476). Hanno, quindi, randomizzato per 14 giorni di dieta e 8,5 ore di sonno notturno 10 soggetti in sovrappeso, adulti non fumatori, 3 donne e 7 uomini, con età media di 41 anni e indice di massa corporea da 25 a 32 kg/m2, confrontandoli con un periodo analogo di dieta e di 5,5 ore di sonno notturno. L’analisi ha fatto rilevare che il sonno ridotto diminuiva la percentuale di peso perso come grasso del 55% e che chi aveva dormito 8,5 ore a notte aveva perso una media di 1,4 kg, mentre quelli che avevano dormito 5,5 ore a notte solo una media di 0,6 kg (p = 0,043). Inoltre, la riduzione del sonno aveva aumentato la perdita di massa corporea priva di grassi del 60% e quelli delle 8,5 ore a notte avevano perso in media 1,5 kg, mentre quelli delle 5,5 ore 2,4 kg (p = 0,002). Peraltro, il minor sonno aveva portato a un aumento della fame e delle concentrazioni di grelina acilata a digiuno e postprandiale di 24 ore ma a un inferiore tasso metabolico a riposo di 24 ore e delle concentrazioni plasmatiche di adrenalina. Le concentrazioni di leptina diminuivano parallelamente alla perdita di peso e di adiposità, senza un significativo effetto indipendente della perdita del sonno (P = .001). Si registrava, anche, un aumento dei livelli di grelina nel sangue, ormone noto per ridurre la spesa energetica, stimolare la fame e l'assunzione alimentare, favorire la ritenzione di grasso e aumentare la produzione di glucosio. La grelina, in effetti, potrebbe spiegare perché i soggetti deprivati del sonno avevano riferito il senso di fame nel corso dello studio. Questi risultati, secondo gli AA, rilevano l'importanza di un sonno adeguato per il mantenimento della massa corporea magra in corso di una dieta dimagrante.

 

Durata del sonno e rischio cardiovascolare

Ferrie JE e coll. dell’University College London Medical School, sulla base dell’ipotesi chesostiene la correlazione traperdita di ore di sonno notturne (cioè dormire una media di cinque o sei ore per notte) e aumento del rischio di disturbi cardiovascolari e dei livelli di pressione arteriosa notturni, hanno condotto uno studio prospettico di coortesu 10.308 civili di età compresa tra 35-55 anni, di cui 9.781 con i dati completi, dimostrando che il rischio di incorrere in eventi cardiovascolari, anche gravi, è il medesimo sia per gli insonni sia per i poltroni.

Per questo motivo i ricercatori hanno stilato una sorta di vademecum da seguire:

  • prima di tutto si deve fare in modo di dormire almeno sette ore per notte ma mai più di otto,
    • la stanza da letto deve essere un luogo rilassante,
    • il sonno migliore è quello notturno, 
  • prima di andare a letto bisogna evitare di mangiare cibi o bere bevande che contengano sostanze eccitanti,
  • bisogna evitare di mangiare molto o di bere troppi alcolici prima di coricarsi,
    • è importante non andare mai a letto adirati, 
    • fare attività sportiva al massimo sei ore prima di andare a letto. 

Insomma, l'esatto contrario che molti fanno regolarmente(Sleep 2007; 30 (12):1659-66.). Di fatto, una riduzione della durata del sonno da 6, 7, o 8 ore di base si associava con aumento della mortalità cardiovascolare (H.R 2,4 (IC 95% 1,4-4,1). Tuttavia, l’aumento della durata del sonno si associava con mortalità anche se non cardiovascolare (hazard ratio 2.1 (IC 95% 1,4-3,1). Peraltro, la brevità del sonno si dimostrava un fattore di rischio anche per l'aumento di peso, l’ipertensione, il diabete di tipo 2 e la sindrome metabolica, portando talvolta a mortalità. Alcune cause risiedevano spesso nella depressione, nel basso stato socioeconomico e nella fenomenologia complessa del cancro. Inoltre, i disturbi del sonno erano strettamente associati a quelli psichiatrici, come la depressione, l’alcolismo e il disturbo bipolare. Peraltro, sarebbe emerso che fino al 90% degli adulti con depressione dichiarava difficoltà nell’addormentarsi.

Charumathi Sabanayagam e collaboratori del West Virginia University School of Medicine, Morgantown, sulle premesse della dimostrazione degli studi precedenti sull’aumentato rischio di diabete e ipertensione in entrambi i tempi di sonno breve e lungo, volendo portare maggiore chiarezza sulla relazione con le malattie cardiovascolari (MCV), utilizzando i dati del National Health Interview Survey 2005, hanno analizzato le informazioni di 30.397 intervistati (Sleep. 2010;33:1037-1042). Un totale di 2.146 partecipantidi almeno 18 anni di età, per il 57,1% donne, ha dichiarato di aver subito una MCV, infarto miocardico, angina o ictus, rivelando anche le ore di sonno medie in un periodo di 24 ore. Il riferito ammontare di ore di sonno è stato suddiviso in 5 categorie: 1) 5 ore o meno, 2) 6 ore, 3) 7 ore, 4) 8 ore, 5) 9 ore o più. I ricercatori hanno, quindi, determinato l'associazione tra la durata del sonno e il rischio cardiovascolare, tenendo conto dei potenziali fattori confondenti, quali ipertensione, diabete, depressione e attività fisica. Rispetto al gruppo con una media di sette ore di sonno per notte, il rischio di MCV negli altri gruppi con più o meno ore aumentava dal 23% al 220%. Il rischio maggiore si associava con le 5 ore o meno di sonno per notte con un odds ratio multivariata (OR) per le patologie cardiovascolari di 2.20 (IC 95% 1,78-2,71). Per la durata di sonno di 6, 8 e 9 ore o più, l’OR multivariato era 1,33 (IC,95% 1,13-1,57), 1,23 (IC 95%, 1,06-1,41) e 1,57 (IC95%, 1.31 - 1,89), rispettivamente. L'associazione tra rischio cardiovascolare e durata del sonno rimaneva invariata nell’analisi per etnia, sesso e indice di massa corporea. Ciò anche quando l’infarto miocardico e l’ictus sono stati considerati separatamente dalle MCV nel loro complesso. Secondo i ricercatori, i meccanismi sottostanti l'associazione di breve durata del sonno con le MCV possono includere disturbi di funzioni endocrine e metaboliche correlate al sonno, mentre nel caso della maggior durata del sonno potrebbero correlarsi condizioni di disordini respiratori di fondo o di scarsa qualità del sonno stesso.

Disturbi del sonno e tasso di mortalità

Laurel Finn e collaboratori dell’University of Wisconsin School of Medicine in Madisonhanno  voluto studiare 2.242 partecipanti al Wisconsin Sleep Cohort Study 1.872 soggetti, registrando 128 decessi nel corso di un follow-up di 19 anni (June 7, 2010, in San Antonio, Texas, at SLEEP  vol 33, 2010, from the 24th annual meeting of the Associated Professional Sleep Societies LLCsleep 2010-06-17 06).Le morti, metà delle quali erano occorse nel sesso maschile, erano classificate come segue:

  • il 10,2% nei casi di difficoltà ad addormentarsi,
  • il 10,1% nei casi di difficoltà di riaddormentarsi,
  • il 9,4% nei casi di risveglio precoce,
  • l’8,6% nei casi di qualsiasi insonnia cronica,
  •  l’8,6% nei risvegli ripetuti
  • il 2,6%nei casi di assenza d’insonnia.

Gli AA hanno, così, rilevato che in chi aveva riportato l'insonnia in almeno 2 indagini la ratio di rischio aggiustata era di 2.1 (95% intervallo di confidenza [IC], 1.2 - 3.5), rispetto a quelli senza il disturbo. Peraltro, l'hazard ratio per la mortalità nei casi di difficoltà ad addormentarsi era di 1,9 (IC 95% 0,9-4,1), per quella nei ripetuti risvegli di 3,2 (95% CI, 1,8-5,7), per quella nella difficoltà di riaddormentarsi di 1,8 (95% CI, 0,9 - 3.4) e per quella nell'eccitazione iniziale di 2,4 (95% CI, 1,2-4,5). Il risultato più sorprendente è stato l'aumento del rischio elevato di mortalità tra le persone con insonnia cronica, rispetto a quelli senza, anche dopo aggiustamento per tutte le variabili confondenti. Gli AA, dietro la scorta di tali risultati, hanno dichiarato che l'insonnia, spesso considerata un semplice fastidio sia dai pazienti e sia dai dottori, dovrebbe essere presa in più seria e attenta valutazione. Soprattutto i medici, poi, dovrebbero aggiornarsi continuamente e cercare più attentamente e diligentemente le sue possibili cause per predisporre le nuove e specifiche terapie farmacologiche, possibilmente personalizzate per ogni paziente.

Differenze della deprivazione cronica del sonno con l’età

Cain SW e collaboratori dellaDivision of Sleep Medicine, Harvard Medical School, Boston, MA, sulla base delle relazioni tra mancanza acutadi sonno egravi conseguenze delle prestazioni, in rapporto anche alle indicazioni che gli adulti sani di età superiore potessero risultare meglio preservati rispetto ai giovani adulti hanno voluto esaminare se tale dato potesse valere anche in condizioni di restrizione cronica del sonno. Hanno, quindi arruolato 19 volontari sani, 12 giovani e 7 anziani, in uno studio di ricovero di 39 giorni (Jounal of sleep and sleep disorders research,2010, Vol. 33). In generale, i soggetti anziani hanno fatto rilevare risultati significativamente migliori rispetto ai giovani con p <0,01, senza differenza di età per il più veloce % RT 10 (P> 0,05). In definitiva, però, in tutta la restrizione cronica di sonno le prestazioni peggioravano in tutti i soggetti ma in modo più significativo nei giovani.

Il fumo in gravidanza pregiudica la durata del sonno del nascituro

Kristen Stone e collaboratori dello Women and Infants Hospital in Providence, Rhode Island,hanno eseguito uno studio multicentrico su quasi 1.400 bambini, nati dal 1993 al 1995, per studiare gli effetti a lungo termine dell’esposizione in utero alla cocaina, oppiacei, marijuana, alcol e/o nicotina (Arch Pediatr Adolesc Med 2010; 164:452-456). Dell’esposizione prenatale alle cinque sostanze, quella della nicotina si rivelava l'unico predittore dei problemi di sonno nella vita da un mese ai quattro anni, dai 5 agli 8 e dai 9 ai 12 di età. Tale studio dimostrerebbe, quindi, che il fumo in gravidanza delle madri determina maggiore probabilità nei figli di problemi di sonno sin dalla nascita sino ai 12 anni di età e ciò in diretta correlazione con l’intensità dell’abitudine voluttuaria.AscoltaTrascrizione fonetica

Obesità della prima infanzia e brevità di sonno notturno

Janice F. Bell e collaboratori dell’University of Washington in Seattle, sulla base delle prove che tendono a sostenere un solido rapporto tra ridotta durata del sonno ed eccesso di peso nei bambini e negli adolescenti, utilizzando lo PSID-CDS(Panel Survey of Income Dynamics Child Development Supplements) nel 1997 e nel 2002, hanno esaminato l’associazione tra durata del sonno diurno e notturno e obesità successive in 1930 bambini e adolescenti, dallo zero ai 13 anni al basale nel 1997 (Arch Pediatr Adolesc Med. 2010;164:840-845). Tra i bambini dallo zero ai 4 anni la breve durata di sonno notturno al basale si dimostrava fortemente associata con un rischio più elevato di sovrappeso o obesità successivi (odds ratio, 1,80; intervallo di confidenza 95% 1,16-2,80). Tra i bambini dai 5 ai 13 anni, però, il sonno di base non si associava con lo stato di peso successivo, ma il sonno contemporaneo ne è risultato inversamente associato e in entrambi i gruppi il sonno diurno non risultava significativamente associato con l'obesità successiva. Questi risultati secondo gli AA suggerivano che esiste una finestra critica prima dei 5 anni di età quando il sonno notturno può essere importante per lo stato di obesità successiva.

Sonno, apporto calorico, insulinoresistenza e IMC in adolescenti

Landis AM e collaboratori dell’University of Washington, Seattle, WA, United States, sulle premesse che il diabete mellito 2 e le sue caratteristiche metaboliche intermedie, come insulino-resistenza, sono sempre più diffusi tra gli adolescenti, almeno in parte in rapporto all'aumento del peso corporeo, considerando che l'indice di massa corporea (IMC) è direttamente correlato con l'assunzione calorica e inversamente con il tempo di sonno totale (TST), hanno voluto verificare l’associazione tra lo TST, l'apporto calorico, la resistenza all'insulina e l’IMC in 30 adolescenti altrimenti sani, nel 56,7% femmine, 76,7% di razza bianca, di età media 15,7 + 2,0 anni. L’IMC medio è stato di 24,4 + 5,4 kg/m2 con il 40% di obesi o in sovrappeso, l’apporto calorico medio di 2.310 + 585 kilocalorie e l'indice HOMA-IR 1,96 + 1,1 (> 2 = patologico), lo TST medio notturno 7,7 + 0,92 ore per notte, inferiore rispetto alle 8,5-9,25 raccomandate, la glicemia media a digiuno e l’insulina 94,4 + 6,4 mg/dL e 8.5 + 5.0 U/mL rispettivamente.Tutti i livelli di glucosio a digiuno erano compresi nella norma e la riduzione dello TST, aggiustata per età, sesso, IMC e stato puberale risultava significativamente associata con l’aumento dell’assunzione di carboidrati (r = -. 46, p = .02) e di zuccheri (r = -. 55, p <.01). Lo TST non si è, invece, associato con l’HOMA-IR, le chilocalorie e l’IMC.

Perdita di sonno e consumo di droga negli adolescenti

Sara C. Mednick e collaboratori del Department of Psychiatry, University of California San Diego, La Jolla, California, sulla base che nel 2006 si era appurato negli USA che il 15,7% degli alunni dell’8° grado e il 42,3% del 12° aveva provato marijuana almeno una voltae che le difficoltà di dormire e la sonnolenza eccessiva erano state spesso citate come segni e sintomi di allarme primario dell’abuso di droghe negli adolescenti, raramente studiate come una sua causa, hanno identificato un campione di 90.118 studenti in 142 scuole, per uno studio con questionari sulle loro abitudini voluttuarie e di sonno (PLoS ONE, 2010; 5 (3): e9775 DOI). Hanno, quindi disegnato una mappa di rete sociale di 8.349 adolescenti al fine di valutare la modalità di diffusione delle abitudini del sonno e il comportamento verso la droga, secondo le influenze degli amici. Il collegamento tra gli individui in ragione ai loro comportamenti può essere determinato, difatti, da almeno tre processi: 1) l'influenza, per cui un comportamento in una sola persona trascina gli altri, 2) l’omofilia, secondo cui gli individui con gli stessi comportamenti di preferenza si scelgono l'un l'altro come amici, 3) il confondimento, per il quale gli individui si collegano in comune per esperienze di esposizioni contemporanee (come un quartiere rumoroso o uno spacciatore di droga locale).Gli AA. 

 

hanno rilevato che i gruppi di comportamento con poco sonno e consumo di droga si estendevano fino a quattro gradi di distanza (ad amici di amici di amici dei propri amici) nella rete sociale. I modelli prospettici di regressione dimostravano, anche, che la posizione centrale nella rete influenzava negativamente i risultati futuri del sonno, ma non viceversa. Inoltre, se un amico dormiva ≤ 7 ore, aumentava la probabilità di trasmissione del comportamento dell’11%. Se, poi, un amico usava marijuana, aumentava la probabilità negli altri dell’uso di marijuana del 110%. Infine, la probabilità che un individuo utilizzasse farmaci aumentava del 19%, quando un amico dormiva ≤ 7 ore. Un’analisi mostrava, poi, che il 20% di tal effetto risultava dalla diffusione del comportamento del sonno da una persona all'altra.

Questo è il primo studio che suggerisce come la diffusione di un comportamento nelle reti sociali possa influenzare l’espansione di un altro. 

I risultati, pertanto, indicano che gli interventi dovrebbero concentrarsi sul tutelare il sonno sano per prevenire l'uso di droghe e rivolge una raccomandazione alle istituzioni e alle famiglie, organi che possono migliorare i risultati di tutta la rete sociale.

Diffusione dinamica della felicità nella rete sociale del Framingham Heart Study:

A tale proposito già James H Fowler e collaboratori dell’University of California, San Diego e dell'Università di Harvard,per stabilire se la felicità potesse diffondersi da persona a persona all'interno della rete sociale, hanno svolto uno studio longitudinale analogo (BMJ2008;337:a2338)nell’ambito del Framingham Heart Study social network  su 4.739 soggetti  seguiti dal 1983 al 2003.

I dati sono scaturiti da un questionario di semplici domande come "quale sensazione di speranza per il futuro?" e "Sei stato felice?", annotando anche i cambiamenti nella sfera familiare per ogni partecipante, come una nascita, una morte, un matrimonio, un divorzio. In tal modo, i ricercatori hanno ampliato le conoscenze, derivate da precedenti lavori sulla felicità per cui essa appare concentrarsi sulle condizioni socioeconomiche e sui fattori genetici, aggiungendo che la stessa è un fenomeno relazionale, che si condensa in gruppi di persone, potendosi estendere fino a tre gradi di lontananza, ad esempio, per gli amici, degli amici dei propri amici.

I risultati hanno dimostrato, in effetti, che lo stato di umore delle persone felici e infelici era in rapporto a quello delle persone conosciute, estendendosi fino ai tre gradi di separazione (ad esempio, per gli amici degli amici dei propri amici). 

Coloro che erano circondati da molte persone felici e quelli centrali nella rete dimostravano più probabilità di diventare felici anche nel futuro. I modelli statistici longitudinali suggerivano che la diffusione della felicità conseguiva dai gruppi e non per la sola tendenza delle persone felici ad associarsi insieme.  Un amico, che viveva all'interno di circa 1,6 km e che diventava felice, aumentava la probabilità dello stesso sentimento del 25% (IC95%: 1% - 57). Effetti simili erano rilevati in coniugi conviventi (8%, 0,2% al 16%), in fratelli che vivevano vicini di casa entro un 1,6 Km (14%, 1% al 28%) e alla porta affianco (34%, 7% al 70%). 

Lo stesso effetto non si registrava tra i colleghi di lavoro e decadeva nel tempo e con la separazione geografica.Da notare che precedenti ricerche hanno identificato diverse condizioni, definite come felicità o infelicità, senza considerare la felicità del prossimo, come fattore influente della propria. La mimica, peraltro, riesce a trasferire stati emotivi direttamente da una persona all’altra, secondo particolari condizioni personali e circostanziali in intervalli da secondi a settimane. In conclusione, tale studio sembra dimostrare che la felicità, come l'obesità, il fumo e l'altruismo,è contagiosa per gli adulti all'interno delle reti sociali e dipende da quella degli altri con i quali si è collegati, contribuendo a giustificare che essa, come la salute, rappresenta un fenomeno collettivo.

Peculiarità dei disturbi del sonno nelle donne

Le donne, rispetto agli uomini, presentano probabilità doppia di difficoltà ad addormentarsi e di mantenere il sonno, con risultati di scarsa qualità della vita.  Le differenze, però, diventano significative dopo la pubertà. Condizioni ormonologiche, problemi psicologici, depressione ed anche sindromi dolorose rappresentano i fattori causali più comuni. Peraltro, la sindrome delle gambe senza riposo (RLS) si riscontra più diffusamente, verificandosi a tassi più elevati durante la gravidanza.In particolare, gli steroidi sessuali svolgono un ruolo eziologico sia per un effetto diretto sui processi del sonno stesso sia attraverso il loro effetto sull'umore e lo stato emotivo. Difatti, gli steroidi sessuali influenzano il sonno EEG durante la fase luteale aumentandone la frequenza, insieme all’elevazione della temperatura corporea. La progressiva riduzione e mancanza di estrogeni con l’età, che assume anche un ben preciso ruolo nell'eziologia dell’apnea notturna, contribuisce, inoltre, alla messa in scena dei sintomi vasomotori, come le vampate di calore, determinanti in tal senso. Peraltro, anche i disturbi psichiatrici, e in particolare quelli dell'umore, come pure le condizioni di dolore cronico, si associano costantemente con l'insonnia.

Le donne soffrono spesso di:

  1. Sonno disturbato per vari gradi di ostruzione faringea che vanno dall’UARS (upper airway resistance syndrome) all’OSA (obstructive sleep apnea syndrome), risultante dell’alta pressione negativa generata dallo sforzo inspiratorio e il fallimento dei muscoli dilatatori delle vie aeree superiori. I fattori concausali di tale condizione sono soprattutto l’obesità, ma anche l’atonia muscolare e varie anomalie anatomiche che possono occludere le vie aeree, come le tonsille, la macroglossia. L'obesità è un fattore di rischio noto per l’OSA e le donne che ne soffrono sono probabilmente più obese degli uomini, anche se la distribuzione del grasso è differente. Esse, peraltro, dimostrano piuttosto eventi ostruttivi parziali (ipopnee), rispetto all’OSA completae la durata delle ipopnee, quando presenti, tendono a essere minori che negli uomini.Particolare rilievo assume la menopausa in cui l’OSA, per lo più evidente durante il sonno REM e a parità d’età meno grave che negli uomini, aumenta sia in prevalenza, assestandosi a circa il doppio rispetto alla premenopausa, sia in gravità.
  2. RLS (sindrome delle gambe senza riposo), su sospetta base genetica nella forma primaria, e PLMD (periodic limb movement disorder), disturbi idiopatici che possono causare un profondo sconvolgimento. La RLS è, difatti, un disturbo che si verifica di solito prima dell'inizio del sonno e si associa a dolore ai polpacci, provocando irrequietezza nelle gambe che si attenua con il movimento. La PLMD, che si verifica durante il sonno, è caratterizzata da isolati movimenti periodici degli arti inferiori, di solito seguiti dal risveglio.
  3. Narcolessia, contrassegnata da: sonnolenza diurna, allucinazioni ipnagogiche, cataplessia, paralisi del sonno. Queste caratteristiche sono strettamente legate alle caratteristiche normalmente presenti durante i movimenti oculari rapidi (REM).
  4. Disturbi del ritmo circadiano, di cui il più comune è il DSP(delayed sleep phase syndrome) con esordio tipico durante la pubertà,contraddistinto da un ritardo significativo di 3-4 ore, sia nel tempo di andare a dormire sia di svegliarsi alla presenza di un normale tempo totale di sonno totale. Esso può, peraltro, riguardare anche un cronotipo serale con preferenza individuale per una maggiore attività durante la notte.

Gangwisch JE e collaboratori del Department of Psychiatry, Columbia University, New York, sulla premessa della giàdimostrata associazione trala brevità del dormire con l’incidenza dell’ipertensione, considerando che la pressione arteriosa cala del 10-20% durante il sonno per cui tale condizione potrebbe trovare spiegazione attraverso adattamenti strutturali del sistema cardiovascolare portato a funzionare a un equilibrio di pressione elevata, sulla base che la limitazione di sonno sperimentale si è rilevata tale da ridurre la leptina, aumentare la grelina, il colesterolo, l'appetito, compromettere la sensibilità all'insulina, derivandone da tutto ciò obesità, diabete, ipercolesterolemia, potenti fattori di rischio per l’ipertensione, hanno svolto uno studio longitudinale dal 1986 al 2006 con analisi multivariata di regressione di Cox nelle donne del Nurses’Health Study (n = 61.538) per verificare se la durata del sonno si associasse con l'incidenza dell'ipertensione (n = 30.260) e se obesità, diabete, ipercolesterolemia agissero come mediatori di questo rapporto (Jounal of sleep and sleep disorders research,2010, Vol. 33).In confronto al sonno di 7 ore, quello ≤ 5 (HR = 1,10, CI 95% 1,04-1,17) e di 6 (HR = 1.06, CI 95% 1,03-1,10) si associavano a un piccolo ma significativo aumento del rischio d’incidenza d’ipertensione dopo controllo per età, razza/etnia, attività fisica, consumo di sale, alcol e fumo. L'obesità si è dimostrata mediatrice di tale relazione e la sua inclusione nel modello multivariato attenuava sensibilmente i risultati per il sonno ≤ 5 ore (HR = 1.06, 95% CI 1,00-1,13) e di 6 ore (HR = 1,04, IC 95% 1,01-1,08), cosa che non si evidenziava con il diabete e l’ipercolesterolemia. Gli AA. concludevano, pertanto, che i loro risultati erano coerenti con l’asserzione che l'obesità agisce come mediatore nel rapporto tra la durata del sonno e l'incidenza d’ipertensione.

Notiziario Ottobre 2010 n°10

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NOTIZIARIO Ottobre 2010 N°10

A cura di Giuseppe Di Lascio

 

Con la collaborazione di:

Bagalino Alessia, Bauzulli Doriana, Di Lascio Alessandro, Di Lascio Susanna, Levi Della Vida Andrea, Melilli Simonetta, Pallotta Pasqualino, Sesana Giovanna, Stazzi Claudio, Zimmatore Elena

SONNO E SALUTE

i disturbi del sonno

Giuseppe Di Lascio – Susanna Di Lascio


Le relazioni tra sonno e salute

L’OMS ha definito la salute come un benessere rispondente non semplicemente ad assenza semplice di malattia o infermità ma più compiutamente a uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, in ragione anche dell’ambiente in cui si vive, riconoscendo il suo godimento come uno dei fondamentali diritti dell’uomo.

A tale proposito il sonno, che permette al cervello di sincronizzare tutti i bioritmi essenziali, costituisce un determinante essenziale della salute a tutti ilivelli, sia somatico, in particolare neurovegetativo, sia emotivo-affettivo, sia cognitivo. Pressione arteriosa, frequenza cardiaca, temperatura corporea, ritmo sonno-veglia, bioritmi ormonali e loro circadianità, tono muscolare risentono della regolarità del sonno, che contribuisce anche a ridurre i livelli degli ormoni dello stress, dell’adrenalina e del cortisolo, sostanze che consentono di affrontare gli stati di emergenza e che, se si stabilizzano su livelli elevati, desincronizzano l’ipotalamo, la centralina che coordina tutti i nostri bioritmi, e portano a vivere in una condizione di allarme permanente. Durante l’età fertile, inoltre, il sonno sincronizza la circadianità, la circamensilità e la circannualità, ossia l’andamento quotidiano, mensile, annuale dei bioritmi endocrini e neurochimici, finalizzati anche alla riproduzione. Esso, costituito da un’architettura complessa, presenta fasi diverse, a cui corrispondono diverse funzioni specifiche. Peraltro, una variegata molteplicità di disturbi suole derivare dalla sua complessità, secondo quattro principali categorie: le alterazioni quantitative, le alterazioni qualitative, le parasonnie e altre di minore importanza. I farmaci, così detti cronobiotici, oggi giorno permettono di contrastare molte di queste disfunzioni. Interessante è ricordare che sono ormai note particolari relazioni tra sonno, da un lato, e invecchiamento, sessualità,  regolarità mestruale, gravidanza e normalità funzionale dei vari organi ed apparati dall’altro. Il sonno, ancora, svolge una fondamentale azione stabilizzatrice sul tono dell’umore, riducendo i livelli d’ansia e di irritabilità. Contribuisce, così, al benessere che alimenta il desiderio della vita, in termini di assertività esistenziale e anche sessuale. In caso, invece, di sonno disturbato aumentano la stanchezza generale e l’aggressività, sino a configurare, nei casi più gravi, un vero e proprio disturbo della personalità. Anche il desiderio e l’energia vitale si riducono drammaticamente fino alla franca depressione. Il sonno, in particolare nella fase del sogno, detta anche fase REM (Rapid Eyes Movements), si caratterizza, appunto, per movimenti veloci degli occhi al di sotto delle palpebre chiuse per seguire l’andamento dei sogni. In questa fase il cervello trasforma le tracce di memoria a breve termine in tracce a lungo termine, garantendo, così, non solo l’integrità dei processi psichici superiori, legati all’intelligenza e alle sue espressioni, ma anche le basi stesse dell’identità personale e relazionale. Infatti, il sapere chi siamo è legato al ricordare chi siamo stati e al riconoscimento delle persone, dei luoghi e degli avvenimenti per noi significativi ed essenziali della nostra memoria. Questo evento straordinario avviene tre o quattro volte per notte e dimostra come il sonno sia fondamentale, soprattutto per chi studia, dal momento che la memoria è il principale alleato della capacità di apprendere. In effetti, molte volte la malinconia e la depressione adolescenziali, attribuite superficialmente e troppo frettolosamente all’esplosione ormonale dell’età, potrebbero essere, invece, determinate da una mancanza di sonno.

Interessante è menzionare che Gennaro, L. D del Department of Psychology, University “Sapienza” of Rome, e collaboratori, di recente, sfruttando l'elevata risoluzione delle più recenti tecniche di neuro immagine, hanno studiato 34 soggetti sani dai 20 ai 70 anni d’età, chiedendo agli stessi di compilare un diario dei sogni al risveglio del mattino per due settimane attraverso la registrazione su audiocassetta. Gli AA, con l'analisi di regressione multipla, hanno valutato, quindi, la relazione tra le misure anatomiche e quelle quantitative e qualitative dei sogni segnalati.

Hanno, così, dimostrato che i parametri volumetrici e ultrastrutturali dell’amigdala e dell’ippocampo, che svolgono un ruolo decisivo nella regolazione delle emozioni e nella formazione della memoria durante lo stato vigile, predicono gli aspetti qualitativi del sogno di ogni individuo (Hum Mapp Brain, 2010. © 2010 Wiley-Liss, Inc.).

 Durante il sonno, inoltre, il cervello ripara i danni subiti dalle cellule nervose e attiva nuove connessioni tra i neuroni, aumentando così la capacità associativa, prerequisito per la qualità del pensiero, la prontezza dell’intelligenza e la creatività. Il sonno, dunque, consente al cervello di svolgere numerose funzioni per la salute e di recuperare, in particolare, la stanchezza e l’usura, accumulate durante il giorno, sul piano sia psichico sia metabolico e, quindi, biologico. La controprova osservabile di questo lavoro silenzioso, ma tanto prezioso e indispensabile, è il consumo cerebrale di ossigeno, che aumenta marcatamente proprio durante la notte.

Inoltre, il sonno regolare è essenziale per la regolare attività e funzione immunitaria, come dimostrato da numerose ricerche sulla riduzione  delle difese in caso di sua insufficienza o disturbo.

In definitiva possiamo ripetere con Arthur Schopenhauer ‘’il sonno è per l’uomo ciò che la carica rappresenta per un'orologio’’. Il filosofo, uno dei più rappresentativi dell'ottocento, dimostrava, infatti, di aver intuito che questo stato misterioso della vita dell’uomo, nel quale si trascorre circa un terzo della vita, è indispensabile per sostenere le funzioni e la salute dell'intero organismo, oltre che per il riposo della mente e del cervello.

Di fatto, c’è da notare che ancor oggi ci sono prove limitate sull’associazione dei disturbi del sonno e senso di fatica, incidenti e riduzione delle prestazioni.

Così pure sono disponibili scarse evidenze sulla responsabilità del rumore notturno, spesso causa dei disturbi del sonno, sui cambiamenti dei livelli ormonali e delle condizioni cliniche come le malattie cardiovascolari, depressione e altre malattie mentali. Infatti, a riguardo dovrebbe essere confermata la disponibilità di un modello biologico plausibile con sufficienti elementi di prova per i costituenti della catena causale.In generale, si è dimostrato che gli steroidi sessuali svolgono un ruolo nell’eziologia dei disturbi del sonno nelle donne, sia per avere un effetto diretto sui processi di tale condizione sia attraverso il loro effetto sull'umore e sullo stato emotivo. Gli steroidi sessuali, in effetti, influenzano il sonno EEG, ossia il comportamento dei suoi diversi stadi e fasi durante il periodo luteale, aumentando la frequenza delle onde EEG e la temperatura corporea. La mancanza di estrogeni, che con l’età contribuisce alla determinazione dei sintomi vasomotori, tra cui le vampate di calore, causa in tal modo anche i disturbi di sonno e l’insonnia.

Per quanto riguarda l'adolescenza bisogna ribadire che essa rappresenta un periodo cruciale, caratterizzato da evidenti cambiamenti nella crescita biologica e nello sviluppo cognitivo e psico-sociale. I mutamenti che occorrono nel comportamento del sonno includono la tendenza a sviluppare modelli di sonno irregolare, non dormendo a sufficienza e determinando consequenziale maggiore sonnolenza diurna e l’andare a letto tardi, ritardando le fasi e anticipando il risveglio.Si registra anche una maggiore vulnerabilità ai disturbi del sonno come l’insonnia, gli incubi cronici e i disturbi del sonno circadiani. Studi epidemiologici in alcuni casi porterebbero a considerare che il 14-33% degli adolescenti abbia disturbi del sonno e che il 10 -40% di studenti di scuola superiore sperimenta privazione del sonno moderata o transitoria. Alcuni dei cambiamenti citati possono, peraltro, essere correlati ai cambiamenti biologici associati con l'insorgenza della pubertà, come un allungamento e ritardo della fase dei ritmi circadiani endogeni. Ma anche i fattori psicosociali devono svolgere un ruolo importante insieme alla diminuzione del controllo parentale e all’aumento del tempo trascorso con i coetanei per le attività extrascolastiche e i compiti, per gli impegni di lavoro, per l’uso eccessivo d’internet e, in generale, per gli stress della vita. I disturbi del sonno si associano negli adolescenti a effetti negativi sulla loro capacità di pensare e di concentrarsi a scuola, sul rendimento scolastico, sul comportamento e sull'umore durante le ore diurne, aumentando il rischio d’infortuni e incidenti, la possibilità di depressione maggiore, di uso di droga e di alcol. I disturbi del sonno in studi clinici ed epidemiologici hanno rivelato anche una maggiore propensione al comportamento suicidario. In particolare, studi elettroencefalografici (EEG) hanno documentato alterazioni del sonno nei pazienti psichiatrici con comportamento suicidario, tra cui la latenza del sonno più lungo, l'aumento del tempo REM e dell'attività fasica REM. Si è anche esaminata la relazione tra la secrezione plasmatica di cortisolo prima e dopo il sonno degli adolescenti depressi con i tentativi di suicidio, portando a ipotizzare una disregolazione dell'asse ipotalamo- ipofisi-surrene, combinata con la disfunzione dei meccanismi d’insorgenza di sonno alla base della vulnerabilità per la ricorrenza del disordine e dei tentativi di suicidio futuro stessi.

Disturbi del sonno e suicidio negli adolescenti

Tina R. Goldstein e collaboratori del Western Psychiatric Institute and Clinic, University of Pittsburgh Medical Center, considerando, in effetti, la preoccupante frequenza di suicidio nell’età adolescenziale, hanno voluto esaminare i disturbi del sonno precedenti la morte in un campione di adolescenti che avevano compiuto il suicidio, rispetto a un campione di controllo (J Consult Clin Psychol. 2008 February; 76(1): 84).  I disturbi del sonno venivano, così, valutati in 140 vittime di suicidio adolescenziale con un protocollo di autopsia psicologica e in 131 controlli con una simile intervista semistrutturata psichiatrica. Di poi i tassi dei disturbi del sonno venivano confrontati tra i gruppi. I risultati indicavano che chi aveva compiuto il suicidio avevano, in generale, tassi più elevati di disturbi del sonno, insonnia, ipersonnia, supportando un rapporto significativo e temporale tra i problemi di sonno e il suicidio compiuto dagli adolescenti. Su tale base, viene da considerare che i disturbi del sonno dovrebbero essere attentamente valutati negli sforzi di prevenzione e d’intervento sugli adolescenti a rischio di suicidio.

Gravidanza, disturbi del sonno ed errori del metabolismo glucidico

Chunfang Qiu e collaboratori del Center for Perinatal Studies, Swedish Medical Center, Seattle, Washington, USA, considerando che è abbastanza nota, ma non in gravidanza, l’associazione tra sonno insufficiente e di scarsa qualità con l’obesità, la ridotta tolleranza glucidica e il diabete, hanno studiato una coorte di 1.290 gestanti iniziali,dai 18 anni in su, raccogliendo informazioni sulla durata del sonno e il russamento (BMC Women's Health 2010, 10:17).

Circa il 5,3% della coorte di studio sviluppava diabete mellito gestazionale (68 su 1.290) e, dopo aggiustamento per età materna e razza/etnia, il rischio di GDM, diabete gestazionale, risultava aumentato tra le donne con sonno di ≤ 4 ore rispetto a quelle con 9 per notte (RR = 5,56, IC 95% 1,31-23,69).

I RR corrispondenti erano per le donne magre (<25 kg/m2) 3.23 (IC 95% 0,34-30,41) e 9,83 (IC 95% 1,12-86,32) per quelle in sovrappeso (≥ 25 kg/m2). Nel complesso, il russare si associava a un rischio 1,86 volte maggiore di GDM (RR = 1,86, IC 95% 0,88-3,94). Il rischio di GDM era, poi, particolarmente elevato tra le donne in sovrappeso che russavano. Rispetto alle donne magre che non russavano, quelle in sovrappeso e russatrici avevano un rischio 6,9 volte maggiore di GDM (IC 95% 2,87-16,6).

Postmenopausa, ormoni e qualità del sonno

Gregory J Tranah e collaboratori del CPMC Research Institute, San Francisco, CA, USA, considerando che i disturbi del sonno e l’insonnia sono comunemente riferiti dalle donne in postmenopausa, in assenza di ampio studio per una definizione sulla loro relazione con la terapia ormonale (HT), utilizzando i dati del SOF, multicenter Study of Osteoporotic Fractures, hanno testato il rapporto tra HT e il ritmo sonno-veglia, stimato dall’actigrafia in 3.123 donne di età compresa tra gli 84 ± 4 anni con range 77-99(BMC Womens Health. 2010; 10: 15).

Erano disponibili 424 misure actigrafiche attuali, 1.289 antecedenti e 1.410 per quante non in cura con HT. Le donne, in trattamento HT attuale, presentavano un WASO (Wake After Sleep Onset) più breve (76 vs 82 minuti, P = 0,03) e minori episodi di lungo risveglio (≥ 5 minuti) (6,5 vs 7,1, P = 0,004), rispetto a chi non lo era.Le donne, in cura HT in passato, presentavano il tempo totale di sonno più lungo di quelle mai in trattamento (413 vs 403 minuti, p = 0,002). Queste ultime avevano, anche, probabilità elevate di SE (sleep efficiency)<70% (OR 1,37, IC 95%, 0.98-1 0,92) e significativamente più alta probabilità di WASO ≥ 90 minuti (OR 1,37, IC 95%, 1.02-1 .83) e ≥ 8 episodi lungo risveglio (OR 1,58, IC 95%, 1.18-2 .12), rispetto a quelle con uso corrente di HT.

Effetti dell'invecchiamento e della menopausa sull’architettura del sonno

Lukacs JL del General Clinical Research Center and Reproductive Sciences Program, University of Michigan, per meglio distinguere gli effetti dell’invecchiamento, di per sé, da quelli dovuti alla influenza degli steroidi sessuali, hanno esaminato l'architettura del sonno sia in soggetti giovani sia di mezza età (J Womens Health (Larchmt). 2004 Apr;13(3):333-40).I ricercatori hanno arruolato cinquantuno soggetti suddivisi in quattro gruppi di volontarie: 15 OC, dai 40 ai 50 anni, con ciclo ovulatorio, 14 YC, dai 20 ai 30 anni, con ciclo ovulatorio, 12 OVX, dai 40 ai 50 anni, ovariectomizzate e in cura sostitutiva di estrogeni e 10 P M, dai 40 ai 50 anni, spontaneamente in post-menopausa. Pur con concentrazioni di estrogeni simili al gruppo YC (28 ± 4 pg / ml) e OC (34 ± 6 pg / ml), le donne OC avevano una ridotta efficienza del sonno (79% ± 2%) vs YC (87% ± 3 %, p = 0,009) e nei gruppi OVX e PM, con concentrazioni di estrogeni nettamente diverse, l'efficienza del sonno risultava anche ridotta rispetto al gruppo YC (YC OVX vs, 79% ± 3% vs 87% ± 3%, p = 0.05; PM vs YC, il 75% ± 3% vs 87% ± 3%, p = 0,007).Il risveglio era più lungo nei tre gruppi di anziane (103 ± 10 minuti, 101 ± 12 minuti, 123 ± 12 minuti per OC, OVX, PM, rispettivamente) vs l’YC (63 ± 13 minuti, p <0,05). Il numero dei viraggi di stadio si associava, inoltre, positivamente con l'avanzare dell'età (p rho = 0.3, <0,03) ma non con la concentrazione di estrogeni. In conclusione, tale studio sembra dimostrare che il deficit di sonno, connesso con l'invecchiamento in risposta a un fattore stressante sperimentale, si verifica nelle donne di mezza età precedentemente alla menopausa.

Il CARDIA Sleep Study

Kristen L. Knutson e collaboratori del Department of HealthStudies, University of Chicago, 

sulla base che diversi studi epidemiologici avevano evidenziato una correlazione positiva tra durata del sonno autoriferita breve e ipertensione, hanno voluto esaminare in 578 afro-americani e bianchi dai 33 ai 45 anni, di età media di 40,in uno studio accessorio del CARDIA (Coronary ArteryRisk Development in Young Adults), le associazioni trasversali e longitudinali tra durata del sonno, misurata oggettivamente, e la pressione  arteriosa (Arch Intern Med. 2009;169(11):1055-1061).

Dopo aver escluso quanti assumevano farmaci antipertensivi e dopo aggiustamento per età, razza e sesso, la durata più breve di sonno e il più basso mantenimento di esso predicevano significativamente i più elevati livelli di pressione sistolica e diastolica, come pure i cambiamenti sfavorevoli dei livelli pressori oltre i 5 anni (tutti p <.05).La durata breve del sonno prediceva anche un aumento significativo dell’incidenza d’ipertensione (odds ratio, 1.37; intervallo di confidenza 95% 1,05-1,78).

Studi di privazione del sonno a breve termine in laboratorio avevano già suggerito, di fatto, un nesso causale tra la perdita di sonno e ipertensione, secondo possibili meccanismi di aumento dell'attività simpatica, stimata con le misure di variabilità della frequenza cardiaca. Nella deprivazione cronica di sonno l’aumento dell'attività nervosa simpatica potrebbe causare, di certo, l'ipertensione. Inoltre, l’osservazione che si osservavano livelli più elevati di pressione sanguigna negli uomini, soprattutto di colore, rispetto alle donne, suggeriva ai ricercatori la possibilità intrigante che i valori più alti ben documentati negli afro-americani e gli uomini potevano essere in parte collegati alla durata del sonno. Pertanto, l’'individuazione di un nuovo fattore di rischio per l’ipertensione nello stile di vita potrebbe portare a nuovi interventi per prevenirla o ridurla. 

La deprivazione del sonno

La società moderna caratterizza modi di vita sempre più dinamici che invitano a dormire il meno possibile. Difatti, il gran tanto da fare porta a condannare il sonno come una perdita di tempo. Invece, esso rappresenta in vari modi un intervallo essenziale di riposo e di ringiovanimento per la mente e il corpo in proiezione delle loro prestazioni. Il sonno ripaga con benefici consistenti il nostro stato d'animo, la memoria e la concentrazione, aiutando a organizzare i ricordi, a solidificare l'apprendimento. Il sonno regolare, in particolare quello in cui si attivano i sogni (sonno REM), regola anche l'umore.

Variando da 3-5 a 8 ore e più i riferimenti sul cumulo soddisfacente assoluto di ore di sonno giornaliero, in quanto non pienamente determinata la sua funzione, la privazione di sonno è meglio definita dalla compromissione delle funzioni che essa suole provocare.

Quando si continua a non mantenere la quantità di sonno di cui si ha bisogno, si comincia a pagare con la sonnolenza diurna, la difficoltà di concentrazione, l’irritabilitàe l’irascibilità, l’aumento del rischio di cadute e d’incidenti e la riduzione di produttività, le alterazioni dell’emotività dell’interazione sociale e del processo decisionale.

La privazione del sonno influisce anche sulle capacità motorie tanto da portare nei casi di grave deprivazione ad assumere nella guida dei veicoli un comportamento simile a quello dello stato di ebbrezza.

A tale proposito, la National Highway Traffic Safety Administration ha riportato che tale stato provoca, difatti, oltre 100.000 infortuni e 1.500 morti ogni anno. Ma il sonno apporta benefici anche al sistema immunitario e nervoso e allo sviluppo e alla crescita. Senza sonno adeguato, il sistema immunitario s’indebolisce e l’organismo diventa più vulnerabile alle infezioni e alle malattie. Il sonno, difatti, rappresenta il periodo di riposo e di riparazione fisiologico per i neuroni e, in generale, per la crescita cellulare. Studi recenti hanno suggerito che durante l’inattività del cervello legata al sonno i neuroni, molto attivi da svegli, possono ricaricare le riserve di energia consumate e permettere la funzione cellulare e la riparazione dei danni provocati dall’intenso metabolismo, favorendo anche la formazione di nuove cellule nervose. Molti ormoni vengono rilasciati durante il sonno, o poco prima di dormire, come l’ormone somatotropo, vitale per la crescita dei bambini ma anche per i processi di riparazione cellulare, come quella del muscolo.

La privazione del sonno porta, pertanto, al così detto debito di sonno, che può accumularsi per varie notti, con possibilità, se non eccessivo, di compensazione con un giorno o due di sonno normale. Va, comunque, sconsigliata l’abitudine di programmare ore più lunghe di sonno alla fine della settimana per dormire meno nei giorni feriali, in quanto si può compromettere la qualità generale del sonno stesso. È buona norma, invece, andare a dormire e svegliarsi sempre più o meno alla stessa ora di ogni giorno.Nel caso di privazione cronica di sonno, potrebbe in alcuni casi essere necessario un tempo più lungo per esaurire il debito di sonno, usufruendo, per esempio, della possibilità di una vacanza, dormendo per un paio di giorni e per tutto il tempo necessario.

Gli studi PET con glucosio marcato hanno mostrato nella deprivazione del sonno che, dopo 24 ore di vigilanza continua, l'attività metabolica del cervello si riduce in maniera significativa fino al 6% per l'intero cervello e fino all’11% per specifiche aree corticali e gangliari basali.  

Nell’uomo si determina anche una riduzione della temperatura corporea, della funzionalità del sistema immunitario e del rilascio di ormone della crescita. La mancanza di sonno appare anche causa di aumento della variabilità della frequenza cardiaca. Con la diminuzione del sonno, le attività cognitive di ordine superiore sono subito compromesse in modo sproporzionato, così che le prove che richiedono velocità e precisione si  rivelano notevolmente rallentate e comincia a fallire la velocità prima dell’accuratezza. La riduzione del sonno totale, comunque,  riduce la velocità del tempo di reazione nei compiti semplici e nella soluzione dei problemi matematici richiesti da un programma di computer più esigente. In simulazioni di guida gli incidenti aumentano progressivamente con la durata della deprivazione. Gli  studi PET con glucosio marcato dimostrano che i soggetti, privati del sonno per 24 ore, presentano una diminuzione del metabolismo nelle aree associative prefrontale e parietale, considerate le più importanti per il giudizio, il controllo degli impulsi, l'attenzione e l'associazione visiva, rispetto alle aree primarie sensoriali e motorie, necessarie per la ricezione e che reagiscono agli input ambientali. La privazione del sonno, come già detto, è, comunque, un concetto relativo, così che le scarse perdite possono non essere riconosciute dai singoli, mentre le più severe limitazioni possono determinare anche gravi deficit cognitivi simili a quelli osservati in alcuni pazienti colpiti da ictus.

Comunque, il suo effetto negativo su attenzione e memoria di lavoro è supportato ampiamente dalla letteratura esistente sia nella condizione acuta totale sia nella  cronica parziale. Le persone anziane dimostrano, peraltro, una minore compromissione cognitiva rispetto ai più giovani e le donne sembrano, in termini di performance cognitive, più resistenti nel sopportare lo stato di veglia prolungata rispetto agli uomini, mentre fisiologicamente il loro recupero appare più lento. Pur tuttavia, la tolleranza alla deprivazione del sonno può dipendere anche da caratteristiche individuali ed i meccanismi che inducono le differenze tra i gruppi di età ed il sesso o individui diversi sono ancora per lo più poco chiare. Difatti, diversi motivi possono essere coinvolti, come meccanismi fisiologici e fattori sociali e ambientali. Peraltro, l’ampia diversità di selezione dei soggetti e dei metodi, adottati negli studi scientifici, rende ulteriormente difficile la  comparazione dei risultati. 

notiziario settembre 2010 N°9

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NOTIZIARIO Settembre 2010 N°9

A cura di Giuseppe Di Lascio

 

Con la collaborazione di:

Bagalino Alessia, Bauzulli Doriana, Di Lascio Alessandro, Di Lascio Susanna, Levi Della Vida Andrea, Melilli Simonetta, Pallotta Pasqualino, Sesana Giovanna, Stazzi Claudio, Zimmatore Elena

Vitamina “D” e malattie cardiometaboliche

L

a vitamina D rappresenta, invero,  nel diabete mellito un nuovo campo di studio e apprendimento di sviluppo immediato.Nell'attuale stato delle conoscenze la vitamina esercita, in effetti, un ruolo nella patogenesi del diabete di tipo 1 e nell’insorgenza del LADA (Latent Autoimmune Diabetes in Adults) con azioni immunomodulatrici, influenzando l'attività dei linfociti e delle interleuchine. Nel diabete di tipo 2 sembra, invece, agire attraverso meccanismi diversi che interessano la secrezione e la sensibilità all'insulina attraverso i suoi effetti sulle cellule beta, sui mediatori dell’infiammazione e sull’ormone paratiroideo.

L'incidenza crescente, epidemica del prediabete e del diabete di tipo 2, principalmente caratterizzati dall’insulinoresistenza, rappresenta un problema di salute critico con conseguenti devastanti costi personali e sanitari. Peraltro, negli studi epidemiologici, espressi dai livelli nel siero di 25-idrossi-D, la vitamina appare inversamente associata al diabete e la sua integrazione,  anche come metabolita attivo 1,25 (OH) 2D, risulta migliorare la sensibilità all'insulina, pure nei soggetti con parametri normali di metabolismo del glucosio. I meccanismi proposti in tale condizione risiedono nelle potenziali relazioni con i miglioramenti nella massa magra, la regolazione del rilascio, l’alterata espressione dei recettori e gli effetti specifici sull’azione dell'insulina. Queste azioni possono essere mediate dalla produzione sistemica o locale di 1,25 (OH) 2D o dalla soppressione del paratormone, che possono incidere negativamente sulla sensibilità all'insulina. Pertanto, gli studi nei meriti sostengono una sostanziale relazione tra la vitamina “D” e la sensibilità all'insulina, pur necessitando ulteriori chiarimenti per definirne più esattamente i meccanismi alla loro base.

Anastassios G. Pittas e coll. della Division of Endocrinology, Diabetes and Metabolism, Tufts-New England Medical Center, Boston, hanno analizzato gli studi osservazionali sull’associazione, relativamente coerente, tra carenza di vitamina “D”, assunzione di calcio o prodotti caseari con la sindrome metabolica o il diabete mellito 2, rilevando la prevalenza di DM 2 con un OR 0,36 (IC 95% 0,16-0,80) tra i non-neri con alta vs bassa 25 –OH-D e la prevalenza di sindrome metabolica con un OR 0,71 (IC 95%0,57-0,89) per l'assunzione più alta di latte vs la più bassa (Journal of Clinical Endocrinology & Met.abolism.  2007, 92, 6, 2017-2029). Gli AA. hanno anche individuato le associazioni inverse per il diabete mellito o la sindrome metabolica con incidenza di T2DM [OR 0,82 (IC 95%0,72-0,93)] per l’alta vs la bassa condizione combinata di vitamina “D” e apporto di calcio e per l'alta vs la più bassa assunzione di prodotti caseari [OR 0,86 (IC 95%0,79-0,93]. Le evidenze hanno supportato che l’uso d’integratori di vitamina “D” e/o calcio rivestiva un ruolo nella prevenzione del T2DM solo nelle popolazioni ad alto rischio, come nell'intolleranza al glucosio. È stato, però, notato che gli studi osservazionali a disposizione erano limitati perché per la maggior parte trasversali e non regolarizzati per i fattori confondenti. I longitudinali, invece, erano di breve durata con inclusione di alcuni soggetti, utilizzando una grande varietà di formulazioni farmacologiche di vitamina “D” e di calcio o con analisi post-hoc. Pur tuttavia, la metanalisi ha permesso di concludere che l’ipovitaminosi “D” e la carenza di calcio possono influenzare negativamente la glicemia, mentre l'integrazione combinata con entrambe queste sostanze può sortire efficacia nell’ottimizzare il metabolismo del glucosio.

Attualmente le dosi raccomandate per il calcio sono generalmente di 1200 mg/die per gli adulti oltre i 50 anni e per la vitamina “D” di 400 UI/die dai 51 ai 70 anni e di 600 UI/die dai 70 anni e oltre. Tuttavia, vi è un consenso crescente di raccomandare assunzioni di vitamina “D” sopra le attuali per ottenere i risultati migliori. I livelli ottimali di vitamina, comunque, non sono stati ancora del tutto definiti, ma, per una serie di obiettivi scheletrici e non, la sua concentrazione serica più vantaggiosa sembra essere 30-40 ng/ml. Per quanto riguarda, poi, il diabete mellito di tipo 2 è più difficile trarre una conclusione definitiva per un livello ottimale, anche se sono stati fatti studi in una varietà di coorti con una vasta gamma di livelli di 25-OH-D. Tuttavia, i dati suggeriscono che concentrazioni seriche di 25-OHD superiori a 20 ng/ml sono auspicabili, anche se quelle oltre i 40 ng/ml potrebbero essere più vantaggiose. A tal fine, però, occorrono 1000 UI/die di vitamina “D”. Per quanto riguarda il rapporto tra assunzione di calcio e diabete mellito di tipo 2, le evidenze della letteratura suggeriscono un’assunzione di 600 mg/die, pur essendo ottimale una dose superiore ai 1200 mg. I dati NHANES III, per l’appunto, hanno dimostrato che l’ipovitaminosi della 25-OH-D (<25 ng ml) può interessare durante l'inverno fino a metà degli adolescenti e adulti non istituzionalizzati, anche alle latitudini meridionali. Successivi studi hanno, d’altro canto, dimostrato la sua prevalenza dal 36 al 100% in una varietà di popolazioni, sia giovani adulti sani sia anziani ricoverati in ospedale. Nei riguardi della carenza di calcio, s’incontrano maggiori difficoltà di documentazione biochimica.  Gli americani, ad esempio, non assumerebbero le dosi raccomandate, per cui nelle persone dai 51 ai 70 anni esse corrisponderebbero a 708 mg/die per gli uomini e 571 per le donne e oltre i 70 anni a 702 mg/die per i primi e a 517 per le seconde.Peraltro, l’ipovitaminosi “D”, combinata con lo scarso apporto di calcio, può essere più prevalente. Nel Nurses Health Study il gruppo con il maggior apporto, equivalente per il calcio a dosi maggiori di 1200 mg/die e per la vitamina “D” a dosi maggiori di 800 UI/die, ha presentato incidenza di rischio di diabete tipo 2 più bassa, corrispondendo questo dato, però, solo all’1,3% della coorte.

Calcio vitamina “D” e DM 2 nel NHS

Pertanto, sulla base della potenziale correlazione tra vitamina “D”, calcio e diabete su riportata, sembrerebbe plausibile considerare lo stato non ottimale, relativo a tali sostanze, concausa da non trascurare nei confronti della crescente progressione epidemiologica del diabete nella società moderna. Peraltro, queste condizioni dividono in comune altri cofattori quali l’invecchiamento, l'inattività fisica, la pelle scura e l'obesità.Invero, la vitamina “D” e il calcio condizionano, come già detto, la funzione delle cellule ß-pancreatiche, la sensibilità all'insulina e l'infiammazione sistemica, quasi di regola presenti nell’intolleranza al glucosio e nel diabete di tipo 2. Diverse evidenze sostengono, difatti, il ruolo della vitamina sulla funzione delle cellule-ß sul piano esclusivo della risposta insulinica allo stimolo del glucosio, senza influire sull’insulinemia basale. L'effetto diretto della vitamina può essere mediato, in effetti, dal legame della sua componente attiva circolante 1,25-OH-D sui recettori della ß-cellula. In alternativa, l'attivazione della vitamina “D” può esprimersi all'interno della cellula-ß per mezzo dell’enzima 1-idrossilasi, di recente dimostrato nel loro contesto. L’effetto indiretto può, invece, essere mediato attraverso il suo importante ruolo della regolazione del calcio extracellulare e del suo flusso attraverso la cellula-ß, essendo la secrezione insulinica un processo calcio-dipendente.Si può ipotizzare che l'assunzione inadeguata di calcio o l’ipovitaminosi “D” possano entrambe alterare l'equilibrio tra il pool extracellulare e quello intracellulare del calcio della cellula-ß, interferendo, così, con il rilascio normale d’insulina, specialmente in risposta ad un carico di glucosio.

Potenziali meccanismi favorevoli della vit. “D” e calcio nel DM2


La vitamina “D”, quindi, mostra di avere un vantaggioso effetto, sia diretto sull’azione dell'insulina stimolando l'espressione dei suoi recettori e rafforzando, in tal modo, la reattività per il trasporto del glucosio, sia indiretto attraverso il suo ruolo di regolazione del calcio extracellulare che garantisce il normale afflusso di calcio attraverso le membrane cellulari per il suo carico citosolico [Ca+ +] intracellulare adeguato.Il calcio è, difatti, essenziale entro un range molto ristretto per i processi intracellulari insulino-mediati dei tessuti insulino-sensibili, come i muscoli scheletrici e il tessuto adiposo.


 

Variazioni nei Ca+ + nei tessuti bersaglio primario dell’insulina, possono contribuire alla determinazione della resistenza periferica all'insulina attraverso la trasduzione della compromissione del segnale dell'insulina, portando a una diminuitaattivitàdi trasporto del glucosio.

Inoltre, va ricordato che il diabete di tipo 2 si associa a infiammazione sistemica, legata, soprattutto, alla resistenza all'insulina e all’alto grado di citochine che si attiva nel processo. Tale condizione può essere un fattore aggiuntivo come causa della disfunzione delle cellule-ß,innescando la loro apoptosi. Sotto tale aspetto, la vitamina “D” può migliorare la sensibilità all'insulina e promuovere la sopravvivenza delle cellule-ß direttamente, modulando la produzione e gli effetti delle citochine.

Rischio di diabete e livelli di vit. “D”

Pittas AG e coll. in una più recente revisione sistematica della letteratura sull’argomento (Ann Intern Med. 2010 Mar 2;152(5):307-14) hanno selezionato 13 studi osservazionali (14 coorti) e 18 trial randomizzati.  Tre su sei analisi (da 4 diverse coorti) hanno riportato un più basso rischio d’incidente di diabete nel più alto verso il più basso stato di vitamina “D”. Tuttavia, nessuno degli studi controllati ha rilevato alcun effetto nell’integrazione di vitamina D. Otto, invece, non hanno rilevato alcun effetto della vitamina sulla glicemia o sull’incidenza di diabete. Nella metanalisi di 3 coorti, la bassa concentrazione di 25-idrossivitamina-D si è associata all’ipertensione (rischio relativo, 1.8 [IC 95%, 1,3-2,4]. In altra metanalisi di 10 studi la supplementazione di vitamina non ha significativamente ridotto la pressione arteriosa sistolica (differenza media ponderata -1,9 mm Hg [IC, -4,2 a 0,4 mm Hg]) e non ha prodotto effetti sulla pressione arteriosa diastolica (differenza media ponderata -0,1 mm Hg [IC, -0,7 a 0,5 mm Hg]. D’altra parte, la bassa concentrazione di 25-idrossivitamina “D” si è associata con l’incidente di malattia cardiovascolare in 5 su 7 analisi (6 coorti), mentre 4 studi non hanno rilevato effetti della supplementazione sui risultati cardiovascolari. Da notare, però, che i trial includevano principalmente partecipanti di razza bianca e quelli osservazionali erano eterogenei e che diversi riportavano analisi post hoc. Tale revisione permette di concludere che l'associazione tra vitamina “D” ed effetti cardiometabolici è incerta.

Livelli di vit. “D” e rischio di malattie cardiometaboliche

D’altro canto, Parker J e coll. dell’University of Warwick, United Kingdom, con lo scopo di valutare l'associazione tra i livelli di 25OHD con le patologie cardiometaboliche, tra cui le malattie cardiovascolari, il diabete e la sindrome metabolica, hannoanch’essi effettuato una revisione sistematica della letteratura corrente nei meriti. Hanno, di fatto, voluto stimare il rischio di sviluppare disturbi cardiometabolici in rapporto alle concentrazioni più alte e più basse di vitamina serica (Diabetes Metab Res Rev. 2009 Jul;25(5):417-9). Hanno, quindi, identificato 28 studi da 6.130 referenze comprendenti 99.745 partecipanti. Gli AA. hanno, così, rilevato che i livelli elevati di 25OHD serica si associavano con una riduzione del 43% di disturbi cardiometabolici [OR 0,57, 95% (IC 0,48-0,68)]. In particolare, gli alti livelli di vitamina erano associati a una sostanziale diminuzione delle malattie cardiovascolari, diabete di tipo 2 e sindrome metabolica nella popolazione di mezza età e negli anziani. Degno di nota è che se tale rapporto si dovesse rivelare reale, assumerebbero importanza gli interventi mirati alla carenza di vitamina “D” nella popolazione adulta per poter efficacemente rallentare l'epidemia in corso delle patologie cardiometaboliche.

Livelli di vit. “D” e malattia CV

Massimo Cigolini e coll. della Division of Internal Medicine and Diabetes Unit, ‘Sacro Cuore’ Hospital, Negrar, Verona, hanno valutato la relazione tra MCV (infarto miocardico, angina, ictus ischemico, rivascolarizzazione coronarica o endoarteriectomia carotidea) manifesta e concentrazioni seriche di 25-idrossivitamina D, funzione renale basale, secondo la formula MDRD  (Modification of Diet in Renaldisease) come segue:

in 462 diabetici di tipo 2 consecutivi di età media di 62 ± 7 anni, per il 64% uomini, ipertesi per il 76,3%, con media stimata di velocità di filtrazione glomerulare (GFR) di 94 ± 33 ml/min/1.73 m2 (Nephrology Dialysis Transplantation 2008 23(1):269-274).

La funzione renale risultava fortemente e inversamente condizionata dalla MCV (malattia cardiovascolare). In un'analisi multivariata di regressione logistica si dimostrava un'associazione inversa tra i livelli serici di 25-idrossivitamina “D” e MCV prevalente [odds ratio 0,95 (IC 95% 0,92-0,98; P = 0,001)] in tutta la popolazione, indipendentemente dalla funzione renale basale e da altri fattori di rischionoti.

Inoltre, l'associazione tra le concentrazioni seriche di 25-idrossivitamina e MCV [odds ratio 0,97 (IC 95% 0,94-0,99, p = 0,045)] è rimasta statisticamente significativa nei partecipanti al minimo stimato del terzile di GFR dopo l'aggiustamento per i potenziali fattori confondenti. In conclusione, la ridotta concentrazione d’idrossivitamina “D” si è dimostrata indipendentemente associata a MCV prevalente nei diabetici di tipo 2 con disfunzione renale lieve, aprendo il campo a considerazioni interessanti di ordine clinico e terapeutico.

Effetti razziali delle integrazioni di vit. “D” nel DM2

Considerando che in USA la prevalenza del diabete di tipo 2, indipendentemente dall’obesità e da altri fattori noti confondenti, risulta più elevata tra gli afro-americani (AA) rispetto ai soggetti di origine europea (AE), ritenendola ipovitaminosi “D” una possibile causa di tale condizione, Alvarez JA e coll. dell’University of Alabama a Birmingham, hanno voluto condurre uno studio di verifica dell'ipotesi di un massiccio miglioramento della sensibilità all'insulina con la vitamina “D” nella dieta (Nutrition & Metabolism2010, 7:28). 

Gli AA hanno, pertanto, studiato 115 afro-americane e 137 americane europee sane, in premenopausa, rilevando un’associazione positiva tra vitamina e SI (beta standardizzato = 0.18, P = 0,05) e inversa con l’HOMA-IR (beta standardizzato = -0,26, P = 0,007) nelle AA, indipendentemente all’età, grasso corporeo totale, assunzione di energia e kcal% dai grassi.

Al contrario la Vitamina “D” non risultava significativamente associata con gli indici di sensibilità all'insulina/resistenza nelle EA (beta standardizzato = 0.03, P = 0,74 e standardizzato beta = 0.02, P = 0.85 per il SI e HOMA-IR, rispettivamente). Analogamente alla vitamina il calcio nella dieta appariva associato con SI e HOMA-IR nelle AA, ma non nelle EA. Pertanto questo studio sembra fornire nuovi risultati sul valore della vitamina “D” e del calcio nella dieta come fattori indipendenti per la sensibilità all'insulina nei diversi gruppi etnici.  

Lo studio TIDE

L

o studio TIDE (Thiazolidinedione Intervention With Vitamin D Evaluation), coordinato da ricercatori della McMaster University, Hamilton, è stato approntato per testare, in primo luogo, gli effetti cardiovascolari del trattamento a lungo termine con rosiglitazone e pioglitazone, se utilizzato come parte di standard di cura, rispetto a quelli simili senza questi farmaci in pazienti con diabete di tipo 2 con storia o rischio di malattia cardiovascolare e, in secondo luogo, per confrontare gli effetti della supplementazione a lungo termine di vitamina “D” sulla mortalità e sul cancro.

Lo studio sta arruolando pazienti con l’obiettivo di raccogliere 16.000 adesioni. Un altro endpoint dello studio è di verificare il ruolo della vitamina “D” nella prevenzione del diabete. Prenderanno parte allo studio pazienti con diabete di tipo 2 di età uguale o superiore ai 50 anni, che hanno sofferto di un infarto miocardico o un ictus o sono stati sottoposti a un intervento cardiochirurgico o stanno assumendo un farmaco antipertensivo e/o un farmaco ipolipidemizzante. Si attendono da tale studio risultati che possano chiarire più concretamente e decisamente i rapporti della vit. “D” con le malattie cardiometaboliche.

I supplementi di calcio aumentano il rischio d’infarto?

C

onsiderando i risultati contrastanti dell’impiego degli integratori di calcio nella dieta per combattere l’osteoporosi, suggerendone alcuni l’alto effetto protettivo contro la malattia vascolare e mostrandone, invece, altri il rapido aumento delle calcificazioni con mortalità per insufficienza renale ed eventi cardiovascolari nelle donne, Ian Reid R e coll. dell’Università di Auckland hanno condotto una metanalisi per rivalutare i risultati negativi dei supplementi di calcio di un loro precedente lavoro (BMJ2008; 336:262-266).

Nell’analisi combinata di cinque studi i ricercatori hanno rilevato che i supplementi di calcio si associavano ad un aumento di circa il 30% nell'incidenza d’infarto miocardico (hazard ratio 1,31, 95% IC 1,02-1,67, p = 0,035 ), indipendentemente da età, sesso e tipo di supplemento, proporzionalmente maggiore in rapporto alla più elevata assunzione (BMJ 2010; 341:c3691). Più modesto e non significativo risultava l’aumento del rischio d’ictus e di mortalità. Una simile analisisu 11 studi mostrava, d’altra parte, un rischio relativo di 1,27 d’infarto miocardico (95% IC 1,01-1,59, p = 0,038) associato a supplementi di calcio.

Integratori di vit. “D” e rischio CV

L

u Wang e coll. delBrigham and Women's Hospital, Boston, hanno esaminato la letteratura scientifica relativa all'uso di integratori di vitamina “D” ed eventi cardiovascolari consequenziali (Ann Intern Med2010; 152:315-323). Gli AA.hanno riscontrato riduzioni di eventi cardiovascolari negli adulti con integrazione di vitamina in sei studi prospettici e in altri quattro randomizzati, controllati che comprendevano vitamina-D verso placebo. Quando, però, sono stati combinati tutti i dati degli studi, si è osservato che la supplementazione di vitamina “D” si associava con una leggera, ma statisticamente non significativa, riduzione di eventi cardiovascolari (rischio relativo 0,90; 95% IC 0,77-1,05).

Integratori di calcio e calcium score delle coronarie

I

l controverso effetto degli integratori di calcio nella dieta delle donne in postmenopausa, relativo all’associazione di essi a un rischio di eventi avversi, ha suggerito JoAnn E. Manson e collaboratori del Brigham and Women's Hospital di Boston a esaminare un gruppo di 374 donne in menopausa, randomizzate con 1.000 mg di calcio e 400 UI di vitamina D3 tutti i  giorni, in confronto con un altro di 380 donne trattate con placebo per un follow up di 7,4 anni (Menopause, giugno 2010). Sulla base dei risultati della tomografia computerizzata, la media del calcium score delle arterie coronarie per il gruppo di supplementazione è stata 91,6 a fronte di 100,5 del gruppo placebo (p = 0.74). Gli AA. in ulteriore analisi hanno trovato che il gruppo con integratori dietetici ha presentato un OR (Odds Ratio) di 0,96 per un punteggio di calcio coronarico tra 0 e 100, un aOR di 0,72 per un punteggio di 101 a 300 e un aOR di 1,09 per un punteggio superiore a 300, rispettivamente. Nessuno di questi risultati era significativamente differente da quelli del gruppo placebo (p> 0,30 per tutti).Anche nelle donne che assumevano calcio e vitamina D al basale in quantità relativamente elevate nella dieta, non è stato rilevato aumento o diminuzione del rischio di calcificazione delle arterie coronariche.

Potenziale Ruolo della Vitamina “D” nella prevenzione CV

T

ami L. Bair e collaboratori dell’Intermountain Medical Center, Murray, UT, considerando la scarsità degli studi clinici randomizzati e osservazionali a sostegno dei benefici della vitamina D nella malattia cardiovascolare, hanno riportato all'AmericanHeart Association 2009 Scientific Sessions i risultati di uno studio supiù di 27. 000 persone di 50 anni o più, senza storia di malattia cardiovascolare per poco più di un anno, trovando che quelli con livelli molto bassi di vitamina “D” (<15 ng / mL) avevano il 77% in più di probabilità di morte, il 45% in più di sviluppare malattia coronarica e il 78% in più di avere un ictus, rispetto a quelli con livelli normali (> 30 ng / mL). Quelli con deficit di vitamina “D” presentavano anche il doppio delle probabilità di sviluppare insufficienza cardiaca.Tali risultatipermettevano agli AA di concludere che la moderata carenza di vitamina “D” si associava allo sviluppo di malattia coronarica, insufficienza cardiaca, ictus e morte senza una chiara relazione di causa-effetto.

Ipovitaminosi “D” e scompenso

Eisen HJ e collaboratori della Drexel University, Philadelphia, PAhanno presentato all’Heart Failure Society of America 2010 Scientific Meeting i risultatidi un loro studio di 13.131 persone di età superiore ai 35 anni, arruolati dal NHANES 3 (Terzo National Health and Nutrition Esame Survey) e seguiti in media per otto anni, relativo ai rapporti tra carenza di vitamina “D” e mortalità in scompenso cardiaco (2010 Scientific Meeting; September 14, 2010; San Diego).  I livelli serici molto bassi di vitamina “D” si associavano a un rischio di morte da scompenso cardiaco di circa tre volte superiori rispetto a quelli normali. In particolare, le morti per insufficienza cardiaca e quelle per altre cause presentavano rispettivamente il 37% e il 26% di livelli bassi di 25 [OH] D <20 ng/ml, rispetto al basale (p <0,001). Nelle analisi aggiustate per età, sesso, razza, e comorbidità, l'hazard ratio per la mortalità in carenza di vitamina “D” era 3,39 e 2.02 nel caso d’insufficienza di 20-29 ng/mL, risultati entrambi significativi a p <0,001 rispetto ai livelli normali di 25 [OH] D> 30 ng/mL. Alla luce di questi dati, gli AA., sulla base che la carenza di vitamina “D” è molto più comune negli afroamericani (> 60%) rispetto ai bianchi (circa il 20%), hanno considerato i risultati del loro studio come altra possibile spiegazione delle differenze di prevalenza etnica dello scompenso cardiaco.

Ipovitaminosi “D” e PAD

M

ichal Melamed e coll. dell’Albert Einstein College of Medicine, Bronx, New York, sulla base delle contrastanti evidenze sugli effetti negativi dell’ipovitaminosi “D” sul sistema cardiovascolare, considerando che i recettori della vitamina hanno un'ampia distribuzione tissutale che include la muscolatura liscia vasale, l’endotelio e i cardiomiociti, prendendo anche atto che i più alti tassi di malattia coronarica e ipertensione si registrano nelle popolazioni più lontane dall'equatore per una minore esposizione al sole, hanno esaminato i dati sui livelli di 25-idrossivitamina-D in 4.839 partecipanti al NHANES (National Health and Nutrition Examination Survey) e valutato l'associazione tra i suoi livelli e la PAD (peripheral artery disease)(Arteriosclerosis, Thrombosis, and Vascular Biology. 2008;28:1179-1185). 

Gli AA. Hanno, così, riscontrato che i livelli più elevati di 25-idrossivitamina D si associavano a un inferiore tasso di prevalenza di PAD e solo il 3,7% degli individui con i livelli più alti, il quarto quartile, presentava la malattia. Invece, tra quelli con i livelli più bassi l’8,1% ne era affetto.

Quali soglie di vitamina “D” per la stratificazione del rischio cardiovascolare?

T

ami L. Bair e collaboratoridell’Intermountain Medical Center, Murray, UT, con la premessa che la vitamina “D “ è sempre più coinvolta in una vasta gamma di problemi di salute come le malattie cardiovascolari, l’ipertensione,il diabete, la depressione e la malattia renale, volendo ottimizzare le soglie per la valutazione del rischio, hanno valutato 31.289 persone di oltre 50 anni secondo 3 diverse categorie di Vit “D” (J. Am. Coll. Cardiol. 2010;55;A59.E563)definite sulla base dei livelli della vitamina (ng/mL).  

I risultati hanno riportato un’età media di 67 ± 11 anni, nel 74% donne con la Cat 2 come migliore indicatore di 7 dei 10 esiti valutati (vedi tabella). La Vit “D” si è associata a un aumentato rischio con livelli crescenti e illivello > 43 ng/ml è apparso quello ottimale.

Integrazione di vitamina “D” in soggetti carenti, associata a un ridotto rischio cardiovascolare

S

empre Tami Bair e collaboratori, sulle premesse della particolare prevalenza d’ipovitaminosi “D”, causa non solo di malattie dello scheletro ma anche di cardiovasculopatie tanto da poter essere considerata come marker di rischio, hanno voluto determinare se la normalizzazione del basso livello di partenza di vitamina “D” (<a> 30 ng/mL) potesse associarsi a una riduzione del rischio cardiovascolare stesso (J. Am. Coll. Cardiol. 2010;55;A59.E564). Hanno, quindi, valutato prospetticamente 9.491 pazienti con un grado inizialmente basso di vitamina (<30) definendo almeno un livello nel follow-up e utilizzando l'ultimo per stimare la normalizzare (> 30) con l’associazione della riduzione del rischio CV.

La vit. “D” di base nei pazienti carenti con media di 57 ± 19 anni, per il 77,9% femmine, era 19,3 ± 6. Di essi un totale di 4.507, il 47%, ha segnato un aumento (D> 30) con una riduzione del rischio di morte, di SCA, di scompenso e d’insufficienza renale (vedi tabella). 

Gli AA., sulla base di tali dati, hanno concluso che la normalizzazione dei livelli di Vit “D” nei casi di suo deficit, adottando, peraltro, testpoco costosie terapia sicura e di facile somministrazione, assume un indiscutibile vantaggio di salute. 

Notiziario agosto 2010 N°8

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NOTIZIARIO Agosto 2010 N°8

A cura di Giuseppe Di Lascio

 

Con la collaborazione di:

Bagalino Alessia, Bauzulli Doriana, Di Lascio Alessandro, Di Lascio Susanna, Levi Della Vida Andrea, Melilli Simonetta, Pallotta Pasqualino, Sesana Giovanna, Stazzi Claudio, Zimmatore Elena

I DISTURBI D’ANSIA II^ parte

 Susanna Di Lascio – psicologa
e-mail: susanna.dilascio@gmail.com 

 

CONSEGUENZE METABOLICHE DEL POST TRAUMATIC STRESS DISORDER (PTSD) CRONICO

Diverse ricerche hanno indicato che lo stress e le risposte post adattamento hanno, a lungo termine, conseguenze negative sulla salute. Studi sui superstiti di catastrofi, sui veterani prigionieri di guerra e su altri individui esposti a gravi traumi hanno rivelato tassi aumentati di morbilità e mortalità, con maggiore richiesta di risorse sanitarie. Studi epidemiologici hanno dimostrato che il PTSD cronico può favorire effetti secondari negativi sulla salute, di tipo cardiovascolare, metabolico ed autoimmune che Chrousos GP e coll. hanno posto in connessione con le risposte di cattivo adattamento neuro-endocrino-immunitario (Ann N Y Acad Sci 1998, 851:311-335). Recenti ricerche si sono concentrate sulla sindrome metabolica, come possibile conseguenza dell’adattamento fisiopatologico allo stress cronico. Brunner EJ e coll. hanno trovato, peraltro, una maggiore attivazione dei marcatori neuroendocrini e autonomici correlati allo stress, come un abbassamento della variabilità della frequenza cardiaca, una maggiore produzione di cortisolo ed alti livelli di IL-6, proteina C-reattiva e viscosità del sangue nei casi con sindrome metabolica, rispetto ai controlli (Circulation 2002, 106:2659-2665).
Chandola T. e coll., più recentemente, hanno suggerito una relazione dose- risposta tra lo stress e la presenza di sindrome metabolica, in modo che coloro che sono esposti cronicamente allo stress di lavoro avrebbero il doppio delle probabilità di avere la sindrome, dopo aggiustamento per età, sesso e i comportamenti di stile di vita (BMJ 2006, 332:521-525).
Blanchard MS e coll., nel loro studio di 2189 veterani della I^ guerra del Golfo, hanno rilevato una più alta e significativa prevalenza di sindrome metabolica in quelli con malattie croniche multi sintomatologiche, come faticabilità ed astenia, dolore muscolo scheletrico, disturbi cognitivi od anomalie del comportamento della durata di almeno 6 mesi (Am J Epidemiol 2006, 163:66-75).
Violanti JM e coll. hanno segnalato la probabilità di sindrome metabolica tre volte maggiore nei funzionari di polizia con gravi sintomi di PTSD, rispetto a quelli con più bassa gravità della sindrome (Int J Emerg Ment Health 2006, 8:227-237). 
Babic D e coll. hanno trovato che il 31-35% dei campioni di lotta con PTSD presentavano concomitante sindrome metabolica (Psychiatr Danub 2007, 19:68-75). 
Heppner Pia S e coll. dell’University of California, San Diego, sulla base del cumulo di prove di un collegamento tra l'esposizione al PTSD (post traumatic stress disorder) e la diminuzione dello stato di salute, hanno esaminato un campione di 253 anziani, 92% maschi, 76%, caucasici, di età media di 52 anni, nel 71% in pensione dell’US Army, nel 70% veterani del Vietnam, con l’obiettivo di valutare l'associazione tra la gravità del PTSD e la presenza di sindrome metabolica (BMC Medicine 2009,7:1).

I dati della ricerca hanno rilevato che 139, oltre la metà di questi veterani, equivalente al 55%, presentava una moderata, grave PTSD e 163 di essi, il 64%, ha incontrato i criteri per disturbo depressivo maggiore (MDD). 101dei veterani, circa il 40%, rientrava nei criteri della sindrome metabolica, risultata più prevalente nel solo PTSD (34,3%) rispetto al solo MDD (28,8%) ma ancora di più nel PTSD ed MDD insieme (46,2%).

PRINCIPI DI CURA DELL’ANSIA E DELL’ATTACCO DI PANICO

Le diverse strategie di cura dell’ansia e dell’attacco di panico oggi disponibili, con il sostegno anche di una famiglia e di amici acculturati che possono dissipare l’irrazionale, immediata e incoercibile paura, permettono di ottenere risultati positivi nella maggior parte dei pazienti.

L’ottimale ed efficace trattamento, avendo, peraltro, dimostrato di compensare i costi delle cure mediche sino al 94%, prevede anche d’interessarsi di altri problemi emotivi di accompagnamento, qualora presenti, come la depressione, l'alcolismo e la tossicodipendenza. La ristrutturazione cognitiva, la terapia cognitiva, l’esposizione auto percettiva, i farmaci, i gruppi di sostegno e le tecniche di rilassamento sono i principi di terapia dettati dall’American Psychological Association nel 2007 e le attuali linee guida raccomandano più di tutto la pratica cognitivo-comportamentale combinata con uno degli interventi psicofarmacologici. Nella lista dei farmaci, gli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (SSRI), in particolare la paroxetina e la venlafaxina, hanno sino ad ora dimostrato una superiorità d’azione e vengono, quindi, considerati gli agenti di prima scelta, seguiti dai triciclici (imipramina, clomipramina, desimipramina, ecc.), dalle benzodiazepine (BDZ) ad alta potenza (alprazolam, clonazepam) e dagli IMAO, inibitori delle Mono-Amino-Ossidasi (fenelzina, tranilcipromina). I betabloccanti sono indicati soprattutto per controllare l’irregolarità del battito cardiaco e per modulare la condizione simpatico mimetica. Da notare che le benzodiazepine, pur dimostratesi utili sui sintomi, producono, però, inconvenienti tanto da doverle sostituire quasi regolarmente con gli SSRI, soprattutto negli attacchi di panico ricorrenti e nella profilassi a lungo termine. Al contrario, gli antidepressivi, in particolare i triciclici, dimostrano maggiori vantaggi anche perché provvisti di una pur debole proprietà anti-ansia. Pur tuttavia, a carico degli SSRI si sono documentati sintomi di astinenza e, soprattutto all'inizio del trattamento, casi di esacerbazioni dei sintomi e addirittura attacchi di panico in soggetti sani.

A tale proposito è bene ricordare che g SSRI esercitano una differente inibizione selettiva verso gli isoenzimi del CYP. In particolare la fluoxetina è potente inibitore del CYP2D6 e moderato del CYP2C9 e del CYP3A4, la paroxetina lo è fortemente del CYP2D6, la fluvoxamina fortemente del CYP1A2, del CYP2C19, del CYP2C9 e moderatamente del CYP3A4, la sertralina debolmente-moderatamente del CYP2D6, il citalopram/escitalopram debolmente degli isoenzimi del CYP. Inoltre, gli SSRI dimostrano basso potenziale d’interazioni farmacodinamiche con altri farmaci serotoninergici, ma sempre possibile. Bisogna, difatti, tenere in considerazione la sindrome serotoninergica e il maggior rischio di sanguinamento che si può avere se combinati con i FANS, anche con i bassi dosaggi di aspirina, anticoagulanti orali e antipiastrinici. La duloxetina, che frena la ricaptazione della serotonina e della noradrenalina, è un inibitore moderato del CYP2D6 e, pur dimostrando un basso potenziale d'interazione farmacodinamica con altri farmaci similari, può contribuire alla determinazione della sindrome serotoninergica. Questa rara complicanza del trattamento con questi farmaci è caratterizzata da almeno quattro disturbi associati, generalmente gravi, di tipo motorio, come tremore, mioclonie, convulsioni, di tipo autonomino, come ipertemia, cefalea, sudorazione profusa, tachicardia, ipertensione/ipotensione, diarrea, crampi gastrointestinali, di tipo psichico, come agitazione, confusione, disorientamento, ipomania e logorrea. Si tratta di sintomi non specifici e derivanti da cause differenti come influenza e infezioni gastrointestinali e possono essere presenti in ogni combinazione, sviluppandosi nel giro di 24-48 ore. Agitazione, ipertemia e mioclonia sono i segni essenziali e le alterazioni della coscienza e gli altri segni di alterata funzione autonomica confermano la diagnosi.

Peraltro, a tale proposito, Gianluca Trifirò e collaboratori (Clin Pharmacol Ther 2009; 85: 89-93) del Dipartimento di Informatica medica del Centro medico Erasmus di Rotterdam, sulla base che i disturbi d'ansia colpiscono fino al 20% degli anziani, come riportato da Pollock BG e collaboratori (2), hanno ribaditoche l'introduzione degli SSRI negli anni '80ha notevolmente cambiato la gestione di particolari patologie sempre più invalidanti e letali. Gli Autori, ripercorrendo le ipotesi formulate circa una possibile associazione di tali farmaci con l’ictus ischemico, hanno, così, condotto uno studio caso-controllo su persone di sessantacinque anni e più dell’Integrated Primary Care Information database (1996-2005)dimostrando un rischio significativamente aumentato con il loro uso, soprattutto prima dei sei mesi di terapia, mentre si dimostrava nulla l’associazione con i triciclici e gli altri farmaci. I triciclici, d’altro canto, interagiscono con il CYP2D6 (con azione principale sull’idrossilazione) e con il CYP1A2, CYP2C19 e CYP3A4 (con azione principale sulla demetilazione) e sono suscettibili all’induzione enzimatica di diversi anticonvulsivanti. Questo tipo di farmaci dimostra, di poi, alto potenziale d’interazioni farmacodinamiche, in particolare con gli anticolinergici e i farmaci d’interazioni farmacodinamiche, in particolare con gli anticolinergici e i farmaci che agiscono sul sistema nervoso centrale e su quello cardiovascolare. Essi, nonostante la dimostrata efficacia della clomipramina e dell’imipramina, sono meno utilizzati rispetto agli SSRI perché, alle dosi efficaci, promuovono spesso effetti collaterali mal tollerati, destinati, però, a sfumare e a ridimensionarsi nettamente durante il proseguimento della terapia. Ronald J. Comer, nella sesta edizione del 2010 del suo testo “Fundamentals of Abnormal Psychology”, precisa, difatti, che gli antidepressivi sono efficaci nel prevenire o ridurre gli attacchi di panico funzionando a livello dei recettori cerebrali della noradrenalina. Con essi si raggiungono il recupero completo o massimale nel 50% dei casi e almeno qualche miglioramento nell’80%. Questi farmaci richiedono, però, un monitoraggio periodico per evitare le recidive e spesso è anche utile l’associazione di alcune benzodiazepine (in particolare l’alprazolam) per agire nei loro tempi di latenza. Le monoaminossidasi danno un elevato rischio d’interazioni farmacodinamiche, potenzialmente fatali, in particolare con i cibi ricchi di tiramina, i farmaci simpaticomimetici e gli altri antidepressivi.

Le raccomandazioni vigenti, sulla base delle evidenze scientifiche, consigliano come primo agente, per il rapido controllo della sintomatologia ansiosa, una benzodiazepina a breve tempo di dimezzamento, seguita da un serotoninergico portato lentamente a dose terapeutica. In conformità a tale intenzione è bene ricordare che l’alprazolam, somministrato a dosi di 0,5-6 mg, ha un tempo di dimezzamento di 12-15 ore, il bromazepam a 3-15 mg di 12, il diazepam a 5-30 di 24- 72, il clordiazepossido a 10-50 di 24-100, il clobazam a 20-30 di 20, il clonazepam a 1- 8 di 34, il clorazepate a 15-60 di 60, il lorazepam a 1-4 di 11-13, il medazepam a 10-30 di 29, l’oxazepam a 30-90 di 4-20, il tofizopam a 50-300 di 6, il buspirone a 20-30 di 2-11, l’idroxizine a 300-400 di 12-20. A ogni buon conto, gli elevati dosaggi di tali farmaci richiesti nell’attacco di panico, soprattutto dopo loro uso prolungato, provocano solitamente il rischio di sedazione, di alterazioni cognitive e psicomotorie, di dipendenza, soprattutto psicologica, e, in alcuni casi, di abuso. La letteratura medica offre, pertanto, dati controversi sulla terapia benzodiazepinica nel disturbo di panico e alcuni esperti le raccomandano nella strategia a lungo termine, mentre altri ritengono che esse siano da evitare a causa dei rischi di tolleranza e dipendenza. A tale proposito, il National Institute for Clinical Excellence ha concluso che la classe delle benzodiazepine non è efficace nel trattamento del disturbo di panico a lungo termine, raccomandandole solo a breve termine mentre la World Federation of Societies of Biological Psychiatry le suggerisce solo nei casi resistenti e non come farmaco di prima linea. Di recente si è resa disponibile la venlafaxina, con forte inibizione sulla ricaptazione della serotonina e della noradrenalina e debole sulla dopamina, non priva, però, di effetti indesiderati, come disgeusia, perdita dell’appetito e di peso, agitazione incontrollabile di parte del corpo, dolore o bruciore o intorpidimento o formicolio locali, rigidità muscolare, contrazioni, sbadiglio, sudorazione, vampate di calore, minzione frequente, difficoltà a urinare, mal di gola, brividi o altri segni d’infezione, ronzio alle orecchie, cambiamento della libido e delle prestazioni sessuali, pupille dilatate, sonnolenza, debolezza, stanchezza, vertigini, mal di testa, incubi, ansia, nausea, vomito, mal di stomaco, stipsi, diarrea, meteorismo, pirosi, eruttazione, bocca asciutta.

Sulla base delle incertezze di efficacia e di sicurezza dei farmaci è aumentato il valore della CBT (terapia cognitivo-comportamentale), forma provata di psicoterapia psicodinamica nel disturbo di panico con o senza agorafobia. In effetti, un certo numero di studi clinici randomizzati ha dimostrato che la CBT permette di raggiungere lo stato indenne da panico nel 70-90% dei pazienti, anche in un periodo relativamente breve, da sei a otto settimane, migliorando l'efficacia dei farmaci, riducendo il rischio di recidiva per chi li ha interrotti, proponendosi, così, come alternativa ai non responder ai farmaci stessi. L'obiettivo della CBT è di aiutare un paziente a riorganizzare i processi di pensiero e i pensieri ansiosi, per quanto riguarda l'esperienza che provoca il panico. La terapia autopercettiva, in particolare, ha dimostrato anche successo nell'87% dei pazienti in uno studio clinico controllato, simulando i sintomi di panico in un ambiente controllato [Psychiatric Times. Feb 2008,25 (2): 40]. La chiave per l'induzione è che gli esercizi devono imitare i sintomi più stimolanti l’attacco. Dopo ripetute prove, il paziente assimila, attraverso l'esperienza, che le sensazioni interne non hanno bisogno di essere temute, diventando, così, meno sensibile o insensibile a esse. Conformemente il cervello (ippocampo e amigdala) impara a non temerle e il simpatico sfuma l'attivazione del sistema nervoso. Per i pazienti il cui disturbo di panico comporta agorafobia, l'approccio tradizionale di terapia cognitiva consiste nell'esposizione in reale, per cui il malato viene a poco a poco accompagnato da un terapeuta alla concreta situazione che provoca panico. La psicoterapia psicodinamica è un'altra strategia, dimostratasi efficace in studi clinici controllati, che si concentra sul ruolo di dipendenza, ansia da separazione e rabbia nel causare il disturbo di panico. La terapia prevede preliminarmente di esplorare i fattori di stress che portano agli episodi e, di poi, di sondare la psicodinamica dei conflitti sottostanti il disturbo e dei meccanismi di difesa che contribuiscono agli attacchi, con attenzione ai problemi di transfert e dell'ansia di separazione implicati nella relazione terapeuta-paziente. D’altro canto, secondo studi clinici comparativi le tecniche di rilassamento muscolare e gli esercizi di respirazione non hanno dimostrato efficacia ma possibile aumento del rischio di ricaduta. In sostanza un adeguato trattamento da parte di un professionista esperto può prevenire gli attacchi di panico o, almeno, ridurli in modo sostanziale nella gravità e frequenza, offrendo un sollievo notevole. Pur tuttavia, la recidiva è sempre possibile ma, proprio come l'episodio iniziale, sempre efficacemente trattabile.

Vladen Starcevic del Nepean Hospital and University di Sydney ha condotto un esame dei recenti progressi nel trattamento dei disturbi di panico con l’obiettivo di trovare un equilibrio tra le opzioni psicologiche e psicofarmacologiche (Current opinion in psychiatry. 2006; 19: 79-83), per la rapida scomparsa degli attacchi, l’attenuazione dell'ansia generale e di quella anticipatoria, la diminuzione o scomparsa dell’evasione fobica, l’aumento delle proprie capacità, la migliore qualità di vita, la diminuzione della vulnerabilità alle recidive, notoriamente a tassi elevati, l’efficacia a lungo termine, il mantenimento dei guadagni raggiunti dopo la cessazione della cura, la minima induzione alla dipendenza, la buona tollerabilità, la paucità degli effetti collaterali, la facilità di somministrazione, l’attitudine alla compliance. Tra i principali vantaggi degli interventi farmacologici verso la CBT, Starcevic ha annotato l’esordio terapeutico più pronto (in particolare con le benzodiazepine), la prevenzione/soppressione più affidabile degli attacchi di panico con riduzione dell'ansia, la maggiore probabilità di prevenzione e/o trattamento delle complicanze psichiatriche e delle psicopatologie secondarie, come il disturbo depressivo maggiore, il protocollo di trattamento più facile da rispettare, il protocollo di trattamento più accessibile, più semplice da gestire e a costo inferiore.
Tra i principali svantaggi degli interventi farmacologici verso la CBT, ha invece rilevato l’efficacia minore nel ridurre l’evasione agorafobica, gli effetti collaterali associati, a volte intollerabili, la mancata promozione di coping attivo e l’incoraggiamento di un’eccessiva dipendenza dai farmaci, psicologica e/o fisiologica, la vulnerabilità alla ricaduta con minor grado di essere influenzata e più probabile con l’interruzione del trattamento.
In definitiva anche Starcevic conclude che le benzodiazepine sono indicate nei disturbi di panico, da moderati a gravi, per accelerare i risultati terapeutici iniziali e per ridurre gli effetti collaterali che possono verificarsi con gli altri farmaci, mentre non sembrano efficaci se aggiunti per l’effetto a lungo termine, né sembrano favorire il paziente, di là dalle prime settimane di trattamento. Peraltro, anche se dotate di rischi minori, bisogna sempre considerare la possibilità del loro eccesso d’uso e le complicazioni dopo la loro sospensione. Il trattamento farmacologico unito alle tecniche cognitivo-comportamentali può, invero, essere utile per dilatare i risultati a lungo termine e abbassare il rischio di ricaduta dopo la sua interruzione.
In conclusione, la paura e l'ansia sono normali reazioni a eventi stressanti della nostra vita, ma il panico è una grave condizione che colpisce senza motivo o preavviso, causando attacchi improvvisi neuropsichici, così pure sintomi fisici, come sudorazione e sensazione di cuore in gola. La persona, colta da un attacco di panico, presenta una paura di risposta sproporzionata alla situazione, spesso senza l’imminenza di un pericolo e, nel tempo, sviluppa una costante angoscia di avere un altro attacco, con detrimento funzionale quotidiano e della qualità generale della vita. Il panico occorre, spesso, insieme con altre gravi condizioni come la depressione, l'alcolismo o la tossicodipendenza. L’attacco di panico non può essere impedito. Tuttavia, ci sono alcuni espedienti che possono ridurne lo stress e i sintomi, come evitare categoricamente il consumo di prodotti che contengono caffeina, come caffè, tè, cola e cioccolato. Opportuno e necessario, a tale proposito, consultare il medico o il farmacista prima di assumere qualsiasi farmaco o rimedio a base di erbe da banco (OTC), contenendo molti di questi prodotti sostanze chimiche che possono aumentare i sintomi dell'ansia. Non bisogna, peraltro, dimenticare norme comportamentali salutari e corrette, come il praticare un esercizio fisico regolare e lo adottare una dieta sana ed equilibrata.

EFFETTI METABOLICI E CARDIOVASCOLARI DEGLI ANTIPSICOTICI

Dan W. Haupt e coll. della Washington University School of Medicine, in St. Louis, Missouri, sulle premesse che prove concrete hanno dimostrato che gli antipsicotici possono aumentare il rischio di malattie cardiovascolari, influenzando il metabolismo del glucosio, dei lipidi e del peso corporeo, ricordando che l’American Association of Clinical Endocrinologists e la North American Association for the Study of Obesity hanno raccomandato il controllo della glicemia a digiuno e dei lipidi nel sangue all’inizio e dopo 12 settimane di trattamento con antipsicotici, che l’US Food and Drug Administration (FDA) ha confermato, in tali circostanze, il periodico controllo dei sintomi e degli effetti negativi metabolici e lo studio dei pazienti a rischio, visto il crescente ed esteso uso di antipsicotici di seconda generazione, in particolare nei pazienti più giovani, per esempio l’aripiprazolo ed il risperidone approvati per la schizofrenia degli adolescenti ed il disturbo bipolare, considerato l'aumentato uso degli off-label in questa classe di farmaci, hanno analizzato i dati di pazienti di età inferiore ai 65 anni con prescrizione di aripiprazolo, olanzapina, Quetiapine, risperidone, o ziprasidone, acquisiti dal database PharmMetrics nel periodo 2000-2006 (Am J Psychiatry 2009; DOI:10.1176). Già uno studio del 1998-2003, in una coorte di Medicaid, aveva rivelato che meno del 20% dei pazienti all’inizio della terapia con un antipsicotico di seconda generazione aveva avuto determinazione di glicemia basale e meno del 10% aveva ottenuto quella basale dei lipidi, essendo i bambini e gli adolescenti nell’ancora meno probabilità di essere sottoposti a tali test. Lo studio ha compreso 2 coorti di pazienti in età da meno di 12 anni a 64 anni, maschi nel 47%. La coorte pre-linee guida ha incluso 5.787 pazienti dal 1° luglio 2000 al 30 settembre 2003 e la coorte post-linee guida 17.832 dal 1° marzo 2004 al 30 novembre 2006, senza riscontro di alcun test di controllo di base ed alla 12^ settimana. Nel complesso, solo una piccola percentuale di pazienti hanno ottenuto il controllo della glicemia e dei lipidi nel 2° periodo di tempo, anche se in fase post- linee guida la percentuale è risultata leggermente maggiore.

Poiché i malati mentali hanno una più alta prevalenza di fattori di rischio cardiometabolici, come il sovrappeso e l'obesità, l’iperglicemia, la dislipidemia, l’ipertensione ed il fumo, con una speranza di vita ridotta, in gran parte legata alla prematurità delle malattie cardiovascolari, è particolarmente importante stimolare a migliorare in essi il monitoraggio dei livelli di glucosio e di lipidi nel sangue.

Wayne A. Ray e coll. della Division of Pharmacoepidemiology, Department of Preventive Medicine (W.A.R., K.H.), Clinical Center, Nashville, sulle premesse che l’uso degli antipsicotici tipici aumenta il rischio di gravi aritmie ventricolari e morte cardiaca improvvisa, essendo meno chiara la sicurezza cardiaca degli atipici, che hanno ampiamente sostituito i vecchi agenti nella pratica clinica, hanno voluto calcolare l'incidenza aggiustata di morte cardiaca improvvisa in 44218 e 46089 consumatori di farmaci tipici ed atipici, confrontandoli con 186.600 controlli (New Engl J Med 2009; 360: 225-35 e 294). Il rapporto del tasso d’incidenza per la morte cardiaca improvvisa è risultato più elevato nei pazienti trattati con i farmaci [1,99 (IC 95% 1,68-2,34) e 2,26 (IC 95%, 1,88-2,72) rispettivamente]. L'incidenza dei tassi di rapporto per gli utilizzatori dei farmaci antipsicotici atipici rispetto ai tipici è stato 1,14 (IC 95%, 0,93-1,39), mentre gli ex consumatori non hanno presentato alcun aumento significativo del rischio (tasso di incidenza 1,13, IC 95%, 0,98-1,30). Peraltro, in tutti i pazienti trattati si è registrato un simile aumentato rischio di morte cardiaca improvvisa, dose-correlato. In conclusione, gli antipsicotici atipici, dopo essere entrati nella pratica clinica dal 1989, pur considerando la loro efficacia in patologie particolari come la schizofrenia e la depressione bipolare, secondo i dati di tale studio, vanno considerati pericolosi come quelli tipici. Essi, pertanto, vanno usati attentamente e dopo uno studio elettrocardiografico per monitorare eventuale presenza o comparsa di Q-T lungo, evitandone l’uso, soprattutto nei bambini e negli anziani.

GLI EFFETTI COMPULSIVO-COMPORTAMENTALI NELLA CURA DEL PARKINSON

La malattia di Parkinson, secondo le nostre attuali conoscenze, è considerata una fusione di disturbi della circolazione, di compromissione dell’attività intellettuale e di comorbidità psichiatriche. La principale sfida terapeutica degli ultimi anni è rivolta in modo particolare al miglioramento della qualità della vita e del livello funzionale dei malati e recentemente si è soffermata sulla disamina degli effetti collaterali comportamentali ossessivo-compulsivi connessi ai farmaci, rilevati sino dal 1990, come l’ossessione per le pulizie, per il riordinare ed il problema del gioco d'azzardo, segnalati come potenziali effetti collaterali dei farmaci agonisti della dopamina, Uno dei primi report di collegamento tra Parkinson ed il gioco d'azzardo è stato prodotto da un gruppo di neurologi spagnoli, che, nel 2000, comunicarono che 12 pazienti, dopo aver iniziato la terapia sostitutiva della dopamina, avevano iniziato il gioco d'azzardo o avevano dimostrato un suo marcato aumento. Da allora, sono state pubblicati numerosi casi simili. Il gioco d'azzardo patologico, classificato nel DSM-IV come un disturbo compulsivo, è definito come incapacità a resistere al gioco d'azzardo, nonostante gli impulsi negativi dei familiari. In indagini di grandi gruppi di pazienti, trattati per il morbo di Parkinson, la prevalenza di problemi di gioco d'azzardo è, ovunque, da due a quattro volte quella osservata nella popolazione generale e arriva al 9 per cento dei pazienti in un solo campione. Da notare, come accennato, che anche altri impulsivi problemi di controllo come l’ipersessualità, lo shopping compulsivo, il mangiare senza limiti possono emergere nel corso del trattamento. Alcuni pazienti possono essere colti da attività ripetitiva, senza alcuno scopo o da scrittura rituale, da forme di canticchiare, di scarabocchiare, trascurando la necessità di dormire o di alimentarsi. Gli esperti hanno cominciato a riconoscere i pazienti maggiormente a rischio per lo sviluppo di problemi impulsivi ed il gioco d'azzardo appare più frequente nei pazienti più giovani, spesso con esordio precoce della malattia. Molti offrono a considerare anche una storia personale o familiare di abuso d’alcol. Le caratteristiche essenziali del gioco d'azzardo patologico sono attualmente definite come:

(1) la continuativa o periodica perdita di controllo, 
(2) una progressione nella frequenza e negli importi scommessi, nella preoccupazione per il gioco d'azzardo stesso e per ottenere il denaro con cui giocare,
3) una continuazione della partecipazione, nonostante le avverse conseguenze.
La sua incidenza nella popolazione generale varia dallo 0,3 all’1,6%. L’aumento della partecipazione ad esso comporta preoccupazioni sulla salute mentale, sul benessere sociale, sui risultati finanziari, coinvolgendo i singoli individui, le famiglie e la comunità. Studi più recenti hanno indicato, come riferito, che l’uso della dopamina comporta la sua funzione patologica, per cui sarebbe doveroso, in occasione di trattamento con tale farmaco, avvertire il paziente ed i familiari sulle possibili conseguenze di anomalie comportamentali.

Ramin Zand dell’International Institute of Health Studies, Ottawa, Ont., Canada, ha condotto una completa revisione sugli studi in tale campo (Eur Neurol 2008;59:183–186).

 

Dall’esame dei primi otto studi Ramin Zand ha potuto concludere che il pramipexolo, prescritto in due terzi dei casi, è l’unico farmaco altamente selettivo per il recettore della dopamina D3, mentre la pergolide ed il ropinirolo sono relativamente selettivi ma con potenza inferiore. Questi fattori possono suggerire una correlazione tra i recettori D3 ed il comportamento verso il gioco d'azzardo. Negli ultimi tre studi, invece, non si è riscontrata alcuna associazione tra farmaci e GP portando a considerare che sarebbero opportuni ulteriori studi epidemiologici sull’argomento. In attesa di chiarimenti maggiori, la maggior parte dei ricercatori raccomandano, comunque, riduzioni di dose dei farmaci od il passaggio ad altri in condizioni di verifica dei disturbi compulsivi riportati. . Ma questo approccio può aggravare altri sintomi del Parkinson, in modo molto svantaggioso per i pazienti, per cui si richiede un attento monitoraggio ed il controllo specifico dello specialista.

H M M Smeding e coll. del Department of Neurology, Academic Medical Centre, University of Amsterdam, Olanda hanno descritto un paziente, con malattia di Parkinson avanzata e con anamnesi negativa per tale impulso comportamentale, che aveva sviluppato un gioco d'azzardo patologico entro un mese dopo il successo di stimolazione dello STN (nucleo bilaterale subtalamico), (Journal of Neurology, Neurosurgery, and Psychiatry 2007;78:517-519). I test neuropsicologici dimostravano, invero, lieve declino cognitivo un anno dopo l'intervento chirurgico. Il gioco d'azzardo patologico è svanito dopo l'interruzione della pergolide ed il cambiamento della stimolazione ventrale con quella dosale dello STN. Alla luce di tale risultato gli AA. concludono che il gioco d'azzardo patologico non sembra essere associato con il processo decisionale, ma sembra essere correlato ad una combinazione di stimoli bilaterali dello STN e del trattamento con agonisti della dopamina.

MESSAGGIO PER IL PAZIENTE (modificato da F. Galassi, M. Ciampelli. “La terapia integrata del disturbo di panico” E-pub 2004)

  • Gli attacchi di panico sono una "naturale" reazione di paura che dura poche decine di secondi. La durata dello stato ansioso dipende da ciò che si pensa o s’immagina ("ora muoio, sto impazzendo, che mi succede") che consequenzialmente fa provare ansia).
  • L'ansia ha sempre una curva che prevede una salita e una discesa naturale. Alla fine passa da sola senza dover fare nulla.
  • Gli attacchi di panico sono reazioni di difesa, geneticamente determinate, che servono per la sopravvivenza personale, poiché permettono di affrontare meglio una situazione, aumentando le proprie capacità di prestazione (concentrazione, attenzione, performance).
  • Le stesse sensazioni possono essere vissute in modo totalmente diverso. Difatti, molte persone vivono sensazioni di panico ("voglio provare adrenalina") positivamente e continuano a ricercarle.
  • Il panico non è pericoloso, deriva da come una persona interpreta le cose e le circostanze che le succedono intorno.
  • Le varie situazioni, infatti, non sono oggettivamente pericolose. È il soggetto ansioso che ha imparato a viverle come tali e deve, per questo, educarsi a interpretarle come effettivamente sono.
  • Nessuno dei sintomi, sperimentati durante l'attacco, indica che la persona è pericolosamente malata o sta per diventare pazza. Si tratta di spiacevoli fastidi che possono essere tollerati fino a che non vanno via.
  • Evitare le situazioni che provocano paura non serve a nulla. Anzi, pensando in modo catastrofico e rimandandole, si peggiora la propria ansia.
  • Il sottrarsi è parte integrante del panico. Pertanto, è molto importante addestrarsi a riconquistare il "territorio" perduto.
  • È importante imparare ad accettare l'ansia, non combatterla. L'ansia fa parte del nostro costrutto psico-fisico. Combatterla è come combattere contro una parte di sé. Rimanere a osservarla e accettare l'ansia è il modo più rapido per eliminarla.
  • E' importante imparare a osservare l'ansia, guardandola senza giudizio, né buono né cattivo, osservando i livelli massimi e minimi e le situazioni che la fanno aumentare o diminuire, rimanendo distaccati e diventando buoni osservatori di se stessi.
  • Imparare ad agire con l'ansia, normalizzando la situazione, convincendosi di essere "sani". Ritirandosi dalla situazione, l'ansia si abbasserà ma il disturbo peggiorerà. Si può rallentare, continuando a fare le cose che si stavano facendo. Non fermandosi, sia l'ansia sia la paura si ridurranno e sarà possibile, in poco tempo, riprendere a fare quello che già si stava facendo.
  • Riuscire a distrarsi dall'ansia, utilizzando tutte le tecniche di distrazione che conosciamo. Ci si può concentrare sui particolari e sui dettagli di ciò che ci circonda. Magari il descriverli a voce alta farà passare il breve momento ansioso e già dopo poco tempo ci si potrà sentire meglio.
  • Cercare di essere ottimisti e aspettarsi il meglio. Ciò che più l'uomo teme, raramente accade. Le più famose società di assicurazioni hanno guadagnato miliardi sfruttando la generale tendenza all’ansia per eventi che raramente si verificano. Esse sono pronte a scommettere con chiunque che le disgrazie previste non accadranno mai. Non le chiamano scommesse ma assicurazioni e cioè una scommessa basata sul calcolo delle probabilità.
  • Affrontare le situazioni difficili con piccoli passi, ponendosi piccoli obiettivi. Le situazioni, di cui si ha paura, devono essere affrontate gradualmente senza fretta e, frammentando le situazioni difficili, si riesce a risolvere meglio ogni loro piccola parte con soddisfazione dei risultati ottenuti.
  • Non essere sorpresi quando si sperimenta l’ansia, ma di come ci si pone nei suoi confronti. La vita prevede sempre la presenza di ansia. Va, difatti, abbandonata la convinzione magica di averla sconfitta in modo definitivo. Considerando sempre prossima l'ansia nel proprio futuro, ci si mette in una buona condizione di accettarla senza essere abbattuti.
  • Continuare ad applicarsi costantemente per rendere abituali certe nostre azioni che ci sembrano straordinarie, rinforzando la nostra sensazione di capacità di affrontare gli ostacoli della vita. 
  • Conoscere i potenziali effetti negativi dei farmaci in uso.
  • Fornire il consenso informato per i farmaci psicotropi.
  • Discutere con il proprio medico sui rischi e sui benefici dei farmaci.
  • Informarsi sulle cause biologiche probabili e psicosociali dell’ansia.
  • Evitare sostanze ansiogene come la caffeina, bevande energetiche, altri stimolanti o droghe OTC.
  • Educarsi alla diagnosi del disturbo di panico e al riconoscimento degli stimoli trigger per evitare distorsioni cognitive che possono aiutare ad amplificare l'ansia.
  • Discutere con il proprio medico sul consumo di alcol e sull'uso di droghe ricreative perché possono influire sul corso del disturbo di panico.
    Anche se alcune sostanze possono sembrare utili per evitare l'angoscia di un attacco acuto, spesso compromettono il piano di trattamento a lungo termine.
  • Ottenere il supporto della famiglia e degli amici che, se disponibili, possono ridurre al minimo eventuali comportamenti di evasione, assicurando l'adesione agli appuntamenti di terapia, alla compliance farmacologica e alla comprensione e gestione della natura dei sintomi di ansia con soluzioni ragionevoli senza attivare comportamenti disfunzionali o di sostanze non prescritte dal medico.

A tale proposito è interessante proporre al paziente un termometro dell’ansia quale quello rappresentato in figura come aiuto a mantenere tutti i concetti sopra espressi.

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