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notiziario MAggio 2013 N.5 ALIMENTAZIONE E SALUTE: VEGETALI E CARNE A CONFRONTO - Vegetali e carne a confronto per la salute

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Indice
notiziario MAggio 2013 N.5 ALIMENTAZIONE E SALUTE: VEGETALI E CARNE A CONFRONTO
Vegetali e carne a confronto per la salute
La dieta portafoglio per combattere l’iperlipidemia
Frutta e verdura salutari per la disfunzione arteriosa dell’artrite reumatoide
Nitrato delle verdure e salute cardiovascolare
Gli alimenti con antiossidanti prevengono il danno tessutale
L-arginina, sviluppo del tessuto adiposo bruno e riduzione del grasso bianco
La nicotina da solanacee commestibili e rischio di malattia di Parkinson
Moderazione nella dieta e disturbi dell’alimentazione nei vegetariani
La dieta a basso indice glicemico può invertire la disfunzione diastolica del diabetico
Raccomandazioni dietetiche europee e dell’Istituto Nazionale di Ricerca per gli Alimenti e la Nutrizione
Aderenza alle raccomandazioni dietetiche europee e rischio di cancro del colon-retto
Carico glicemico e recidiva/sopravvivenza nei pazienti con tumore del colon
Alimentazione, composizione corporea e malattia arteriosa periferica
Carne, pesce e rischio di cancro esofageo
Il decalogo alimentare dell’ANDID (Associazione Nazionale Dietisti)
Tutte le pagine

Vegetali e carne a confronto per la salute

Migliorare la nutrizione è un imperativo costante a livello internazionale nella lotta al controllo e alla progressione delle NCD (malattie non trasmissibili). La riduzione del sale nella dieta e l’attività fisica sono tra le azioni prioritarie proposte. Si stima, difatti, che l’alimentazione non salutare e l'inattività fisica hanno rappresentato globalmente nel 2010 il 10% della DALY (disability-adjusted life years). Peraltro, i rischi alimentari più importanti sono stati quelli concernenti le diete a basso contenuto di frutta e quelli ad alto contenuto di sodio.
D'altra parte, quando oggi si considera la nutrizione a livello della popolazione, si tende a ritenere altresì rilevanti le preoccupazioni per quanto riguarda la sostenibilità e l'impatto della produzione alimentare sull'ambiente. Ciò è particolarmente sentito nei termini della produzione dei gas a effetto serra (GHG).  Alcune stime, invero, riportano le emissioni globali di gas serra di origine alimentare dal 19 al 31%. Degno di nota è che alcune misure, come la sostituzione del consumo di carne rossa con altri alimenti, possono ridurre sostanzialmente tali emissioni e produrre anche reali benefici per la salute.
Le stime del consumo di carne bovina sono di circa 10 Kg/anno per persona, arrivando ai 54,5 Kg in Argentina e ai quarantadue negli Stati Uniti. Pur tuttavia, il consumo mondiale pro capite è continua crescita, in particolare in Asia a causa dello sviluppo economico delle nazioni. A tale proposito, bisogna considerare che, per la produzione dei vari alimenti, le emissioni di gas a effetto serra possono essere meglio apprezzate con il confronto con quelle di un’automobile di trasporto personale a benzina che viaggia per undici chilometri a litro. Le emissioni stimate relative alla produzione alimentare ipotizzano che 1.000 chilogrammi annui di carbonio per ettaro, pari a circa 2.700 chili di anidride carbonica, sarebbero potuti essere stati assorbiti, se non si fosse trasformato l’ambiente con le colture di foraggio o di alimenti, dalle foreste o da altra vegetazione. Il biossido di carbonio (CO2) e il metano, gas dell’effetto serra, intrappolano, così, l'energia solare che riscalda la superficie della terra. In effetti, la produzione in tutto il mondo di carne di manzo, di pollo e di maiale emette nell’atmosfera gas serra più di quanto non facciano tutte le forme di trasporto globale o i processi industriali.
Bisognerebbe, quindi, identificare più attentamente, con interventi coordinati e multidisciplinari e anche politici, modelli alimentari più sani, a basso costo e associati alle minime emissioni del gas serra. Un modo per studiare questo complesso problema delle diete, ottimizzando nel contesto più vincoli, si può ottenere, peraltro, attraverso una programmazione lineare. Questa tecnica matematica consente, difatti, la generazione di soluzioni ottimali, ad esempio di identificare il mix a minor costo degli alimenti che soddisfano i livelli dei nutrienti minimi e massimi. Per l’appunto, la programmazione lineare è stata utilizzata per decenni per informare la nutrizione con numerosi esempi recenti e con ottimizzazione delle diete verso le direzioni più salutari. Inoltre, questa metodologia ha anche iniziato a essere utilizzata per aiutare a identificare le diete associate alle più basse emissioni di gas serra.
In tale contesto, s’inserisce la dieta mediterranea tradizionale, caratterizzata da un elevato consumo di olio d'oliva, frutta, verdura e cereali. Si aggiunge un consumo moderato di pesce e pollame, un basso consumo dei prodotti lattiero-caseari, delle carni rosse, dei salumi e dei dolci e del vino ai pasti con moderazione.
Christin Heidemann dell’Harvard School of Public Health, Boston e collaboratori, considerando in gran parte sconosciuto l'impatto complessivo dei modelli alimentari sulla mortalità causata dalle malattie croniche cardiovascolari o altro, hanno voluto valutare prospetticamente dal 1984 al 2002 questa relazione in 72.113 donne, libere da infarto del miocardio, angina, chirurgia coronarica, ictus, diabete, o cancro (Circulation. 2008 July 15; 118(3): 230–237). Sulla base dell'analisi dei fattori derivati dalla somministrazione ogni 2 - 4 anni di questionari ad hoc, gli Autori hanno ottenuto i modelli alimentari dei partecipanti allo studio, identificandone due più importanti:
1) modello prudente, rappresentato da un elevato consumo di verdura, frutta, legumi, pesce, pollame e cereali integrali;
2) modello occidentale, riflettente un elevato consumo di carne rossa e lavorata, cereali raffinati, patate fritte e dolci / dessert.
Durante i diciotto anni di follow-up, occorrevano 6.011 decessi, di cui 1.154 cardiovascolari e 3.139 per cancro. Dopo aggiustamento multivariato, la dieta prudente si associava a un rischio inferiore del 28% di mortalità cardiovascolare con intervallo di confidenza 95% dal tredici al 40% e un rischio inferiore del 17% di tutte le cause di mortalità, dal 10 al 24% nel confronto tra il più alto al più basso quintile. Al contrario, il modello occidentale si associava a un alto rischio di mortalità per malattie cardiovascolari (22%, dall’uno al 48%), per cancro (16%, dal 3 al 30%) e per tutte le cause (21%, dal 12 a 32%).
In conclusione, secondo gli Autori, una maggiore aderenza al modello prudente avrebbe ridotto il rischio di mortalità cardiovascolare e totale, mentre una maggiore aderenza al modello occidentale avrebbe potuto aumentare il rischio tra le donne inizialmente sane.
In particolare dal 2005 le Dietary Guidelines for Americans, proprio in ragione  degli effetti dei grassi saturi, delle lipoproteine a bassa densità e dei livelli di colesterolo totale, consigliano una netta moderazione nel consumo di carne rossa e di trasformati. Pur tuttavia, bisogna anche fare una netta distinzione tra le carni rosse e quelle elaborate per i loro valori nutrizionali differenziali, come quelli riguardanti il contenuto di calorie, dei grassi specifici, del sodio, del ferro, o degli additivi, come i nitriti. Vi possono essere anche differenze nei metodi di preparazione, come la temperatura di cottura commerciale, che potrebbe produrre effetti diversi sul rischio cardiometabolico.

Negli Stati Uniti, sulla base dei dati rappresentativi a livello nazionale sui tipi e quantità delle carni consumate, sono state identificate in valore medio le somiglianze e le differenze dei nutrienti e / o dei conservanti delle carni rosse contro quelle trasformate.

In effetti, 50 gr di carni lavorate contenevano percentuali di calorie ed energia modestamente superiori derivate dai grassi e minori dalle proteine, rispetto alle corrispondenti quantità delle carni rosse. Coerentemente con il più basso contenuto di proteine, le carni trasformate includevano anche meno ferro ma quantità relativamente simili dei grassi saturi e leggermente inferiori del colesterolo. Differenze relativamente piccole riguardavano il contenuto dei grassi monoinsaturi, dei grassi polinsaturi, o del potassio. Più marcate differenze si riscontravano nei livelli del sodio. Le carni trasformate contenevano, difatti, livelli superiori di quattro volte di quest’ultimo elemento, 622 contro 155 mg per dose e conservanti differenti dal sale, superiori del 50%, come nitrati, nitriti e nitrosammine.
Andrew O. Odegaard dell’University of Minnesota School of Public Health – USA e collaboratori per valutare empiricamente i modelli alimentari, soprattutto nella loro associazione con il diabete di tipo 2, hanno utilizzato i dati della Singapore Chinese Health Study, relativi a 43.176 cinesi di ambo i sessi di età dai quarantacinque ai settantaquattro anni, senza diabete, malattie cardiovascolari e cancro al basale nel periodo 1993-1998 e seguiti fino al 2004 (Diabetes Care. 2011 Apr;34(4):880-5).

Gli Autori hanno identificato due principali modelli alimentari utilizzando l’analisi dei componenti principali:

  1. modello VFS, ricco di soia verdura e frutta;
  2. modello DSM, ricco di Dim Sum e carne.

I punteggi per ogni partecipante erano calcolati ed esaminati con regressione di Cox per il rischio di diabete di tipo 2. Le associazioni dei due modelli alimentari con il rischio di diabete erano modificate dallo stato di fumatore.
Nei fumatori abituali nessun modello era associato con il rischio di diabete, mentre nei non fumatori, lo era in modo inverso il modello alimentare VFS. Rispetto al quintile più basso del punteggio del modello alimentare VFS, l'hazard ratio (HR) per i quintili 2-5 erano 0.91, 0.82, 0.73 e 0.75 (p = 0.0005). Il modello alimentare DSM era positivamente associato con il rischio di diabete di tipo 2 nei non fumatori, con HR per i quintili 2-5 di 1.07, 1.25, 1.18 e 1.47 (P <0.0001).
In conclusione, il modello alimentare con una maggiore assunzione di verdura, frutta e cibi a base di soia risultava inversamente associato con il rischio di diabete di tipo 2. Invece, il modello con una maggiore assunzione di Dim Sum, carni semplici e lavorate, prodotti alimentari e bevande zuccherate e cibi fritti si associava a un aumento significativo del rischio di diabete di tipo 2 negli uomini e donne cinesi di Singapore.
S.E. Judd dell’University of Alabama Birmingham e collaboratori, riproponendo che la dieta è uno dei tanti fattori potenziali proposti per spiegare le differenze razziali e regionali nell’ictus, hanno esaminato in modo prospettico l'associazione di vari modelli alimentari con il rischio d’ischemia cerebrale acuta nello studio REGARDS (REasons for Geographic and Racial Differences in Stroke). Per questo hanno arruolato tra il 2003 e il 2007 americani sia bianchi sia di colore di quarantacinque anni o più vecchi, impiegando un approccio analitico a due stadi. In primo luogo, hanno utilizzato l'analisi delle componenti principali per valutare i modelli di dieta riguardanti cinquantasei gruppi di alimenti per 20.480 partecipanti che hanno completato il questionario di frequenza alimentare Block98. In secondo luogo, i punteggi dei partecipanti, divisi in quartili, su questi modelli sono stati poi considerati come predittivi d’incidente d’ictus con regressione di Cox. L'analisi fattoriale identificava cinque modelli dietetici:
1) di convenienza con cibi cinesi e messicani, pasta, pizza,
2) basato sui vegetali con frutta, verdura, legumi,
3) meridionale con cibi salati, fritti, carni, bevande zuccherate,
4) di dolci / grassi con dolci, zuccheri aggiunti, spuntini dolci,
5) di alcol / insalate con alcool, grassi, ortaggi.
I partecipanti con una maggiore aderenza al modello alimentare del sud avevano più probabilità di risiedere nel sud-est con un confronto Q4 Q1: 64% vs 48% e registravano un 41% di aumento del rischio d’ictus con confronto Q4 Q1: HR = 1.41, IC 95% = 1.07, 1.85. Al contrario, una maggiore aderenza al modello di base vegetale si associava a una riduzione del 29% del rischio con confronto Q4 Q1: HR = 0,71, 95% IC = 0.55, 0.91. La tendenza tra i quartili era <0,001, indicando una dose-risposta per l'aderenza a ogni modello. L’aggiunta ai modelli dello stato socio-economico, del fumo, dell'attività fisica e dell'assunzione totale di energia (calorie) attenuava l'associazione, ma il significato rimaneva lo stesso, persistendo nell’analisi dei sottogruppi esaminati solo per l’ictus ischemico. I modelli di convenienza, quello dei dolci, dell’alcol non erano associati con il rischio d’ictus.
In conclusione, secondo gli Autori il loro studio avrebbe suggerito che gli alimenti comuni della cucina meridionale, come i cibi fritti e le bevande zuccherate avrebbero potuto aumentare il rischio dell’ictus, mentre la dieta ricca di legumi, frutta, verdura e pesce lo avrebbe potuto ridurre.
In particolare lo studio dimostrava che:
a) la frequenza d’ictus era direttamente proporzionale all’abitudine alimentare meridionale dei partecipanti,
b) coloro che mangiavano cibi meridionali per circa sei volte la settimana avevano un rischio d’ictus del 41% più alto, rispetto a quelli che li mangiavano una volta il mese,
c) una dieta del sud rappresentava il 63% del rischio d’ictus tra gli afro-americani sopra di quello delle loro controparti bianche,
d) coloro le cui diete erano costituite da maggiori quantità di frutta, verdura, legumi e cereali integrali per circa cinque volte la settimana avevano un rischio d’ictus del 29% inferiore a quelli la cui dieta era scarsa in questi alimenti per consumo di circa tre volte la settimana.
Ne sarebbe, quindi, derivata la raccomandazione di incoraggiare interventi incentrati sulla maggiore diffusione del consumo di pesce e cibi a base di vegetali, riducendo i cibi fritti e le bevande zuccherate (Stroke. 2013; 44: A144).



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